Il 28 gennaio 1969, sulla scorta delle polemiche e delle tensioni internazionali che caratterizzano gli anni successivi alla Guerra dei sei giorni, un gruppo di «ebrei di sinistra» pubblicò su L’Unità una lettera-manifesto diretta contro la «politica nefasta del governo d’Israele».
Tale missiva, dopo aver espresso il consueto e formale rigetto del terrorismo arabo-palestinese, muoveva all’allora governo israeliano, guidato dal laburista Levi Eshkol, l’accusa di alimentare con la sua azione governativa le «posizioni oltranziste ed espansionistiche», ponendo così le «premesse per un nuovo conflitto».
Si tratta delle medesime critiche che, attualmente, gli «ebrei di sinistra» lanciano contro Netanyahu e la destra, colpevole a sentir loro di «fomentare» lo scontro con gli arabi favorendo il movimento dei cosiddetti «coloni».
Gli «ebrei di sinistra» della Diaspora hanno criticato come «oltranzisti» tutti i governi israeliani, compreso quello del santificato (ma solo dopo il suo assassinio) Yitzhak Rabin, dimostrando così di avere una notevole difficoltà ad accettare Israele come Stato nazionale. Essi lo difendono nella misura in cui si attendono che il «progresso» storico abolirà gli stati nazionali e risolverà il problema degli ebrei una volta per tutte, disperdendoli in un’astrazione chiamata «umanità».
Israele, alla sinistra diasporica profondamente influenzata dal marxismo, appare troppo identitario, troppo statuale, troppo «ebraico» per preservarlo fino in fondo. Il loro originario «internazionalismo», attualmente decaduto in una forma di «mondialismo» nemico di tutte le autoctonie e identità solide, li induce a vedere Israele come veicolo per una società multiculturale, «mista», in cui l’elemento ebraico sia diluito fino alla sua sparizione.
Gli «ebrei di sinistra», ieri come oggi, sono sordi alle dure lezioni impartite dalla Storia. Come se dai tempi di Altneuland nulla fosse accaduto, perpetuano l’utopia di Herzl e del suo «stato ebraico» binazionale e irenico. Non hanno ancora compreso che nessuna pace è possibile con un nemico che considera lo sterminio del popolo d’Israele come un dovere religioso. I «palestinesi», non solo i membri di Hamas, sono le truppe d’assalto di una seconda Shoah.
Incapaci di comprendere questi fatti elementari, gli ebrei progressisti dell’Europa e degli Stati Uniti vorrebbero lasciare la Giudea e la Samaria, centri storici del Giudaismo, agli arabo-palestinesi, affinché vi costituiscano un loro «Stato», che diventerebbe una base terroristica permanente, come non smettono di proclamare nelle loro dichiarazioni in arabo. Ma il conflitto in Medio Oriente non riguarda la terra o uno «Stato palestinese»; si tratta di una guerra di aggressione che dura da sessant’anni, condotta da musulmani sunniti e sciiti, per distruggere il focolare nazionale ebraico e gettare i suoi abitanti in mare.
Non ci sarà mai un futuro privo di conflitti tra popoli e civiltà né uno in cui gli ebrei cesseranno di essere oggetto di invidia, risentimento e odio virulento, al punto da rendere Israele superfluo. Eppure, gli «ebrei di sinistra» negano la determinazione degli islamisti ad ucciderli. In parte, questa negazione psicologica è comprensibile, può capitare a tutti coloro che si trovano ad affrontare una prospettiva troppo terribile per essere contemplata, ma quando assume una rilevanza politica, significa correre un grave pericolo.
Le loro lagnanze circa i «coloni» e la destra al governo, che sembrano ritenere responsabili dell’attuale conflitto, quasi a voler scagionare Hamas e i suoi sponsor iraniani e turchi, ricordano le tristi illusioni dei membri degli Judenrat, i Consigli ebraici nei ghetti nazisti, che cercavano di convincersi del fatto che i tedeschi fossero troppo civili per ucciderli in massa. La storia recente degli ebrei è puntellata di queste illusioni, basti pensare al modo in cui le Comunità Ebraiche italiane si affidarono al regime fascista, convinte che le avrebbe protette dell’antisemitismo nazista.
Gli «ebrei di sinistra» dell’Occidente, diasporici solo per modo di dire, hanno dimenticato la violenza antiebraica e l’importanza di avere un rifugio nazionale. Se tutto ricominciasse, come ai tempi di Hitler, è in Israele e solo in Israele che gli ebrei, anche quelli progressisti e antisionisti, troverebbero un riparo.