Non è una buona notizia l’uscita di scena di Moshe Ya’alon dall’attuale governo Netanyahu, se non per i corporativisti duri e puri, per gli ultrà che vedono nei distinguo inaccettabili segni di cedimento al nemico. Non è una buona notizia perché pochi possono vantare la competenza tecnica dell’ex Ministro della Difesa, israeliano, e perché Ya’alon negli anni in cui ha occupato il dicastero della Difesa, lo ha fatto con consumata professionalità e in perfetta sintonia con Benjamin Netanyahu.
Nessun disccordo sostanziale tra i due per le questioni più importanti. Sono stati compatti e senza tentennamenti nel avversare l’accordo sul nucleare iraniano voluto dall’Amministrazione Obama, così come non hanno mai nascosto la loro totale contrarietà alle indicazioni negoziali giunte dalla Casa Bianca e fortemente sbilanciate a favore dell’Autorità Palestinese. “I programmi di pace americani non valgono la carta sulla quale sono scritti”, disse di essi Ya’alon.
La gestione della crisi siriana, l’avere evitato in questi anni un coinvolgimento diretto di Israele sulle Alture del Golan riuscendo a contenere l’avanzata di Hezbollah, lo si deve innanzituuto a una gestione accurata e prudente della situazione coordinata dal Ministro della Difesa insieme agli alti gradi dell’Esercito. La stessa gestione prudenziale intesa a minimizzare il più possibile la perdita di vite umane israeliane venne dispiegata nell’estate del 2014 durante l’ultimo conflitto a Gaza. Moshe Ya’alon è uomo di nerbo e nervi saldi, non uno stratega da Risiko, di quelli che sanno sempre come vincere le guerre senza mai avere partecipato ad alcuna.
Quando il suo attuale sostituto, il pugnace e fumantino Avigdor Liberman, optava per lo scontro totale con Hamas e il suo annichilimento, il che avrebbe comportato un conflitto protratto, un numero di vittime assai più alto e la necessità per Israele di rioccupare Gaza, né Ya’alon né Netanyahu presero in considerazione questa opzione radicale. Il costo sarebbe stato enorme e Israele non era in grado di permetterselo.
Veniamo a oggi. Cosa ha causato le dimissioni di Ya’alon? C’è un episodio all’origine del graduale scollamento tra il Primo Ministro e quello della Difesa. Si tratta dell’uccisione a Hebron il 24 marzo scorso di un terrorista palestinese ventunenne ferito e disarmato da parte di un soldato israeliano, a seguito del quale il comando militare aprì un’inchiesta. Il soldato, Elior Azaria, è attualmente sotto processo.
Quando l’episodio divenne pubblico, Ya’alon, dichiarò immediatamente che esso andava doverosamente chiarito e che quanto era accaduto contraddiceva palesemente il codice etico dell’esercito israeliano. La posizione da lui espressa, orientativamente colpevolista nei confronti del soldato, gli alienò una parte dell’opinione pubblica israeliana. Si arrivò a una serie di attacchi denigratori culminati in una campagna su Whatsupp promossa da attivisti del Likud. Ya’alon vi appariva raffigurato al centro di un mirino con la scritta preveggente, “Politicamente assassinato”.
La campagna contro il Ministro della Difesa suscitò indignazione diffusa, la presa di distanza del padre del soldato incriminato e numervoli attestati di stima bipartisan culminati nella dichiarazione del presidente Ruben Rivlin secondo il quale Ya’alon è “uno degli eroi di Israele”.
A questo episodio centrale se ne intrecciano altri collaterali. Uno, emblematico, è il discorso tenuto il 5 maggio dal Capo di Stato Maggiore Yair Golan a Yad Vashem, durante il Giorno della Memoria. Durante il suo discorso, Golan fece riferimento al clima pre-shoah della Germania nazista quale parametro di alienazione umana tracciando un azzardato e incongruo parallelo tra l’odio presente nella società tedesca di allora e quello presente nell’attuale società israeliana. Ma il nocciolo del discorso di Golan, e che riguarda indirettamente Ya’alon, non è questo, bensì ciò che il Capo di Stato Maggiore disse dell’IDF.
