Dopo quasi un anno dall’eccidio palestinese del 7 ottobre e dalla conseguente guerra che Israele è costretto a combattere su due fronti, Gaza e Libano, è opportuno che l’establishment di Israele cambi strategia. Da una guerra di logoramento su due fronti imposta dall’Iran, Israele deve prendere l’iniziativa e attaccare la fonte del problema: l’Iran.
Per prima cosa è opportuno chiarire la natura di un possibile attacco militare. Israele è in guerra con l’Iran perché l’Iran ha attaccato Israele tramite le organizzazioni terroristiche che finanzia, addestra e arma: Hamas, Jihad Islamica, Hezbollah e Houti. Inoltre l’Iran ha attaccato militarmente Israele con droni e missili balistici (14 aprile). In pratica l’Iran sta attuando una guerra di logoramento nei confronti di Israele che lo Stato ebraico non può sostenere all’infinito, mentre l’Iran finanzia questa guerra con i proventi del petrolio. Per molti aspetti, all’Iran, questo logoramento non costa nulla in termini di perdite economiche, militari e di infrastrutture. Tutti i terroristi uccisi sono facilmente rimpiazzabili con altri. Ad esempio, è notizia di questi giorni che diverse centinaia di terroristi Houti sono giunti nel sud della Siria per prendere parte ad un eventuale scontro armato in Libano o per attaccare Israele dal Golan o per infiltrarsi in Israele (per attaccare le comunità ebraiche in Samaria o in Giudea) tramite il porosissimo e mal controllato confine sul Giordano. Per tutte queste ragioni un attacco in Iran deve avere due obiettivi precisi: la distruzione del programma nucleare e la distruzione delle infrastrutture petrolifere che finanziano e alimentano la guerra in corso contro lo Stato ebraico. È doveroso mettere subito in luce che tale azione militare è estremamente complessa, rischiosa e dagli esiti incerti. Ma bisogna tentarla per non doverlo fare in futuro, quando sarà ancora più difficile soprattutto quando il regime iraniano sarà dotato di armi nucleari (il vero scopo del suo programma nucleare).
Israele ha già dimostrato di avere la capacità aerea di colpire a grande distanza (il 20 luglio quando ha attaccato il porto yemenita di Hodeidah che si trova ad una distanza maggiore rispetto l’Iran). Inoltre, Israele dispone di una flotta di sottomarini con enormi capacità offensive, soprattutto, quelli di classe Dolphin, tecnologicamente avanzatissimi, dotati di missili da crociera e balistici. Questi sottomarini sono in grado di avvicinarsi alle coste iraniane (se necessario) per distruggere le infrastrutture petrolifere senza essere individuati dall’Iran.
Un attacco all’Iran provocherebbe sicuramente una reazione militare iraniana e soprattutto una reazione politico-diplomatica capeggiata dalla Russia e dalla Cina, ma questo non deve essere un deterrente decisivo per fermare l’azione militare di Israele, per vari motivi che illustreremo.
Per prima cosa, una reazione militare iraniana può essere contenuta da Israele, come già dimostrato il 14 aprile scorso, e questo ha portato alla rinuncia iraniana, ad agosto, di vendicare l’eliminazione di Hanyeh a Teheran.
In merito ad una reazione di Russia e Cina, esse sono già apertamente e sempre schierate contro Israele in tutti i forum internazionali ad iniziare dall’ONU. Intrattengono già una forte collaborazione militare, nucleare ed economica con gli Ayatollah. Quindi da punto di vista politico e diplomatico la situazione per Israele non può peggiorare rispetto alla sua configurazione attuale. Presumere un coinvolgimento militare di Cina e Russia a fianco dell’Iran è altamente improbabile: la Russia è impantanata in Ucraina e in Siria non ha mai contrastato le centinaia di raid israeliani. La Cina non ha interesse a scatenare una guerra contro Israele, cosa, tra l’altro, estremamente difficile per i cinesi che non hanno truppe in Medio Oriente ne basi militari. Sicuramente sono molto più interessati a partecipare a ricostruire le infrastrutture che eventualmente saranno distrutte e mettere così un piede in Medio Oriente come stanno facendo, da anni, in Africa e in America del Sud. L’unica vera incognita è rappresentata dagli Stati Uniti.
