Questa moda antiebraica – virale, mediatica e di piazza – si aggiunge e si integra con gli odiatori profondi e i massacratori seriali. Banalità del male che espande e rafforza il male assoluto. Superficialità idiota, che affianca l’abisso infernale del piano di morte del terrore jihadista.
Moda come conformismo dell’obbligo, sudditanza mentale, miseria morale, riverniciature modernista dei più antichi, triti, nefasti e infami stereotipi antiebraici.
La moda (“fashion”) è per Georg Simmel, che ha introdotto il termine nel lessico filosofico, il “mutamento obbligatorio del gusto”. Nel linguaggio ordinario, dal Seicento, vuol dire (provenendo dal francese) il cambiamento collettivo delle regole dell’abbigliamento.
Un senso concettuale lo diede Leopardi nel “Dialogo della moda e della morte” (1824, nelle “Operette Morali”), con la considerazione della relazione inevitabile tra cambiamento e distruzione, che rende “sorelle” la moda e la morte, entrambe “figlie della caducità”. La variabilità nel tempo e il carattere effimero sono proprio quello che pone la moda in relazione alla morte, in contrapposizione all’eternità del vero.
Gli individui atomizzati della società contemporanea hanno l’illusione di scegliere i loro abiti secondo i loro gusti e le loro identità, ma invece si osserva che queste scelte “libere” sono condizionate da molteplici e pesanti vincoli sociali, con le differenze tra abiti maschili e femminili, giovanili e per anziani, eccentrici trasgressivi e regolari.
Dunque, nel vestirsi, vi sono ”codici” elementari, come li ha descritti Roland Barthes (“Sistema della moda”, 1972).
La variabilità delle mode è, in una certa misura, imposta da apparati che la diffondono. La moda viene considerata, nell’ottica della “esteriorità”, cioè nella costruzione dell’apparenza sociale opposta a ogni pretesa o ricerca di verità. Proprio tali caratteristiche possiede l’attuale, dilagante, effimera, vacua, moda antisemita.
Ad essa resistono i liberi e forti, gli uomini con il senso della verità nella ricerca, mentre la massa si intruppa, beve il veleno, si intossica, ripete a pappagallo.
La massa delle menti servili si subordina a quel ribaltamento feroce dove gli ebrei assassinati diventano assassini, e i carnefici cannibali dell’azione genocida diventano liberatori. Le dosi di questa malattia, ideologica e sociologica, sono massicce, derivate dalla dittatura mediatica, dagli algoritmi coatti del web generatori di trogloditi di massa, dall’analfabetismo culturale e semi-analfabetismo grammaticale prodotti dal fallimento complessivo della scuola statale di massa, dalle ideologie dominanti degli accademici, dalla paura e dalla viltà. Nel complesso, quella “barbarie digitale” di cui ci ha parlato Bernard-Henry Levy.
Nuova è la superficie della forma dell’antisemitismo in atto, vecchissima, plurimillenaria invece la stratificazione, ora sommersa, ora emergente, dei duri inamovibili stereotipi antiebraici: testa dura, vendicatività, assassini e rapitori di bambini, cospirazione per il dominio, usurai, deicidi.
Ma, mentre la lunga tradizione antisemita è stata prevalentemente reazionaria, con un apice fascista (pur essendo presenti aspetti antisemiti illuministi e progressisti), oggi prevale un antisemitismo duro, implacabile, di tipo progressista o che si pretende tale.
Un antiebraismo urlato, dogmatico, ossessivo, totalizzante, che uccide la libertà di parola, che chiude la bocca con violenza verbale e fisica alla voce ebraica, che condanna alla clandestinità e alla morte la vita ebraica, che affianca il braccio armato dell’apocalisse terrorista e di Stati totalitari impegnati in una guerra civile contro i propri popoli.
Anche l’appello alla memoria di Hitler per completare l’opera della Shoah pretende di coprirsi con un segno progressista.
Universi dittatoriali totalitari terroristi all’offensiva, democrazie oscillanti tra debolezza difensiva, inerzia, cedimento, collaborazionismo.
Democrazie deboli, corrose all’interno da una malattia mortale.
L’eminente e luminoso pensatore della libertà democratica, Alexis de Tocqueville, nel suo capolavoro “La Democrazia in America”, individua tale malattia, fin dai suoi albori:
“Penso dunque che la specie di oppressione che minaccia i popoli democratici non assomiglierà a nessuna di quelle che l’hanno preceduta nel mondo; i nostri contemporanei non possono trovare nessun antecedente nei loro ricordi. Cerco inutilmente lo stesso un’espressione che renda esattamente l’idea che me ne faccio, e la contenga; le vecchie parole come dispotismo e tirannide non sono più adeguate. La cosa è nuova, bisogna dunque cercare di definirla, visto che non posso darle un nome. Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca, ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire perlomeno che non ha più patria. Ho sempre creduto che questa specie di servitù ben ordinata, facile e tranquilla, di cui ho fatto adesso il quadro, potrebbe combinarsi più di quanto non si immagini con qualche forma esteriore di libertà, e che non le sarebbe impossibile stabilirsi all’ombra stessa della sovranità popolare”.
Hannah Arendt svolge considerazioni analoghe in “Le origini del totalitarismo”, la cui parte prima è significativamente destinata al tema dell’antisemitismo. Scrive la Arendt:
“L’atomizzazione della società sovietica venne ottenuta con l’abile uso di ripetute operazioni, che invariabilmente precedevano l’effettiva liquidazione di un gruppo. Per distruggere tutti i legami sociali e familiari, le epurazioni venivano condotte in modo da minacciare della stessa sorte l’accusato e tutta la sua cerchia, dai semplici conoscenti agli amici e ai parenti più stretti. La conseguenza dell’ingegnoso criterio della ‘colpa per associazione’ era che appena un uomo veniva accusato, i suoi vecchi amici si trasformavano di colpi nei suoi nemici più accaniti. […] Fu con l’impiego radicale di questi metodi polizieschi che il regime staliniano riuscì a instaurare una società atomizzata quale non si era mai vista prima, e a creare attorno a ciascun individuo un’imponente solitudine, quale neppure una catastrofe da sola avrebbe potuto causare”.
