Un contenzioso legale che va avanti da anni relativo ad alcune abitazioni nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, diventa l’ennesimo pretesto per presentare Israele dalla parte del torto. Ci siamo abituati da lungo corso, almeno dal 1967. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e Israele ha dovuto affrontare momenti assai difficili, ma ciò che è rimasto costante è l’accanimento nei suoi confronti.
La martirologia palestinse ha ormai fatto definitivamente breccia, si inscrive facilmente nel grande canovaccio della divisione manichea che vuole i carnefici e le vittime divisi chiaramente. I primi sarebbero, naturalmente, gli israeliani, le seconde i palestinesi. La propaganda, come sapeva bene il Dottor Goebbels, si riassume in poche idee, e più sono semplici più sono efficaci.
Israele non è mai riuscito a contrastare veramente una narrativa tutta fondata sull’emotivitità, su un racconto elementare e strumentale, che oggi ingloba anche la vicenda di Sheikh Jarrah, dove, non importa se i settanta palestinesi che dovrebbero lasciare le loro abitazioni, siano morosi e abusivi, non importa che ci sia una sentenza del 1982 la quale stabilisce che due organizzazioni no profit ebraiche siano le proprietarie legali del terreno sul quale sorgono le abitazioni. Tutto questo è irrilevante, spazzato via dal vento impetuoso della propaganda. Così, tra gli altri, qui in Italia, Gad Lerner, può evocare la pulizia etnica, riprendendo un vecchio cavallo di battaglia di uno screditato ideologo travestito da storico di nome Illan Pappe.
Il romanzo nero su Israele è composto da pennellate grossolane, non c’è tempo per i distinguo e i discernimenti, ed ex vecchi lottatori continui come Lerner, o parossistici invasati come Gideon Levy, si rivlogono ad un pubblico affezionato che non ama variazioni sul tema. La colpevolezza di Israele è a prescindere, come il postulato di un teorema, tutto il resto ne consegue.
Dentro questo meccanismo ben oleato, Hamas gioca la sua partita. Lancia razzi su Israele, sobilla i tumulti che in questi ultimi giorni hanno luogo a Gerusalemme. Il suo scopo è mostrare chi è davvero in grado di contrastare “l’occupante sionista”, certo non il vecchio padrino di Ramallah, quell’Abu Mazen che non rischia di indire le elezioni nei territori perchè ne uscirebbe perdente definitivamente.
A Gaza, il gruppo di estremisti che la controlla con pugno di ferro dal 2007, sa che Israele non può permettersi una incursione interna. L’ultima volta che lo fece, nel 2014, non solo la riprovazione internazionale giunse, come al solito, allo zenith, ma morirono più di sessanta soldati israeliani. Un prezzo in vite che il paese, oggi, non è più disposto a pagare. Dunque, si lucra su questa debolezza, nonostante la disparita di forze sia eclatante.
Non si tratta di vincere nessuna guerra, obbiettivo al di là della possibilità di Hamas, ma di mantenere il proprio potere a Gaza e incrementare la propria autorevolezza regionale. D’altronde, Benjamin Netanyahu non ha mai nascosto la sua avversione per operazioni che possano destabilizzare lo status quo, è meglio che Hamas continui a foraggiarsi con i soldi provenienti dal Qatar piuttosto che cimentarsi in una incursione approfondita nell’enclave. Distruggere Hamas significherebbe per Israele una gatta da pelare non indifferente, non c’è alcuna intenzione di riprendere il controllo di un territorio abbandonato nel 2005.
Si procede così di stallo in stallo, con momenti di tensione, e anche l’eventuale dopo Netanyahu, il pastrocchio governativo che si profila all’orizzonte, non muterà le cose. Da tempo ormai Israele ha rinunciato alla vittoria, tirare a campare, come diceva il Divo Giulio, è assai più conveniente.