Con gli USA si possono aprire due scenari completamente diversi in base a chi vincerà le prossime elezioni presidenziali il 5 novembre. Nel caso, malaugurato, che vincesse il partito democratico, l’appoggio ad Israele sarebbe limitatissimo. A una fase iniziale di forte opposizione a una azione militare, seguirebbe molto probabilmente un appoggio diplomatico obtorto collo in sede ONU per evitare le condanne più dure che si scatenerebbero al Consiglio di Sicurezza. Militarmente non fornirirebbero nessun tipo di aiuto rendendo il blitz di Israele molto più difficoltoso. Ben diverso sarebbe lo scenario se vincessero i repubblicani. Con Trump al timone, è auspicabile e più probabile un grande appoggio militare oltre che diplomatico e politico. Con Trump alla presidenza può divenire plausibile un coinvolgimento indiretto anche dell’Arabia Saudita (il vero antagonista dell’Iran) sotto forma di concessione dello spazio aereo per compiere il blitz, ma soprattutto un coinvolgimento saudita per il dopo attacco.
Se l’Iran non fosse in grado di produrre petrolio per un lungo periodo, questo porterebbe ad un aumento vertiginoso delle sue quotazioni che potrebbe causare una crisi economica mondiale. Ma se l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti aumentassero la loro produzione per compensare quella mancante dell’Iran i mercati si stabilizzerebbero in poco tempo. Dopo una fiammata iniziale sopra i 100$ al barile le quotazioni scenderebbero con i mercati rassicurati dalla maggiore produzione di petrolio di Arabia Saudita, USA e altri paesi del Golfo. Oggi l’Iran produce circa 3.5 milioni di barili al giorno che equivalgono a circa il 4% della produzione mondiale. Quota ampiamente recuperabile con una maggiore produzione saudita e americana. Perché questo accada è necessaria una intesa politica non semplice ma possibile con Trump già artefice degli Accordi di Abramo.
Un simile scenario è sicuramente un grande azzardo ma è l’unico che possa garantire una certa sicurezza a Israele nei prossimi anni, altrimenti assisteremo a una interminabile serie di piccole guerre che porteranno lo Stato ebraico al collasso. In fin dei conti cosa ha Israele che possa interessare all’Arabia Saudita? La forza militare e la determinazione di sconfiggere l’unico avversario pericoloso per i sauditi: l’Iran.
Se invece che attaccare l’Iran, Israele decidesse di attaccare Hezbollah, si troverebbe a combattere una sanguinosissima guerra campale che produrrebbe un uguale sdegno mondiale con le immancabili condanne di ONU, UE, “amici” e nemici vari. Dal punto di vista politico e diplomatico con cambierebbe nulla. Ma questa guerra non sarebbe risolutiva: per l’Iran anche Hezbollah – e tutto il Libano – sarebbero sacrificabili. Questo perché molti terroristi libanesi riparerebbero in Siria e da lì tutto ricomincerebbe da capo: attacchi dal suolo siriano da parte di Hezbollah, milizie sciite siriane e irachene oltre agli houti (già arrivati in Siria) e altri ancora. Cosa dovrebbe fare Israele nel momento in cui dalla Siria si ripetesse lo stillicidio di missili e razzi quotidiani che ora proviene dal Libano? È pensabile che Israele invada anche la Siria? No, non è ipotizzabile, ma anche se di dovesse verificare questo caso, inizierebbe un lancio di razzi dall’Iraq, altro Sato controllato dall’Iran, a questo punto cosa potrebbe fare Israele? L’unica cosa da fare è non cadere nella trappola iraniana di una infinita guerra di logoramento e colpire direttamente la fonte del terrorismo di tutta l’area, fonte ben nutrita e fatta crescere dalle amministrazioni Obama e Biden. Gli errori incalcolabili di Obama/Biden sono ormai un fatto compiuto, ora è necessario eliminare il pericolo iraniano prima che si doti di armi nucleari perché a quel punto non ci saranno rimedi.
In conclusione, o la comunità internazionale decide di fare cessare l’aggressione iraniana con mezzi sanzionatori/militari (assai probabile) oppure Israele dovrà prendere l’iniziativa militare per la sua stessa sopravvivenza.