Se non ve ne rammentate più, vi dirò che
l’incinerazione segue il suo corso, e la
consumazione va da sé, come la stessa
cenere.
Jacques Derrida
I tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith
Paul Celan, “Fuga di morte”, da Papavero e memoria
“In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma anche se qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. Forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove insieme a voi. E anche quando qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti; dirà che sono esagerazioni della propaganda Alleata e crederanno a noi, che negheremo tutto, e non a voi. La storia dei lager, saremo noi a dettarla”1. Citando le ultime pagine di Gli assassini sono tra noi di Simon Wiesenthal nel suo I sommersi e i salvati, Primo Levi metteva in evidenza che la negazione della Shoah era realmente iniziata con i suoi stessi autori. Subito dopo la guerra, vi erano stati notevoli sforzi per ridurre al minimo le atrocità naziste e giustificare la politica nazista contro gli ebrei, sostenendo la loro esagerazione, la non conoscenza dello sterminio da parte dello stesso Hitler, e le non meno crudeli azioni militari Alleate. In questa fase era assente la negazione dell’Olocausto, o almeno, non vi era niente di simile a un movimento di negazione. Ma ciò è cambiato, soprattutto dopo il processo contro Adolf Eichmann nel 1961, quando è sorto qualcosa di più sinistro di un movimento che nega la storia interamente, dato che camuffa l’immoralità, il razzismo, e obiettivi politici con la storia legittima.
La negazione dell’Olocausto è stata propagandata con tempistiche diverse, con alterni risultati, da diversi sostenitori e attraverso mezzi diversi. I negazionisti hanno risposto alle varie richieste dei circoli della negazione, in Paesi e in sedi diversificate: i movimenti di destra, le onde improvvise o rigurgiti di antisemitismo, le tendenze storiografiche, e nuovi lavori (degli stessi negazionisti e degli storici di professione) hanno contribuito alla riscrittura e alla diffusione della letteratura della negazione dell’Olocausto.
A differenza degli storici di professione, i negazionisti hanno dovuto modellare le loro opere per far sì che fossero considerate scientificamente accettabili. In particolare, hanno cercato di guadagnare legittimità in quanto partecipanti di una ricerca storica. Come Charles Maier e Deborah Lipstadt hanno suggerito, “essi hanno lavorato duramente per insinuarsi nell’arena della discussione e del dibattito storico”2. In un certo senso, quindi, si potrebbe affermare che i negazionisti hanno usato il revisionismo come un mezzo per dare un fondamento più solido alla loro ricerca.
Nel complesso, questo contributo analizza tali tentativi concentrandosi sulla mutevole natura della letteratura negazionista dell’Olocausto. Ciò comprende l’esame dei primi negazionisti, coloro che sono considerati come gli antenati del movimento: Harry Elmer Barnes, Paul Rassinier, e Austin App. I loro sforzi hanno contribuito notevolmente alla letteratura negazionista odierna e, come vedremo, hanno aiutato in molti modi a fornirgli una parvenza di studio legittimo, nonché una certa credibilità. La credibilità e l’accettazione sono davvero le due mete a cui ambiscono i negazionisti.
A seguito dei lavori di Barnes, Rassinier, e App, i nuovi negazionisti hanno sempre più riconosciuto l’importanza dell’apparenza di una ricerca, in altre parole, solo evitando epiteti razziali espliciti e, soprattutto, scrivendo nello stesso modo e nella stessa forma degli storici di professione, le loro opere avrebbero potuto ottenere la ricercata credibilità.
È interessante notare che, nella fase iniziale, i leader negazionisti sono stati più cospicui negli Stati Uniti e in Francia. Maurice Bardéche, un teorico francese, critico letterario, e simpatizzante fascista, per esempio, iniziava a scrivere sui campi di concentramento subito dopo la guerra. Come hanno osservato Deborah Lipstadt e Gil Seidel, “egli fu il primo a sostenere che le prove fotografiche e documentali sul processo di assassinio erano state in realtà falsificate” e che “le camere a gas erano utilizzate per la disinfezione e non per l’annientamento”3. Solo nel lavoro di Paul Rassinier, tuttavia, era dato credito esplicito alle idee di Bardéche. Questo senza dubbio a causa dei suoi manifesti sentimenti antisemiti e fascisti- sentimenti che i negazionisti tentano di rendere meno palesi.
È importante evidenziare che mentre il successo non è facilmente misurabile, i negazionisti stanno seguendo un percorso che può, nel tempo, dare credito al loro lavoro. La negazione del genocidio non è, dopo tutto, affatto nuova. Uno dei primi deliberati tentativi di sterminare un intero popolo fu intrapreso dai turchi nel 1915 con il genocidio armeno. Come per l’Olocausto, le prove che attestano la sua veridicità sono schiaccianti, tuttavia è all’opera un forte movimento che nega lo sterminio degli armeni. Negli Stati Uniti, questo movimento è da tempo in atto e continua a crescere, non da ultimo a causa due motivi: in primo luogo, questa negazione è sostenuta sia dal Governo turco sia da storici di professione; in secondo luogo, la negazione ha assunto una forma del tutto nuova, infatti, anche se il numero esatto dei morti è ancora oggetto di dibattito, i negazionisti del genocidio armeno sono andati oltre i “fatti” e negano che ciò che accadde costituisca un eccidio4.
È improbabile che la negazione dell’Olocausto ottenga l’implicita accettazione e il sostegno da parte dei funzionari di un Governo del mondo Occidentale, tuttavia, la tattica di rifiutare l’accusa di genocidio è molto pericolosa. Ciò dovrebbe fornire ancora più impulso agli storici per un confronto con i negatori dell’Olocausto, invece di ignorarli tacitamente.
Cominciando come una serie di movimenti localizzati (rilevanti per la loro indipendenza, in quanto la maggior parte dei primi negazionisti non intendevano creare dei legami reciproci), i negazionisti non avevano forgiato alcuna identità particolare fuori dall’arena politica, in quanto erano già facilmente identificabili per il loro antisemitismo e gli orientamenti di estrema destra. In altre parole, i legami non sono stati creati sulla base della negazione dell’Olocausto, sono stati formati in organizzazioni politiche di destra, che erano per la loro stessa natura localizzate e marginali. Per la maggior parte, l’antisemitismo di tali formazioni è stato facilmente identificabile perché era palese nel discorso polemico. Negare la Shoah in un modo così manifesto ha fatto sì che il legame tra antisemitismo e negazionismo fosse altrettanto facilmente identificabile.
