Editoriali

Triste, solitario y final

Quando, nel 1974, il maggiore in pensione Yoshimi Taniguchi si recò finalmente nell’isola di Lubang nelle Filippine per riportare a casa Hiro Onoda, spiegò a colui che era stato un suo soldato e che ancora combatteva, che la guerra era finita. Onoda, persuaso, gli consegnò la sua spada, le granate, le munizioni, il pugnale con cui, se catturato avrebbe dovuto fare seppuku, e passò definitivamente dall’irrealtà in cui era vissuto per 29 anni alla realtà.

L’anziano e abusivo leader dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, continua invece a vivere come se lo scenario mediorientale fosse ancora quello degli anni ’90. Il tempo per lui non è passato ma, come nel caso del soldato giapponese, si è cristallizzato in un mondo parallelo in cui la “lotta” palestinese contro “l’entità sionista” infiamma ancora i cuori del mondo arabo pronto a sostenerla all’unanimità.

Dunque, lunedì sera, nel feudo di Ramallah, Abu Mazen si è concesso ad uso della platea, uno dei suoi soliti show in cui ha definito in ossequio alla vulgata islamica più tradizionale nei confronti degli ebrei, “figlio di un cane”, l’attuale ambasciatore americano in Israele, David Friedman. Ormai lo scontro diretto con l’Amministrazione Trump è plateale. Non solo, c’è ne è stato anche per Hamas e per l’Egitto, e ovviamente per gli stati arabi “collusi” con gli Stati Uniti. L’accordo Fatah-Hamas nato l’anno scorso, sotto l’egida di Al Sisi, è ora ufficialmente morto, anche se nessuno aveva mai scommesso un centesimo sulla sua tenuta.

Come Hitler, asserragliato nel buker di Berlino, il leader palestinese, ormai completamente isolato se non per il credito residuo di cui gode ancora in Europa, ha condannato tutti.

La fotografia è impietosa e rappresenta ormai non solo plasticamente la fine di una leadership che non è stata mai capace di fare altro se non perpetuare senza sosta la vecchia narrativa consolidata alla fine degli anni ’60, di Israele ladro di terra palestinese e stato colonialista, ma anche, di come questa narrativa abbia un appiglio del tutto residuale sulle leadership arabe.




Al di là del supporto di cui essa gode in Europa, soprattutto a sinistra e in modo oltranzista nelle frange più radicalizzate di quest’ultima e dell’estrema destra neofascista, gli stati arabi sunniti, con l’eccezione della Turchia e dell’Iran sciita, hanno da tempo voltato le spalle alle rivendicazioni palestinesi. In sella al presente, oggi, ci sono questioni percepite come assai più rilevanti, e di fatto, la saldatura tra l’Amministrazione Trump e l’Arabia Saudita, il cui nuovo volto è rappresentato dal giovane principe regnante Mohamed Bin Salman, il quale verrà ricevuto la settimana prossima alla Casa Bianca, certifica un profondo cambiamento dopo il grande freddo intercorso con l’Amministrazione Obama.

E’ merito di Donald Trump avere rovesciato il tavolo della perdurante finzione inscenata da Abu Mazen, chiamando i palestinesi alla realtà, quando nel dicembre scorso, dichiarò ufficialmente Gerusalemme capitale di Israele e decidendo di spostarvi l’ambasciata americana, aggiungendovi il taglio di fondi all’UNRWA e assumendo all’ONU una posizione risoluta di contrasto alle iniziative pro-palestinesi, da cinquanta anni ossessivamente perseguite. La dichiarazione di Gerusalemme capitale di Israele è stata una mossa concordata non solo, come è ovvio, con Israele, ma sostenuta anche, non ufficialmente, dai paesi arabi, i quali hanno dovuto ritualmente esprimere la loro contrarietà, ma di fatto non hanno avuto nulla di sostanziale da eccepire.

In questo scenario profondamente mutato, da quando Yasser Arafat nel 2000 chiamava la Seconda Intifada, Abu Mazen continua a muoversi come Hiro Onoda nella vegetazione di Lubang, incapace di capire che il nemico eterno sionista ha già vinto da decenni la battaglia sul terreno, e che malgrado la fenomenale macchina di delegittimazione messa in piedi dagli stati arabi con l’ex Unione Sovietica alla fine della Guerra dei Sei Giorni, i palestinesi hanno definitivamente perso la loro guerra contro Israele. Cosa che l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania, e gli emirati arabi hanno compreso bene, ma che mai si è palesata così come accade oggi.




Non resta dunque altro, in vista della road map che proporrà l’Amministrazione Trump che accettare la propria capitolazione, sedersi a un tavolo e negoziare. Naturalmente, Abu Mazen, leader ormai scaduto, non lo farà mai, non ne ha né l’autorevolezza, né la caratura morale, ma chi gli succederà, non potrà che prendere atto che la strada è senza uscita, sbarrata dalla realtà dei fatti, da un Medioriente dove Israele rappresenta per i paesi sunniti una garanzia insieme agli Stati Uniti nei confronti delle mire espansionistiche iraniane, a tutti gli effetti la maggiore e perdurante minaccia regionale.

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