Ancora, un filosofo politico ebreo nato in Polonia, Jacob L. Talmon (professore di Storia nell’Università di Gerusalemme), nel suo libro fondamentale “Le origini della democrazia totalitaria” mostra come lo scontro tra liberalismo e comunismo presentasse lontane radici storiche. La sua visione di una “democrazia totalitaria” è generata da una tendenza propria della democrazia illiberale, che viene da un’aspirazione messianica a pianificare una società perfetta. Un pensiero che si illude di un perfettismo raggiungibile, che la storia abbia una meta, e che la felicità possa essere ottenuta grazie alla politica. Talmon riconosce l’origine di questa tradizione nel messianisimo politico dei filosofi enciclopedisti e giacobini, e nella dittatura giacobina dei Robespierre e dei Saint-Just.
La moda antiebraica in corso è talmente prigioniera della cecità ideologica e di una servitù alla guerra psicologica dei macellai jihadisti, che non farà mai i conti con le dichiarazioni esplicite, brutali, genocide del gangster numero uno di Hamas, Yahya Sinwar, maledetto sia il suo nome.
Il Wall Street Journal ha pubblicato il suo vero programma, nella forma di ordini ai mediatori di Egitto e Qatar durante le ultime trattative: più morti civili a Gaza, meglio è per la causa del jihad. Quello che era chiaro alle menti aperte, cioè che la responsabilità politica, militare, civile, morale di tutte le vittime a Gaza è interamente e direttamente di Hamas, ora dovrebbe essere chiaro per tutti. Ma non sarà così, perché continua la dinamica della militarizzazione e fanatizzazione mentale, della negazione del cuore, intrinseca alla polarizzazione rigida amico-nemico a prescindere dalla realtà fattuale e dall’umana decenza.
I fanatici continueranno, come prima e più di prima, a pretendere l’eliminazione di Israele e la glorificazione liberatrice di Hamas e sodali. Del resto, all’inverso, Sinwar fa le sue dichiarazioni ultrahitleriane fidando sul servilismo degli idioti e degli schiavi.
Sinwar ha accusato il colpo della liberazione degli ostaggi da parte di Tsahal con la collaborazione americana, e ha reagito alla sua maniera. Così ha reso più chiara di prima la vera natura della guerra, fin dalla lunga preparazione del 7 ottobre. È lui l’architetto della tattica e strategia dell’orrore smisurato del genocidio e della guerra psicologica vinta dal terrore, e persa da Israele. Proprio lui, che deve la sua stessa vita alla generosità radicale di Israele nello scambio tra il sergente Gilad Shalit e un numero enorme di assassini stragisti. Il suo scopo è sempre stato la morte del maggior numero possibile di palestinesi, soprattutto donne e bambini, in nome del martirio islamico o, più semplicemente, per calcolo utilitario, nella sua totale cultura della morte, in odio alla cultura della vita e alle ragioni della dignità e della libertà umana.
Foreign Affairs ha pubblicato un saggio sulla “reinvenzione della guerra sotterranea” e sull’organizzazione delle emozioni attraverso la pornografia delle immagini del 7 ottobre.
Una guerra sotterranea di tipo nuovo, diversa da quella delle trincee scavate nel fango della Prima Guerra Mondiale, attraverso l’organizzazione di 500 chilometri di gallerie tecnologiche, con centri di comando sotto scuole, ospedali e moschee, tutti in un lucido alluminio, perfetti, su più livelli, con prigioni, ospedali, centri distribuzione alimenti. Un piano strategico di una città metallica sotterranea, invisibile agli aerei e base per il massacro di ebrei, senza precedenti per disumanità efferata.
Sinwar si è addestrato allo sterminio degli ebrei massacrando uomini e donne arabi palestinesi “traditori e apostati”. Fin dall’inizio, Sinwar ha realizzato l’ordine genocida del sangue che chiama sangue con il 7 ottobre, con una azione peggiore dei nazisti per ferocia e sadismo, tale da obbligare Israele a una autodifesa, per poi pianificare nella Striscia quanti più morti possibili.
La realtà del 7 ottobre, di Hamas, del Jihad, dell’Iran e affini è la prova ulteriore della caduta del mito del progresso. Una caduta tanto radicale che i genocidi, i massacratori di figli davanti alle madri e madri davanti ai figli, di bambini arrostiti nei forni, di stupri omicidi di guerra fino a spezzare i bacini, di organizzazione di carne da macello per i palestinesi. Manifestanti che vogliono la continuazione dell’opera di Hitler e della Shoah, con forme più esibite e disumane, continuano a presentarsi senza vergogna, killer di verità, come “attori del progresso”.
Modaioli banali effimeri e mostri sanguinari uniti nella lotta per lo sterminio degli ebrei, e per aprire le porte a una schiavitù universale.
Ci soccorre la geniale purezza del poeta.
Leopardi, nel “Dialogo di Tristano e di un amico”, scrive parole di attualità feconda:
“Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sonno. Lasci fare alle masse, le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. […] Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava dritto in un paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l’indole del tempo presente e futuro, assolvono essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. […] Anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch’è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo. In questo, la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è più possibile di aprirsi una via. È così, mentre tutti gl’infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esito diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi”.
Quel che i gazzettieri non possono, non sanno dire, lo dice un genio, con acume trafiggente e preveggente.