Anche nella fase iniziale, tuttavia, vi furono delle eccezioni alla nozione che i negazionisti fossero estremisti privi di qualsiasi legittimità. Harry Elmer Barnes, ora conosciuto come il padre della negazione dell’Olocausto, professore di storia e revisionista della storia della Seconda Guerra mondiale il cui lavoro si è sempre contraddistinto per una forte posizione antigovernativa, non è stato, nel periodo immediatamente successivo al Secondo Conflitto, un negazionista della Shoah.
La sua attenzione era focalizzata sulla critica del Governo americano e degli Alleati. Per esempio, la sua condanna del bombardamento di Dresda, e, ancora più in particolare, la critica al coinvolgimento statunitense nella guerra lo portarono a simpatizzare con i tedeschi. Ricordando le false accuse concernenti le atrocità commesse dalla Germania durante la Prima Guerra mondiale, Barnes riteneva le imputazioni mosse ai tedeschi durante il Secondo Conflitto per lo meno esagerate, più probabilmente false5. Nel 1947 pubblicò un pamphlet dal titolo The Struggle against Historical Blackout, in cui sosteneva che vi era in atto una censura nei confronti di coloro che mettevano in dubbio le responsabilità tedesche per lo scoppio della Seconda Guerra mondiale. In Blasting the Historical Blackout del 1963, metteva in dubbio la veridicità di alcuni dei “presunti crimini di guerra” nazisti. Prima della morte nel 1968, Barnes pubblicava Revisionism: a Key to Peace (1966), un lavoro prettamente negazionista che lo avvicinava alle idee divulgate da Paul Rassinier.
Come Barnes, Paul Rassinier è accreditato dagli attuali negazionisti come uno dei primi fondatori del movimento; infatti, il suo lavoro ha avuto l’effetto di convincere lo stesso Barnes della veridicità della negazione dell’Olocausto.
Rassinier fu prima comunista, poi socialista, membro della resistenza francese durante la Seconda Guerra mondiale. Arrestato dai tedeschi, fu deportato a Dora e a Buchenwald. Partendo dalla sua esperienza dei campi di concentramento, non di sterminio, pubblicava una serie di libri (Passage de la ligne, 1948; Le mensonge d’Ulysse, 1950; Ulysse trahi par les siens, 1961; Le Véritable procès Eichmann ou les vainqueurs incorrigibles, 1962; Le Drame des juifs européens, 1964) per denunciare la “menzogna storica” rappresentata ai suoi occhi dall’evocazione della Shoah.
La posizione di Rassinier è divenuta progressivamente più radicale. Nel primo libro, si concentrava prevalentemente sul regime staliniano, colpevole, come il comunismo in generale, per la deflagrazione del Secondo Conflitto mondiale. È possibile osservare un primo tentativo di ridimensionare il genocidio ebraico, poiché l’autore evidenziava l’interesse politico dei comunisti a esagerare le colpe dei tedeschi per nascondere i crimini sovietici. Nella seconda edizione di Le mensonge d’Ulysse considerava le camere a gas “una questione irritante”. Successivamente, si impegnava a dimostrare, attraverso astrusi calcoli non scientifici, che il numero degli ebrei morti non superava il milione, ed era stato causato per la maggior parte dai bombardamenti alleati sui campi, dalle malattie, dagli stenti e dai maltrattamenti dei kapò. Rassinier divenne sempre più ossessionato da un presunto complotto giudaico ed iniziò a riferirsi alla Shoah come alla “più tragica e più macabra impostura di tutti i tempi”. Il titolo del libro pubblicato nel 1964, Le Drame des juifs européens, non concerneva la tragedia della morte di sei milioni di ebrei, ma il dramma era identificato nel fatto che gli ebrei stessi avessero voluto farci credere alla Shoah. Nel 1967, in Les responsables de la seconde guerre mondiale, incolpava gli ebrei per la deflagrazione del conflitto.
Un altro negazionista statunitense è Austin J. App, un tempo professore di inglese presso l’Università di Scranton e il Lasalle College, considerato il teorico principale del negazionismo dell’Olocausto per aver formulato nel 1973 gli otto assiomi del negazionismo, ancora adesso adoperati dall’Istitute for Historical Review che coordina le attività di tutti i principali negazionisti. Gli assiomi sono:
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La soluzione finale consisteva nell’emigrazione e non nello sterminio;
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Non ci furono gassazioni;
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La maggior parte degli ebrei scomparsi emigrarono in America e in Unione Sovietica facendo perdere le loro tracce;
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I pochi ebrei giustiziati dai nazisti erano criminali sovversivi;
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La comunità ebraica mondiale perseguita chiunque voglia svolgere un lavoro di ricerca storica onesta attorno alla Seconda Guerra mondiale per timore che emerga la verità dei fatti;
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Non vi sono prove del genocidio;
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L’onore della prova sta dalla parte degli sterminazionisti;
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Le contraddizioni presenti nei calcoli demografici della storiografia ufficiale dimostrano con certezza il carattere menzognero della loro tesi.
Nei libri di App comparivano tematiche classiche della retorica antisemita, come il presunto controllo ebraico dei mezzi di informazione. A differenza di Barnes, App si è mostrato subito convinto della falsità dell’Olocausto, essendo anche molto più esplicito per quanto concerneva il suo razzismo e la sua ideologia politica. A titolo esemplificativo si propongono alcuni dei temi sviluppati da App: “il terzo Reich voleva l’emigrazione degli ebrei, non la loro liquidazione. Se avesse voluto eliminarli non ci sarebbero in Israele 500.000 sopravvissuti ai campi di concentramento [cifra prettamente immaginaria] che percepiscono indennità tedesche per delle persecuzioni immaginarie. Non un solo ebreo è stato gassato in un campo di concentramento. In questi campi c’erano dei forni crematori per bruciare i cadaveri di coloro che erano morti per una ragione qualunque, e in particolare in seguito ai raid genocidari dei bombardieri anglo-americani. La maggior parte degli ebrei che morirono nei pogrom e quelli che sono scomparsi e dei quali non è stata trovata traccia sono morti nei territori controllati dall’URSS, non dalla Germania. La maggior parte degli ebrei che si pensa siano stati uccisi dai tedeschi erano elementi sovversivi, partigiani, spie e criminali e spesso anche vittime di rappresaglie deprecabili, ma tuttavia conformi al diritto internazionale”6. Sono facilmente identificabili le diverse componenti di questo discorso ideologico: nazionalismo tedesco, neonazismo, anticomunismo, antisionismo, e antisemitismo. Queste tematiche si ritrovano in forme e proporzioni variabili a seconda degli autori, per esempio negli scritti di Paul Rassinier il nazionalismo tedesco non svolge una funzione principale. Colpisce la componente dell’antisemitismo, che intende privare una comunità della sua memoria storica svuotandola di veridicità.