Il punto di forza dell’esercito israeliano, sottolineò Golan nel suo controverso discorso, risiede nel suo codice etico e nella sua capacità di individuare e punire chi, con il proprio comportamento, disonora la divisa.
Alle forti critiche seguite alle parole di Golan da parte governativa per il parallelo con la Germania nzist, non ci fu alcuna presa di distanza di Ya’alon. L’allora Ministro della Difesa sorvolò sull’infelice analogia, perché per lui quello che evidentemente contava era il passaggio relativo allo standard etico dell’IDF. E su questo aspetto, Ya’alon sarebbe nuovamente tornato due settimane dopo, quando, in un discorso pubblico tenutosi al Quartiere Generale del Ministero della Difesa a Tel Aviv, affermò, “Negli ultimi mesi ci siamo dovuti confrontare con una minoranza di estremisti attivi sul campo e sui social media. Alcuni si sono infiltrati nella società israeliana maggioritaria, clandestinmente e sotto copertura, e stanno cercando di influenzare l’immagine e i valori dell’IDF”.
L’IDF. Il caso Azaria. Il clima preventivamente assolutorio nei confronti del soldato incriminato da parte di membri del governo e da una parte dell’opinione pubblica. La visceralità dei contrasti. Le accuse. La delegittimazione. Il character assassination. Questi gli ingredienti altamente combustibili dell’affaire Ya’alon.
Le parole pronunciate a Tel Aviv sono pesate, come al solito, chiare, pesanti come pietre. Dette dal Ministro della Difesa, da un uomo di destra con un curriculum militare impeccabile il quale, secondo il presidente Rivlin, ha onorato il proprio paese al punto da essere definito un eroe, e che fino a pochi mesi prima condivideva con Benjamin Netanyhu la medesima visione strategica, non possono essere considerate un cedimento a improvvise ubbie né a ragioni esterne,“altre”. La fedeltà di Ya’alon al Likud, la sua devozione all’IDF e a Israele sono a prova di bomba.
La questione, aggiungeva Ya’alon, non è né di destra né di sinistra, essa è al di fuori delle contrapposizioni ideologiche, dei tribalismi partitici, si situa a un livello superiore. L’IDF, proseguiva, non può permettersi soldati dal “grilletto facile” che esercitano la vendetta, o sono soggetti a perdite di controllo. “Il nostro sostegno va a chi commette errori in buona fede, ma non tollereremo chi rigetta l’autorità e agisce contro la legge e i nostri valori”.
A seguito di questo intervento, Netanyahu lo richiamò per quella che venne definita una “conversazione chiarificatrice”. Cosa si siano detti, faccia a faccia, è solo motivo di speculazione, non lo è invece ciò che Ya’alon ha dichiarto pubblicamente nel suo discorso di congedo non solo dal governo ma, a sorpresa, dalla scena politica.
Discorso tutto politico in cui l’ormai ex Ministro della Difesa ha messo in guardia contro un radicalismo il quale minaccia di corrompere e alterare i valori fondamentali non solo del Likud, il suo partito d’appartenenza, ma della società israeliana nel suo insieme.
Sono parole di un “boged” di un “traditore”, come vorrebbero i custodi di una ortodossia granitica tacitatori di ogni dissenso? Oppure sono le parole di un uomo di destra con una barra tenuta sempre alta verso valori non negoziabili, valori a salvaguardia di un grande esercito e di una grande democrzia come quelle israeliane?
Moshé Ya’alon si allontana come Cincinnato. Arriverà il momento in cui qualcuno busserà alla porta del suo kibbutz per chiedergli di tornare nuovamente in campo.