Alon Bakal, vittima dell’attentato al bar Simta di Tel Aviv del 1 gennaio, così scriveva sul suo profilo Facebook qualche settimana prima dell’attacco.
«Essere un Golani è maledire la pioggia e il fango di quel momento, ma intestardirsi per partire in missione la notte successiva. È chiamare Mamma per rassicurarla, e dire a papà “ma no, non sono a Betlemme, sono a Beit Shemesh”. È capire la paura dei civili, senza sapere se capiscono la propria paura. È guardare il sole tramontare, e sapere che la giornata sta solo per cominciare. Essere Golani vuole dire porsi molte domande sulla morte, senza ricevere una sola risposta sulla vita. È perdere dei fratelli d’armi, ma non la speranza, né la volontà di combattere, né la chiarezza di spirito. Sentire parlare del passato in Libano, quando il nostro domani è in Giudea-Samaria. Sentire una volontà di vendetta dopo ogni attentato, ma non prendersela con un arabo al check-point. Essere un Golani è sognare un viaggio all’estero e passeggiare in Zona A, prendere un boccone di Louf e immaginare che è una shwarma. essere un Golani è guardare il paesaggio dalle finestre dell’autobus, e sapere che l’hai fatto a piedi, anche quello. È sparare su un bersaglio in cartone, ma respirare la battaglia. È maledire questi tre anni di esercito, e pensare che non sono abbastanza. Innervosirsi per essere stato tirato giù dal letto, ma capire il merito di partecipare a un’operazione. Essere un Golani è dividere il coraggio in più livelli di paura, è un’amicizia profonda, che si rivela ogni giorno un po’ di più, è il nero completo, ma le notti in bianco. È arrabbiarsi contro la propria donna che ha aspettato, ma ha finito con l’andare via, perché non tornavi mai a casa, e non sai neanche quando tornerai. Essere ferito solo dagli scoppi del cuore.
Guardare i soldati con i berretti rossi, quando sono i tuoi occhi a esserlo.
Essere un Golani è il Beaufort e l’Hermon, e Tel Fa’her e Tel Farez e il Solouki, e la bandiera di inchiostro a Eilat, e il Golan, e il Libano, e tutta la terra di Israele, È terminare un percorso da combattente all’Hermon, e amare la terra di Israele che si rivela a te. Essere un Golani è il passato, il presente e il futuro, e il sogno, e la speranza, e i tramonti e i fiumi e le albe, e l’ex-nihilo, e la stanchezza, costante, e i religiosi e i non-religiosi, e la nostalgia, e la sofferenza, e l’arma sempre in mano. È pensare prima di tutto al tuo Paese, e aspirare sempre a qualcosa di più. È non lasciare quello che sei, disturbare quello che potresti essere. Il suolo è imbevuto di sangue, e noi siamo qui per voi, per la vostra sicurezza. Amiamo il nostro popolo, amiamo la nostra patria. Giuriamo fedeltà a Gerusalemme, perché essere un Golani significa prima di tutto essere un essere umano».