In genere, tuttavia, l’esplicito antisemitismo dei loro precursori ha portato i nuovi negazionisti a dissociarsi da loro o, in alcuni casi, a criticarne le opere. È esattamente ciò che fece Arthur Butz in The Hoax of the XXth Century, edito nel 1975, in cui condannava molti dei primi negazionisti e soprattutto i loro metodi, sostenendo che erano inaffidabili e non scrupolosi nell’impiego delle fonti. Butz non affermò mai di voler creare una scuola di pensiero, ma come professore di ingegneria presso la Northwestern University egli era senza dubbio consapevole del fatto che le affermazioni che ottengono una legittimità scientifica avevano, ed hanno, delle caratteristiche metodologiche determinate. In altre parole, lo scrivere nella stessa forma e nello stesso modo degli storici professionisti non era sufficiente; pertanto, Butz esaminava le opere dei primi negazionisti non allo scopo di condannare la loro convinzione che l’Olocausto non fosse mai avvenuto, ma, imitando uno storico di professione, sosteneva che tali lavori fossero carenti in alcune caratteristiche fondamentali.
Tutto questo, naturalmente, contribuisce a rendere più chiare le strategie attuali adoperate dai negazionisti. Solo assumendo l’aspetto della professionalità storica i negazionisti possono ottenere una qualche forma di rispetto e le loro opere entrare nell’ambito storiografico. Sebbene App sia considerato il primo teorico della negazione della Shoah, è stato Butz a modificare radicalmente la struttura e la sostanza della letteratura negazionista. Ha ammesso che i membri del Partito nazista avevano delle posizioni antisemite avendo commesso “certe azioni antisemite”, riconoscendo la colpevolezza di alcuni individui7. Chiaramente, però, tali concessioni non danno alcuna validità al lavoro di Butz, almeno da parte degli storici professionisti. Con Arthur Butz ci si confronta con un accademico che comprende sicuramente il valore della percezione di legittimità.
Esaminando la letteratura della negazione, Butz fu impressionato dalle modalità attraverso le quali essa si presentava al lettore; molti dei testi e degli articoli mancavano di quelle caratteristiche metodologiche proprie di un saggio accademico. La maggior parte degli storici visualizza oggettivamente le prove. La nozione di oggettività si dispiega nello scrivere in terza persona e in modo impersonale. Per gli storici di professione questo assioma rimane un punto fermo della disciplina. Per i negazionisti le narrazioni in terza persona e le rivendicazioni di autorità servono anche a mascherare la propria ideologia o almeno a ridurre al minimo il suo aspetto esteriore e a nascondere i suoi effetti. Per Butz, di conseguenza, lo sforzo deliberato di rendere The Hoax of the XXth Century meno antisemita è rivelatore. Inoltre, ha fatto apparire il suo lavoro più accademico facendo uso di prove e di citazioni. Quindi, anche se quel testo è quasi illeggibile, per il lettore occasionale e inesperto porta il marchio dell’autenticità. Ciò ha spinto lo storico francese Pierre Vidal-Naquet a definirlo “il più abile tra tutti i negazionisti”8, e ad affermare che The Hoax of the XXth Century è un testo in cui “il lettore è persuasivamente condotto per mano e portato poco a poco verso l’idea che Auschwitz è una voce tendenziosa che abili propagandisti hanno gradualmente trasformato in verità”9. Butz denominava “mitologi dello sterminio” gli storici che avevano ricostruito la storia del genocidio. Ideando questa definizione, ha spiegato ciò che lui stesso e gli altri negazionisti hanno realizzato nelle loro opere: un ragionamento che sostituisce il reale con il fittizio.
Per molteplici ragioni, i lavori di Butz rimangono fondamentali per i negazionisti. È interessante notare che gli Stati Uniti rappresentano il luogo più importante per i negazionisti poiché il Primo Emendamento protegge la libertà di parola, il che significa che né Butz né l’Institute for Historical Review, in quanto editore, possono essere perseguiti per aver negato l’Olocausto.
Nonostante l’importanza che gli viene conferita dal movimento negazionista, Arthur Butz non ne è stato il portavoce, al contrario di Robert Faurisson, in precedenza professore di letteratura francese all’Università di Lione 2. Il suo emergere come rappresentante dei negazionisti è stato il risultato della sua posizione, della legge francese e della storia nazionale.
Faurisson riuscì a trasformare un gruppo dalle idee deliranti, e per questo privo di un’ampia platea, in un caso internazionale, infatti, egli si atteggiava a vittima dell’ortodossia storica accademica, guadagnandosi l’appoggio e il sostegno di molti esponenti della sinistra che si battevano per chiunque avesse una tesi eterodossa da esporre. Tra i più accaniti difensori di Faurisson vi fu anche Noam Chomsky che nel 1980 pubblicò l’articolo Some Elementary Comments on the Rights of Freedom of Expression, in cui prendeva le sue parti biasimando gli attacchi che gli erano stati sferrati.
È possibile analizzare le argomentazioni di Faurisson prendendo in esame l’ultimo paragrafo di una lettera che scrisse nel dicembre del 1978 al giornale parigino “Le Monde”, con l’esemplificativo titolo Il problema delle camere a gas o la diceria di Auschwitz: “Il nazismo è morto e sepolto, col suo Führer. Oggi rimane la verità. Osiamo proclamarla. L’inesistenza delle camere a gas è una buona notizia per la povera umanità. Una buona notizia che si farebbe male a tenere ancora nascosta”10.
