C’è un legame che unisce indissolubilmente Yom HaZikaron, il Giorno del Ricordo terminato ieri, commemorante le vittime, militari e civili di Israele e Yom Hazmaut, il Giorno dell’Indipendenza che oggi si comincia a celebrare. E’ il legame che unisce i morti ai vivi, i giorni del lutto, a quelli della celebrazione della gioia. Essi trapassano gli uni dentro gli altri e più che mai quest’anno, in cui Israele celebra il settantesimo anno della sua esistenza, sottolineano come questo piccolo grande Stato abbia dovuto, fin dal suo nascere pagare un pegno in vite umane per potere esistere, per potere continuare ad esserci.
Quando, il 30 aprile del 1956, Moshe Dayan, allora capo di Stato maggiore, pronunciò l’elogio funebre del soldato Ro’i Rothbeg, ucciso davanti alla Striscia di Gaza, disse, “Noi sappiamo bene che, per ridurre al nulla la loro speranza di annientarci, bisogna che siamo armati e sul chi vive, dal mattino alla sera. Noi siamo la generazione degli insediamenti, e senza il casco d’acciaio e la bocca del cannone non potremmo né piantare un albero né costruire una casa…Senza mitragliatrici e filo spinato è fuori discussione lastricare strade o scavare pozzi“.
Oggi, quella generazione ancora pionieristica ha lasciato il posto a un paese ipertecnologico, intriso di un dinamismo turbinoso. Il casco d’acciaio e la bocca del cannone, insieme alle mitragliatrici e al filo spinato sono purtroppo rimasti, trasformati in forme più sofisticate, al passo col progresso. E sono rimasti perché, dal 14 maggio 1948, il giorno in cui le ultime forze britanniche lasciarono Haifa e Israele annunciò la propria indipendenza, esso ha sempre dovuto vivere in uno stato di tensione, minacciato costantemente di annichilimento da quel mondo arabo e islamico che non ha mai accettato la sua esistenza. Le spade non si sono trasformate in vomeri e lo shalom è rimasto un ideale, una proiezione costantemente rinviata nel futuro come i giorni del Messia, di cui esso è un complemento.
Nessuno Stato moderno ha dovuto subire e subisce ancora oggi, la demonizzazione che è toccata in sorte a Israele. Contro di esso è stato proiettato un odo antico e mai scomparso, quello per l’ebreo, forgiato da secoli di criminalizzazione, nutrito dall’invidia per chi ha successo e riesce nella vita rispetto a chi resta indietro, in una posizione subalterna, anche questa una delle perenni componenti dell’antisemitismo.
Il mondo arabo e musulmano, incapace di afferrare la modernità, di farla propria, di riuscire a rinnovarsi dal suo interno, culturalmente e politicamente, ha visto in questo piccolo grande paese che è fiorito letteralmente nel deserto, frutto dell’ingegno e di una indomabile perseveranza, un affronto troppo grande. Poche sono state le voci illuminate islamiche, che già negli anni ’30 vedevano nell’immigrazione ebraica in Palestina una occasione, un beneficio e che immaginavano una cooperazione costruttiva tra i due popoli. Prevalse ed è prevalso tra gli arabi il rigetto trasformato in volontà di uccidere e poi, progressivamente, ci si è dovuti rendere conto che semplicemente Israele non se ne sarebbe andato, a denti stretti si è dovuta subire la sua potenza.
Questa potenza non è solo quella militare tutta fondata, vale la pena sempre ricordarlo, sulla deterrenza, ma quella di un investimento costante sul futuro inteso come slancio, ottimismo. Ottimismo, sì, perché Israele, nonostante la sua storia travagliata e le sempre presenti insidie, è un paese felice, è un paese dove la natalità ebraica, indice primario di fiducia e di speranza (non si fanno figli se non si è ottimisti), è nettamente superiore a quella europea, con una media di 3,11 figli.
Le vittime delle guerre, i soldati, i civili assassinati da chi ha glorificato la morte come supremo compimento, hanno passato il testimone a quelli che oggi vivono, a quelli che vivranno domani. I settant’anni di Israele sono anche i loro, sono anche i nostri, sono una perpetua affermazione di fiducia e di speranza contro l’odio e la volontà di distruzione.