Antisemitismo, Antisionismo e Debunking

Le tele nere di Gideon Levy

Gideon Levy, di cui l’Internazionale pubblica tradotti in italiano gli articoli che prima appaiono su Haaretz, è da tempo un caso da annali. L’odio che nutre per Israele, paese in cui vive, non ha nulla da invidiare a quello più furente di Hamas o Hezbollah, o di chi, in Occidente, vorrebbe vedere lo Stato ebraico scomparire. I suoi pezzi raccontano a puntate un unico romanzo criminale in cui i palestinesi sono sempre e solo vittime di una entità mostruosa e spietata, sanguinaria, crudele, folle. Sì, Levy è ebreo, sì è israeliano. E allora? Sono numerosi i casi di autodissoluzione ebraica. Qui si tratta di una conclamata autoidentificazione con il proprio nemico, trasformato in vittima mentre si rappresenta la propria stessa identità, in questi casi collettiva, sfigurata dall’abiezione, come un ritratto di Dorian Grey non più celato ma esibito al pubblico senza vergogna.




Nel suo ultimo pezzo, Levy ci racconta la morte di un manifestante palestinese disabile, Abu Thuraya, morto venerdì scorso mentre manifestava a Gaza contro la decisione di Donald Trump di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele. Il giovane, in sedia a rotelle, è stato ucciso durante gli scontri che ci sono stati ai confini con Israele. Levy non si interroga nemmeno un attimo sulla dinamica dei fatti. Per lui ciò che è sufficiente è evidenziare due cose, che si tratta di omicidio e che la vittima fosse disabile. Cosa c’è di meglio per raffigurare i soldati dell’IDF come assassini di disabili, quando non di bambini? Certo, i bambini uccisi sono sempre l’asset migliore per chi voglia mostrificare Israele. Nessuno si sogna di parlare dei migliaia di bambini fatti uccidere da Assad in Siria in questi anni, quelli non indignano. Solo quando muoiono i bambini a Gaza come conseguenza di un conflitto iniziato da Hamas, allora si scuotono le coscienze, si riempiono le piazze, si brucia in effige lo Stato ebraico. Questa volta no, non si tratta di bambini, ma il corpo di un manifestante senza gambe di 29 anni diventa, per la rapacità di Levy, perfetto ai fini della più bieca strumentalizzazione. E’ un magnifico soggetto per un canovaccio orrendamente espressionista il cui unico scopo è quello di suscitare in chi lo legge odio, disprezzo e livore per Israele e il suo esercito.

“Abu Thuraya che solleva entrambe le braccia in segno di vittoria, Abu Thuraya trasportato dai suoi amici mentre muore dissanguato”, scrive Levy. La pennellata è grossolana, non c’è tempo per le finezze, si tratta di andare al sodo. La vittima senza gambe che si dissangua, le braccia sollevate. E’ sufficiente? No, non basta, ci vuole l’infamia, condensata in questa frase, “Il tiratore scelto dell’esercito non poteva mirare alla parte bassa del corpo della sua vittima il 15 dicembre, e quindi ha deciso di sparargli alla testa e di ucciderlo”. Non c’è altro da dire. Il giudizio è definitivo, perentorio. Si tratta di crudeltà, di omicidio contro un poveraccio senza gambe che era lì a manifestare. Come si siano svolti i fatti, perché tra le vittime (tre in tutto) ci fosse anche Abu Thuraya, Levy non se lo chiede. Il suo scopo non è quello di fornire una rappresentazione problematica, i soldati che sparano selettivamente contro i principali istigatori, uno zelo forse eccessivo, un errore, qualcosa di meno chiaro di come sembra, no. Tutto questo è irrilevante per chi ha solo una missione da compiere, quella di condannare senza appello. “Quanta malvagità e insensibilità occorre per sparare a una persona in sedia a rotelle?”. Ci siamo. Eccolo fornito l’alibi ai fanatici, ai jihadisti, agli antisemiti più agguerriti. Armatevi e uccidete chi ammazza con “malvagità” un povero disabile. Siete moralmente autorizzati, perché “Abu Thuraya non è stato il primo, e non sarà l’ultimo disabile palestinese ucciso dai soldati dell’esercito israeliano”.




Da un caso di cui non si conoscono ancora con chiarezza i contorni, si giunge a una generalizzazione colpevolizzante il cui senso è che i soldati israeliani uccidono i disabili. Ora, c’è da chiedersi, cosa c’è di diverso qui dai libelli del sangue medioevali, dalle accuse rivolte agli ebrei di uccidere bambini cristiani per usare il loro sangue nella confezione delle azzime? Oppure di avvelenare i pozzi o propagare la peste? Nulla, la sostanza è la medesima.

La demonizzazione lavora sempre con gli stessi materiali, li aggiorna, li pesca dal contesto del presente. Levy fa questo lavoro, pesca a piene mani e imbratta le sue tele in cui la realtà è stravolta, capovolta, allucinata, in cui Hamas, la violenza e il fanatismo musulmano sono sempre assenti, come è assente la causa della tragedia di Gaza, il fatto che dal 2007 essa sia sotto il tallone di ferro di una dittatura brutale che ha nella sharia la sua regola. Gaza dove i ragazzini vengono sfruttati per costruire tunnel che dovrebbero trasferire commando terroristici in Israele per provocare massacri, dove sia nel 2009 che nel 2014 la popolazione civile è stata cinicamente usata come scudo per massimizzare le vittime causate da conflitti voluti da Hamas, dove regolarmente vengono ammazzati palestinesi accusati di essere al soldo di Israele, “spie sioniste”, senza prove, basta un bisbiglio, un passaparola. Gaza sotto ostaggio, imprigionata sì, come scrive Levy, ma certo non da Israele, bensì dall’integralismo islamico, dal tribalismo, da una congrega torva di fanatici per i quali l’autoimmolazione e il jihad sono il compimento di una vita. Tutto questo è assente dalle tele, non può apparire.

Chi legge Levy e lo apprezza ama i sapori forti, gli odori acri, vuole di Israele una raffigurazione nero pece. Lui non li delude mai, soprattutto in questo pezzo in cui chiede, alla fine, che non solo Netanyahu venga arrestato ma che per lui ci sia, come per Milosevic, il Tribunale dell’Aja.

Ci sono casi, e questo è uno dei più eclatanti, in cui dalla melma in cui si sguazza non è più possibile levarsi. Serviranno dunque come chiosa gli immortali versi del Poeta:

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso

vidi gente attuffata in uno sterco

che da li uman privadi parea mosso.

E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,

vidi un col capo sì di merda lordo.

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