In realtà, lungi dall’essere semplicemente simbolico, sembra perfettamente logico che Faurisson sia divenuto l’alfiere del negazionismo. Esteriormente, ma soltanto ad una lettura superficiale, le sue parole non mostrano un virulento antisemitismo del tipo che in precedenza aveva contraddistinto il movimento negazionista; infatti, il messaggio si presenta come una buona notizia, una benedizione per l’umanità. La rivendicazione di Faurisson di essere al servizio della “verità” appare in gran parte della letteratura negazionista. Il lavoro di Faurisson acquisì notorietà grazie alla sua posizione accademica e al messaggio edificante.
La sua successiva affermazione era che il preteso genocidio faceva parte di una menzogna storica, i “cui principali beneficiari sono lo Stato d’Israele e il sionismo internazionale e le cui principali vittime sono il popolo tedesco, ma non i suoi leader, e il popolo palestinese nella sua interezza”. Queste parole chiariscono l’antisemitismo in precedenza mascherato, ed hanno portato anche alla sua condanna da parte della prima sezione della Corte d’Appello di Parigi il 26 aprile del 1983. Attraverso il processo e un articolo pubblicato su “Le Monde”, Faurisson ottenne un’ampia fama. Inoltre, la pubblicazione accanto al suo intervento del contributo di George Wellers, del Centre de Documentation Juive Contemporaine, intitolato Abbondanza di prove, creò una parvenza di legittimo dibattito su una domanda con due diverse risposte, ognuna delle quali, come suggerisce Jeffrey Mehlman, avrebbe potuto sembrare ragionevole. Questo è esattamente ciò che storici come Deborah Lipstadt e Pierre Vidal-Naquet hanno temuto di più; il fatto che qualsiasi forma di attenzione possa risultare vantaggiosa per il movimento negazionista aiuta a spiegare la motivazione per cui gli storici hanno per lo più ignorato o respinto il negazionismo della Shoah in quanto soggetto indegno di risposta.
Almeno una parte della notorietà di Faurisson derivava dal suo precedente incarico di docente presso un’università francese. Sia per Faurisson sia per Butz l’essere un professore universitario ha conferito loro un segno immediato di credibilità. Nel caso di Faurisson, tuttavia, vi era un elemento ulteriore, mancante nella figura di Arthur Butz e negli altri negazionisti: l’appropriazione del termine revisionista. In Francia, questo termine ha una particolare risonanza, dal momento che era in origine utilizzato in riferimento alla revisione o alla riapertura del processo Dreyfus, e quindi portava con sé anche il marchio di autenticità, autorità morale, e libertà intellettuale. Faurisson ha adoperato il termine revisionista al fine di proiettare l’aspetto di un legittimo riesame del passato.
È chiaro, quindi, che la negazione dell’Olocausto si è evoluta, in particolare nel corso degli ultimi due decenni. Precedentemente l’impresa di estremisti politici e altri radicali, pamphlet negazionisti e similari non solo apparivano non dotti e antisemiti, ma gli stessi media attraverso cui erano diffusi avevano una dubbia reputazione. Anche questo aspetto ha subito un cambiamento significativo quando è stato fondato nel 1978 in California l’Institute for Historical Review, che ha cercato di fornire un forum pseudo accademico ai negazionisti. Il risultato più notevole è stato il lancio, nel 1980, del “Journal of Historical Review”.
Chiaramente, alcuni membri dell’IHR sono complici nella campagna di ultra-destra per riabilitare il fascismo, mentre alcuni sono semplicemente antisemiti11.
È altrettanto palese che l’IHR viene utilizzato come maschera: i negazionisti non vogliono mostrare il loro orientamento politico o le loro credenze razziali per timore di subire ripercussioni dal punto di vista lavorativo. Analogamente, l’IHR tenta di dissimulare l’antisemitismo dei propri scrittori. Non è stato sicuramente un caso trovare tra le sue fila immediatamente Butz, Faurisson, e App. Dalla data della sua creazione, l’IHR ha svolto la funzione di polo di attrazione per tutti i negazionisti, che hanno avuto la possibilità di convergere in un’unica istituzione e di elaborare strategie comuni. L’istituto si occupava dell’organizzazione dei convegni annuali, della pubblicazione del “Journal of Historical Review” e della vendita e distribuzione di materiale audiovisivo e di libri di argomento negazionista, antisionista e antisemita, per esempio, nel catalogo generale erano inseriti anche i Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Dopo l’estromissione di Wills Carto, la redazione della rivista ha cercato di cancellare il suo precedente passato neonazista, dando spazio anche a saggi su tematiche differenti dai testi negazionisti sulla Seconda Guerra mondiale, in modo da fornirgli una parvenza di legittimità scientifica, oltre a dare un’immagine di maggior rigore e obiettività storica. È interessante notare come, al contempo, si è tentato di stringere delle alleanze con la nuova destra europea, in modo da acquisire una base ideologica rispettabile.
Prima dell’avvento di Internet, è stata l’attività dell’IHR a diffondere maggiormente le tesi del negazionismo, infatti, vi sono prominenti negazionisti in America del Nord, Inghilterra, Europa continentale, Russia, Giappone, Australia e Medio Oriente, e molti di loro hanno collegamenti con l’IHR. Geograficamente, tuttavia, il loro successo ha continuato a dipendere da fattori quali le credenze contemporanee, la politica, il sistema legislativo, le tendenze storiografiche, tutti elementi strettamente correlati alla storia dei singoli Paesi.
