Nel lontano 2006, nel Regno Unito, divenne un best-seller «Londonistan: How Britain Is Creating a Terror State Within», della giornalista Melanie Phillips. Il testo era un’indagine sulla diffusione dell’islamismo e un atto di accusa contro l’incompetenza amministrativa, la debolezza culturale e il lassismo morale che determinarono – e che tuttora favoriscono – l’ascesa del fondamentalismo islamico. Solo un sprovveduto, dunque, può sorprendersi dell’ondata di violenza interetnica che ha travolto le città della Gran Bretagna.
Tutto comincia lunedì 27 luglio, un giovane accoltella delle bambine a Southport, nel nord-ovest dell’Inghilterra. Non viene diffusa l’identità dell’aggressore, poiché la legge britannica lo vieta, ma sui social media si parla quasi subito di un immigrato, probabilmente arabo o subsahariano. Quattro giorni dopo sarà rivelata l’identità dell’omicida, si tratta di un cittadino di origini ruandesi, Axel Rudakubana.
Nel frattempo, sospettando si trattasse di un attentato di matrice islamica, sono infatti decine gli attacchi all’arma bianca avvenuti in Europa e in Israele, si è parlato in proposito di «Jihad dei coltelli», migliaia di persone hanno riempito le strada per protestare contro l’immigrazione islamica.
Gli inglesi, da anni, subiscono la violenza e il teppismo degli immigrati musulmani, che hanno persino trasformato interi quartieri, come l’East End di Londra, in enclave musulmane vietate agli «infedeli». Questa popolazione angariata, che non appena ha espresso il proprio disagio è stata bollata come «razzista» e «fascista» dalle élites culturali del Paese, all’ennesima notizia di un omicidio commesso da uno «straniero», magari anche musulmano, è esplosa. Il vandalismo a danno dei quartieri arabi e dei centri di accoglienza per immigrati sono il prodotto di una frustrazione a lungo repressa dalle autorità, più preoccupate a non offendere Maometto che a garantire l’ordine pubblico.
Nel Regno Unito, da tempo, la polizia applica un «doppio standard»: quando i musulmani commettono dei crimini o abusi, vedi il caso della gang musulmana che adescava e stuprava ragazze inglesi, i fatti vengono ignorati o minimizzati; mentre imprigiona gli autoctoni, uomini come Laurence Fox e Tommy Robinson, che osano criticare quella violenza.
Quando lo jihadismo falcidiava delle ragazzine al concerto di Ariana Grande, politici e giornalisti correvano a rassicurare la comunità musulmana sul possibile aumento di atti di «islamofobia» – «una parola creata dai fascisti e usata dai codardi per manipolare i cretini», disse Christopher Hitchens.
Il fatto più inquietante di tutta questa vicenda, però, non sono le violente, sebbene inevitabili e prevedibili, proteste dei cittadini inglesi, bensì la pronta reazione dei musulmani. A Middlesbrough, a Hull, a Blackburn, a Stoke-on-Trent… «vendicatori musulmani» danno la caccia ai bianchi accusati di far parte delle proteste contro l’immigrazione. A loro si sono uniti militanti filopalestinesi e «antirazzisti», presumibilmente gli stessi che, nelle ultime settimane, hanno intasato le strade di Londra e di altre città per manifestare il loro sostegno ad Hamas.
Il governo laburista di Keir Starmer ha «promesso il suo pieno sostegno alla polizia per agire contro gli “estremisti” che tentato di “seminare odio” intimidendo la comunità». Con «comunità» intende la «comunità musulmana», l’unica che può contare sul sostegno dei politici e sul supporto della polizia. Starmer, quattro anni fa, si era inginocchiato in memoria del delinquente George Floyd e aveva espresso il proprio sostegno al movimento antisemita e anti-occidentale noto come Black Lives Matters. Per lui, evidentemente, quelli non erano «estremisti».
In Europa è in corso quella «libanizzazione» annunciata dalla storica Bat Ye’or. I milioni di immigrati ostili all’Occidente e alla sua civiltà giudeo-cristiana costituiscono una pericolosa «controsocietà». In Inghilterra hanno già scuole e tribunali separati. L’ideologia «multiculturale», come tutte le ideologie, è miseramente fallita. Le autorità attribuiscono la colpa all’«estrema destra» e ai «russi», dimostrando, ancora una volta, di non aver compreso la situazione e le sue cause.
Dalla «convivenza», perlopiù imposta dall’«alto» come programma d’ingegneria sociale, tra gruppi razziali e religiosi, non è emersa nessuna felice «sintesi» interculturale. Quello che si è ottenuto è uno stato di tensione permanente destinato a sfociare in una guerra civile, i cui prodromi si stanno manifestando in questi giorni. La guerriglia raccontata da Laurent Obertone è dietro l’angolo.