Stella Rock e Rotem Kowner, per esempio, hanno studiato rispettivamente i movimenti negazionisti in Russia e in Giappone, notando che vi sono notevoli variabili nell’accettazione della negazione della Shoah. Per quanto concerne la Russia, Rock evidenzia come la negazione dell’Olocausto si integri con la tendenza generale verso la revisione della storia e della memoria collettiva, causata dalla caduta del comunismo, e con un antisemitismo già esistente. Tuttavia, non vi è una letteratura negazionista “nativa”, ma testi di origine occidentale, alcuni dei quali tradotti in russo. Negazionisti come Jürgen Graf e Carlo Mattogno hanno dei collegamenti in Russia, e il lavoro di Graf, Il mito dell’Olocausto, ha guadagnato un grande seguito, dato che la prefazione era stata scritta da Oleg Platonov, dal 1997 membro dell’Institute for Historical Review e della redazione del Journal of Historical Review. A causa dell’odio verso il nazismo presente nella società russa, dopo le devastanti esperienze della Seconda Guerra mondiale, la negazione dell’Olocausto ha richiesto per essere accettata una particolare modalità esplicativa. Come ha acutamente osservato Stella Rock “la teoria della negazione occidentale dell’Olocausto è in parte volta a riabilitare il nazismo, ma non può essere comodamente trasferita al contesto russo”. In termini numerici, i russi hanno sofferto più vittime nel Secondo Conflitto rispetto a qualsiasi altra popolazione, per questo negazionisti come Graf si concentrano sulla relativizzazione e sulla minimizzazione dell’esperienza ebraica basandosi su cifre che mettano a confronto le condizioni degli ebrei e dei sovietici durante la guerra. Graf e Platonov distinguono anche tra ebrei e sionisti: i primi hanno subito delle perdite, mentre i secondi hanno approfittato dell’Olocausto per guadagno personale. In questo modo, sembrano, come Butz prima di loro, simpatizzare per gli ebrei che hanno sofferto e sono morti per mano dei nazisti, ma contemporaneamente banalizzano l’esperienza ebraica nel suo insieme. Nella letteratura russa negazionista, i fascisti sono spesso ebrei: Hitler era alleato dei sionisti, che sacrificarono i propri fratelli; il Führer, Himmler, e Eichmann erano tutti ebrei. In altre parole, i negazionisti riescono a diffamare il nazismo e il sionismo legandoli insieme. Platonov utilizza, invece, un tema cardine della retorica antisemita, collegando il giudaismo con il comunismo, attraverso un presunto complotto ebraico finalizzato a distruggere la Russia dopo il 1917. In questo modo, lui e gli altri negazionisti giustificano la frase “Olocausto russo” e le richieste dei russi per un risarcimento da parte degli ebrei per il genocidio subito.
La letteratura negazionista russa non ha ancora creato quella facciata accademica tipica dei suoi predecessori occidentali, assumendo, invece, delle caratteristiche politiche e politicizzate. Infatti, la storiografia della Shoah in sé ha ricevuto scarsa attenzione nella vecchia Unione Sovietica e nella Russia della glasnost, di conseguenza, vi è una limitata consapevolezza da parte dell’opinione pubblica dell’Olocausto. È ipotizzabile che con il crescere della consapevolezza da parte della società civile vi sia un aumento della proliferazione della letteratura negazionista, poiché la Russia è un Paese che sta rivedendo il suo passato in cerca di una legittimazione, con una tradizione di antisemitismo e di credenze cospirative. Rock ipotizza che “l’antisemitismo diventerà parte integrante dell’identità russa post-sovietica”. Come è accaduto con i negazionisti occidentali, la chiave sarà la creazione di una facciata di legittimità, molto più semplice in Russia dato che si sta attuando contemporaneamente ad una revisione di tutta la storiografia nazionale.
Mentre Stella Rock ha studiato la nuova Russia che deve ancora confrontarsi con la sua identità post-sovietica, fatto che la rende un terreno fertile per la negazione dell’Olocausto in base alla preesistente tradizione antisemita, Rotem Kowner ha esaminato le cause e gli effetti del movimento negazionista in Giappone, un Paese che non ha una lunga storia di antisemitismo o un supporto delle autorità ad esso. Infatti, le relazioni ebraico-nipponiche iniziarono solo nel 1854, quando il Giappone fu costretto ad aprire i suoi porti, mentre i pregiudizi e egli stereotipi sugli ebrei comparvero soltanto durante la Seconda Guerra mondiale.30
La conoscenza da parte dell’opinione pubblica della Shoah, del resto, è stata trascurabile almeno fino alla pubblicazione del Diario di Anne Frank, mentre una reale comprensione dell’Olocausto non è avvenuta fino al processo contro Adolf Eichmann. L’immagine giapponese dell’ebraismo sembra, quindi, rifarsi agli stereotipi storici degli ebrei, riscontrabili soprattutto nella letteratura antisemita come i Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Data l’affinità culturale giapponese con fenomeni quali “l’occultismo, le manifestazioni soprannaturali, e una vasta gamma di cospirazioni”, gli ebrei erano (e sono) facilmente associati al ruolo di “manipolatori del mondo”; essi sono “i diversi” e, quindi, trovano un posto nella letteratura giapponese popolare.
Appropriatamente, Kowner definisce il negazionismo giapponese “un esempio quasi unico di antisemitismo senza ebrei”. Nonostante l’assenza di una forte tradizione specificatamente antisemita, altri fattori hanno giocato un ruolo importante nello sviluppo del negazionismo in Giappone, per esempio, la sua storia; il Giappone ha avuto delle difficoltà nel confrontarsi con il suo passato, dato che ha assunto il ruolo stereotipato della vittima come risultato delle bombe di Nagasaki e Hiroshima, ignorando volutamente o negando le atrocità commesse in tempo di guerra, in particolare il massacro di Nanchino. Inoltre, molti giapponesi considerano le bombe sganciate a Nagasaki e Hiroshima crimini equivalenti allo sterminio avvenuto ad Auschwitz. Anche se questo non costituisce in sé una negazione, l’analogia è servita a risvegliare la sensibilità nazionale, e almeno uno scrittore ha rappresentato la sopravvivenza dopo la bomba atomica di gran lunga peggiore della sopravvivenza alla Shoah.
Pertanto, non dovrebbe essere del tutto sorprendente che in Giappone l’IHR abbia trovato un pubblico ricettivo, e che la crescita del negazionismo, a partire dalla metà degli anni Ottanta, abbia seguito la tendenza dei Paesi occidentali. Uno Masami, il primo negazionista giapponese, ha dei collegamenti di lunga data con l’IHR; come altri, Uno ha sostenuto che i sionisti avevano sfruttato l’Olocausto al fine di costituire lo Stato di Israele. Egli ha anche affermato che il Diario di Anne Frank era un falso. I negazionisti hanno profuso molte energie nel cercare di provare la falsità del diario; dal punto di vista prettamente storico, nessuno pensa che il diario provi l’esistenza dei campi di sterminio o delle camere a gas, infatti, l’autrice conobbe la realtà dei campi nazisti dopo aver smesso di scrivere il suo diario. Ciò che spinge i negazionisti risiede nel fortissimo impatto emotivo che il diario ha avuto su tutti i suoi lettori e sul fatto che per moltissime persone esso rappresenti il primo contatto con la storia della Shoah. I negazionisti ritengono che attraverso l’insinuazione del dubbio sulla sua autenticità, tale dubbio si estenda ad ogni aspetto della storia della Seconda Guerra mondiale, comprese le camere a gas. Uno Masami non è stato l’unico giapponese a stabilire dei forti legami con l’IHR, infatti, Keiichiro Kobori, professore presso l’Università di Tokyo, ha elogiato il lavoro dell’Istituto, che, di conseguenza, invitò dei negazionisti giapponesi alla sua conferenza annuale nel 1990 pubblicandone successivamente le opere.
Il 14 gennaio del 1995, un articolo di Nishioka Masanori, pubblicato sul mensile “Marco Polo” di proprietà della casa editrice Bungei Shunju, negò l’Olocausto e sostenne, inoltre, che Hitler voleva solamente reinsediare gli ebrei nell’Europa Orientale; ciò diede al movimento negazionista una crescente attenzione nazionale. La reazione arrivò soprattutto dal di fuori del Giappone, principalmente dall’Anti-Defamation League e dal Centro Simon Wiesenthal che protestarono chiedendo una ritrattazione pubblica. La casa editrice proprietaria del mensile, la Bungei Shunju, difese l’articolo fino a quando fu costretta, dalla pressioni esterne e dalle minacce delle aziende di ritirare il loro supporto alla rivista, a scusarsi pubblicamente il 30 gennaio.
Il Governo giapponese seguì attentamente il caso, che ricevette una massiccia copertura mediatica da parte della stampa nazionale. Mentre alcuni giornalisti biasimarono la Bungei Shunju per essersi piegata alle pressioni esterne, la maggior parte mostrò un atteggiamento positivo verso l’esito della vicenda. Il fatto portò anche alla pubblicazione di articoli volti ad informare maggiormente l’opinione pubblica giapponese sull’Olocausto.
Allo stesso tempo, tuttavia, l’antisemitismo da fatto prettamente intellettuale, confinato ai testi scritti, si è trasformato in violenza reale quando la setta Aum Shinrikyo attaccò la metropolitana di Tokyo causando 12 morti e più di 5000 feriti. L’educazione della setta si era basata in gran parte sugli scritti di Uno e degli altri negazionisti, imperniandosi sulla credenza che gli ebrei aspirassero al dominio del mondo e che Hitler fosse ancora vivo. Come era prevedibile, la setta agì sulla base di tali credenze, e il Giappone fu condannato per non essersi comportato correttamente durante l’affaire Marco Polo. David Goodman, per esempio, fu particolarmente critico- a differenza di Deborah Lipstadt- chiedendo un dibattito aperto e non un monologo solipsistico. Al contempo, l’IHR preannunciò “una lunga lotta per la verità storica e per un’inchiesta aperta” in Giappone.
In Giappone, la letteratura negazionista è rivolta soprattutto alla classe sociale dei colletti bianchi, gli impiegati di medio livello, preoccupati del passato e del futuro del Paese. Kowner suggerisce che “la letteratura antisemita sembri perpetuarsi attraverso la nascita di nuove generazioni di lettori con fluttuazioni periodiche”, facendo appello alle credenze tradizionali giapponesi in merito al proprio passato. Queste sensibilità sono riemerse nel 1990, un momento favorevole per la negazione della Shoah e per la negazione delle atrocità giapponesi a Nanchino nel 1937, dove tra i 100.000 e i 200.000 civili cinesi furono uccisi dall’esercito nipponico. I crimini commessi dalle forze armate sono state negate a scuola, nei libri di testo, da parte di politici e giornalisti, rimanendo tuttora una causa di scontro tra il Giappone e la Cina.
Inoltre, gli scrittori giapponesi riscontravano nel dibattito in corso in Germania, la cosiddetta disputa degli storici, un autentico sforzo per rivedere i conti tradizionali con il passato, indirettamente una modalità per minimizzare i crimini di guerra nipponici.
Ovviamente, la negazione della Shoah non ha alcuna genuina somiglianza con il revisionismo storico del passato, tuttavia, essa è stata descritta, per esempio da Deborah Lipstadt, come sintomatica della scrittura post-modernista e la sua presunta negazione di ogni singola verità del passato è chiaramente problematica. Credendo possibile che l’Olocausto fosse una menzogna, gli scrittori giapponesi credevano che anche le atrocità di Nanchino potessero essere false. Identificando il Giappone nel ruolo della vittima e non in quello di aggressore, la storiografia nipponica è sembrata quasi invitare i negazionisti della Shoah affinché si integrassero in tale contesto. Come Kowner afferma, l’implicazione di tutto questo è che l’indifferenza verso il negazionismo, come è accaduto in Giappone fino all’affaire Marco Polo, non conduce alla sua spontanea scomparsa, anzi, stimola indirettamente l’interesse e la domanda di altre pubblicazioni. Gli storici, quindi, hanno una motivazione in più per rispondere.
Uno sviluppo particolarmente importante del negazionismo riguarda la sua diffusione in Medio Oriente, infatti, come nota Gilbert Achcar “l’atteggiamento più comune, lungi dal passare sotto silenzio l’Olocausto e gli orrori del nazismo consiste nell’accusa ad Israele di imitare e riprodurre questi orrori e, talvolta, di superare i nazisti- un’accusa che riflette la propensione all’enfasi e all’esagerazione che contraddistingue buona parte dei discorsi politici in Medio Oriente”12. L’ostilità esistente tra molti Paesi arabi e Israele ha provocato il crescere dell’antisemitismo in tali Nazioni, rendendole un terreno fertile per le teorie negazioniste dell’Olocausto. Ostacolati dalla Legislazione e dai contenziosi nel mondo Occidentale, i negazionisti hanno recentemente ampliato le loro attività in Egitto, Siria, Libano, e territori palestinesi. I negazionisti hanno compreso che, a seguito del protrarsi del conflitto arabo-israeliano, l’atmosfera nel mondo arabo aveva creato lo sfondo ideale per propagandare le loro idee. Fino ad oggi, la negazione dell’Olocausto è comparsa negli articoli dei giornali, nei discorsi e nei pronunciamenti delle figure pubbliche e dei leader religiosi, e nelle risoluzioni delle organizzazioni professionali.
L’antisemitismo nel mondo arabo non è un concetto nuovo, risalendo al 1937, al momento delle campagne propagandistiche naziste nella regione. Infatti, durante la Seconda Guerra mondiale, il Muftì palestinese di Gerusalemme, Hajj Amin al-Husayni, cercò di creare un’alleanza tra la Germania nazista, l’Italia fascista, e i nazionalisti arabi “al fine di condurre una Guerra Santa dell’Islam contro il giudaismo internazionale”. Sin dalla Seconda Guerra mondiale, Egitto, Siria, e Iran sono stati accusati di aver protetto criminali di guerra nazisti: Fritz Stangl, comandante del campo di Treblinka visse per diversi anni a Damasco; Alois Brunner, aiutante di Adolf Eichmann, trascorse quasi tutti gli anni del dopoguerra in Egitto e in Siria; Franz Bartel, assistente del Capo della Gestapo a Katowice, insieme a numerosi medici nazisti, tra cui il dottor Herbert Hein e il Dr. Willerman responsabili per gli esperimenti sui prigionieri dei campi di concentramento, sono stati accolti e hanno trovato lavoro in Egitto. In realtà, l’Egitto è andato oltre l’offrire asilo, infatti, il leader egiziano Gamal Abdel Nasser dichiarò che avrebbe usato i servizi di coloro che conoscevano la mentalità dei nemici, riferendosi chiaramente allo Stato d’Israele.
Inoltre, alcuni Paesi arabi sono arrivati al punto di abbracciare il nazismo in sé e applaudire il genocidio nazista degli ebrei. In un articolo del quotidiano egiziano “Al-Akhbar” si poteva leggere “grazie a Hitler…ha preso la rivincita sugli israeliani in anticipo, per conto dei palestinesi. La nostra unica lamentela contro di lui è che la sua vendetta non è stata abbastanza completa”.
L’esplicita negazione dell’Olocausto è iniziata in Medio Oriente alla fine del 1970, quando il negazionista Ernst Zündel pubblicò un opuscolo dal titolo L’Occidente, la guerra, e l’Islam che egli inviò a diversi capi di Stato arabi. Nel 1983 il palestinese Mahmud Abbas scrisse un saggio tratto dalla sua tesi di dottorato, discussa a Mosca nel 1982, sui Rapporti segreti tra il Nazismo e il Movimento Sionista. Facendo riferimento a Faurisson, affermava che la cifra di sei milioni di morti nella Shoah era falsa, poiché gli ebrei morti nei lager erano meno di un milione.
Alla fine degli anni Ottanta, il marocchino Ahmed Rami ha negato pubblicamente l’Olocausto ed è stato il fondatore di Radio Islam, un programma e ora un sito internet che attacca la storia della Shoah.
A partire dagli anni Novanta, la negazione dell’Olocausto ha cominciato ad apparire nei media di molti Paesi arabi. Ad esempio, il numero del luglio del 1990 della rivista “Balsam”, affiliata all’organizzazione per la liberazione della Palestina, conteneva un articolo che sosteneva che gli ebrei avevano creato la menzogna delle camere a gas al fine di ottenere appoggio per Israele e che il processo di Norimberga erano stato istituito in modo fraudolento dagli ebrei per decretare l’Olocausto quale fatto storico.
Alcuni Stati arabi hanno dimostrato i loro legami con i negazionisti occidentali fornendo assistenza legale per le accuse di attività illecite nei loro Paesi d’origine. Ad esempio, l’Iran ha fornito rifugio, quando questi stava per essere arrestato dalla polizia, all’ingegnere austriaco Wolfgang Frohlich, che testimoniò a favore del negazionista Jurgen Graf dichiarando l’impossibilità che il gas Zyklon B potesse essere stato usato per uccidere degli esseri umani. Lo stesso Graf, condannato in Svizzera per incitamento all’odio razziale e per la negazione dell’Olocausto, fuggì in Iran per sottrarsi alla pena.
Il collegamento più noto tra negazionisti occidentali e mondo arabo si creò in risposta al processo contro Roger Garaudy nel 1998 in Francia. È importante evidenziare che in Francia vige dal 13 luglio del 1990 la Legge Gassot che con un emendamento, l’articolo 24bis alla legge del 1881 sulla libertà di stampa, rende perseguibile chiunque contesti “l’esistenza di uno o più crimini contro l’umanità” così come definiti dall’articolo 6 del tribunale di Norimberga13.
Garaudy, ex comunista convertitosi al cattolicesimo ed in seguito all’islam, nel novembre del 1995 pubblicò per la casa editrice la Vieille Taupe un pamphlet intitolato Les mythes Fondateurs de la Politique Israélienne, in cui sosteneva che lo Stato d’Israele, con la connivenza delle potenze occidentali e sovietiche interessate a distogliere l’attenzione dai propri crimini di guerra, avrebbe sfruttato il “mito dell’Olocausto” per legittimare la propria politica espansionistica agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. A corredare l’accusa, l’insinuazione che i miti fondativi di cui al titolo fossero delle costruzioni fittizie. Di qui l’accenno alla possibilità che gli ebrei non fossero stati sistematicamente uccisi nei lager, e che le camere a gas fossero un’invenzione della propaganda sionista. Garaudy scriveva che “l’unica soluzione finale consisteva, dunque, nello svuotare l’Europa dagli ebrei, allontanandoli sempre più, fino a che la guerra (supponendone la vittoria) avesse permesso di sistemarli tutti in un ghetto fuori dall’Europa (come suggeriva il progetto Madagascar). Questo Shoah Business non utilizza che “le testimonianze” sulle diverse maniere di “gassare” le vittime, senza che mai ci vengano mostrate le modalità di funzionamento di una sola “camera a gas” (di cui Leuchter ha dimostrato l’impossibilità fisica e chimica)”. Da notare che la frase camere a gas nelle pagine del lavoro di Garaudy è sempre virgolettata, in modo da sottolinearne la caratteristica di falsità.
Garaudy fu processato e condannato ad una multa di 120.000 franchi. Nel corso del processo, fu venerato come eroe e ricevette una vasta attenzione mediatica in Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Iran, Siria, Libano, Giordania, e territori palestinesi.
Un altro evento significativo accadde nel dicembre del 2000 quando l’IHR annunciò che la sua quattordicesima conferenza annuale avrebbe avuto luogo a Beirut. Il tema della conferenza era “Revisionismo e Sionismo”. A coloro che avevano il timbro di ingresso o di uscita da Israele sul passaporto era vietata la partecipazione. Molte organizzazioni ebraiche risposero all’annuncio esprimendo la preoccupazione che la conferenza si sarebbe tradotta con un aumentato antisemitismo, chiedendo, inoltre, alle Autorità libanesi di vietarne lo svolgimento. In risposta, il Primo Ministro libanese Rafik Hariri rifiutò il permesso per lo svolgersi della conferenza, temendo che essa avrebbe potuto danneggiare la reputazione del Libano.
Nell’agosto del 2002, il Centro Zayed della Lega araba per il coordinamento e lo sviluppo, un think-tank ufficiale, convocò un simposio ad Abu Dhabi dedicato al negazionismo dell’Olocausto. Il Centro descrisse l’avvenimento come uno sforzo per “contrastare le falsità storiche e politiche propagandate da Israele”. In precedenza il Centro aveva ospitato capi di Stato e diplomatici occidentali, come l’ex Presidente americano Jimmy Carter e l’ex vice Presidente Al Gore. Il fatto che la Lega Araba abbia fornito una piattaforma legittima alla negazione della Shoah rappresenta un passo indietro importante nello sforzo di sopprimere le attività dei negazionisti.
L’attuale conflitto arabo-israeliano offre e mantiene un terreno fertile in cui i negazionisti occidentali possono espandere il loro movimento, infatti, la percezione dell’Olocausto è influenzata dallo stato immediato del conflitto. Ogni volta che vi è un aumento della tensione tra Israele e i suoi vicini si assiste ad una amplificazione delle dichiarazioni che negano la Shoah, come se la negazione della Shoah eliminasse automaticamente la ragion d’essere di Israele. Similarmente, quando i negoziati di pace tra palestinesi ed israeliani sembrano giungere ad un accordo permanente, la negazione dell’Olocausto aumenta in tutto il mondo arabo.
In alcuni Paesi musulmani, come la Giordania e il Libano, solo i Partiti di opposizione e le fazioni dissidenti, che denunciano qualsiasi forma di relazione con lo Stato ebraico, hanno adottato il negazionismo utilizzandolo per screditare i loro avversari del Governo e aumentare l’odio popolare contro Israele. Il negazionismo appare solo raramente nei mezzi di informazione di Paesi come il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti, e il Qatar che hanno normalizzato le loro relazioni diplomatiche con Israele. La precedente descrizione dell’attività negazionista in Iran, Siria e territori palestinesi suggerisce che i Governi di alcuni Stati arabi sostengano e siano sponsor del negazionismo.
Negli ultimi anni il negazionismo sta utilizzando Internet per aggirare le Leggi che molti Paesi occidentali hanno adottato contro di esso. Data l’impossibilità di impedire la nascita di siti dedicati al negazionismo, così come la pubblicazione degli scritti che negano l’Olocausto sul web, anche la storiografia più autorevole deve cercare nuove strade per contrastarne la diffusione.
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2 Deborah Lipstadt, “Deniers, Relativists, and Pseudo-Scholarship,” Dimensions 14:1 (2000), p. 45; Charles Maier, The Unmasterable Past (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1988), p. 64.
3 Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust: The Growing Assault on Truth and Memory. New York: The Free Press, 1993, p. 50; Gil Seidel, The Holocaust Denial: Antisemitism, Racism, and the New Right (Leeds: Beyond the Pale Collective, 1986), pp. 95-6.
4 Frank Chalk and Kurt Jonassohn, The History and Sociology of Genocide: Analyses and Case Studies (New Haven: Yale University Press, 1990), p. 328; Richard Hovannisian, “Denial of the Armenian Genocide in Comparison with Holocaust Denial,” in Richard Hovannisian, ed., Remembrance and Denial: The Case of the Armenian Genocide (Detroit: Wayne State University Press, 1999), pp. 201-204.
5 Deborah Lipstadt, Assault, pp. 67-83; Ben Austin, A Brief History of Holocaust Denial, http://www.mtsu.edu/~baustin/denhist.htm.
6 “Journal of Historical Review”, 1, p. 57.
7 Deborah Lipstadt, “Holocaust Denial and the Compelling Force of Reason,” Patterns of Prejudice 26:1-2 (1996), p. 66.
8 Cfr. Pierre Vidal-Naquet, Assassins of Memory: Essays on the Denial of the Holocaust, (New York: Columbia University Press, 1992), p. 2.
9 Ibid, p. 51.
10 Il testo completo dell’articolo è riprodotto in R. Faurisson, Mémoire en défense: contre ceux qui m’accusent de falsifier l’histoire; la question des chambers à gaz, (Paris: La Vieille Taupe, 1980), pp.-73-75. Faurisson avrebbe scritto una seconda lettera al giornale nel gennaio del 1979, in cui tentava nuovamente di spiegare la sua posizione come arbitro della verità.
11 Vi sono pochi lavori che esaminano i negazionisti legati all’IHR, tra questi è opportuno citare Shermer e Grobman (Denying, pp. 39-74) e the Nizkor Project, http://www.nizkor.org/faqs/ihr/ihr-faq-03.html. In Assault (pp. 137-138 e pp. 145-156), Lipstadt si concentra sulla storia dell’IHR, ma esamina anche i suoi legami politici, specialmente quelli del suo fondatore, Willis Carto.
12 Gilbert Achcar, The Arabs and the Holocaust: the Arab –Israeli War of Narratives. (New York: Henry Holt, 2009), pp. 221-222.
13 Altri Paesi hanno approvato provvedimenti analoghi: l’Austria nel 1992; la Germania nel 1994; Belgio, Spagna e Svizzera nel 1995; il Lussemburgo nel 1997; Portogallo e Polonia nel 1998; la Cecoslovacchia nel 2001; la Romania nel 2002; l’Ungheria nel 2010. Per quanto riguarda l’Italia, nel giugno del 2016 con l’introduzione del comma 3 bis all’art. 3 della legge 13 ottobre 1975 n. 654 (e successive modifiche), si disponeva l’applicazione della pena “da due a sei anni se la propaganda, ovvero l’istigazione e l’incitamento commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah, o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale”. In sostanza, il negazionismo è divenuta un’aggravante, aggiunta alla legge Mancino, rispetto ai reati di discriminazione razziale e di stampo xenofobo.