Nello sproloquio generale sulla guerra in corso a Gaza si assiste in questi mesi a una furiosa gara tra chi ha da dire la sua. Sono molti, troppi, i più senza alcuna competenza, il che è il minimo oggi, epoca in cui lo specialismo e la conoscenza approfondita è considerata pari a quella di chi, sul conflitto israelo-palestinese ripete frasi fatte e slogan preconfezionati.
Sul Corriere della Sera, Paolo Giordano, ultimo arrivato, scrive un articolo in cui, bollando di “sfrenatezza” il governo in carica in Israele ci dice che quello che sta accadendo a Gaza lui preferisce definirlo “massacro”, essendo, rispetto a “rappresaglia” e “genocidio”, un “termine più neutro”.
“C’è stato un massacro, a cui è seguito un altro massacro, che continua. Su questa limpida realtà fattuale non c’è molto da discutere”.
Invece no, questa non è affatto “una limpida realtà fattuale”, e proprio per questo c’è molto, moltissimo da discutere. Prima di tutto l’equivalenza è fraudolenta.
Quello che Hamas ha perpetrato il 7 ottobre 2023 è un eccidio a freddo, il cui scopo è stato quello programmatico e dunque intenzionalmente omicida di sterminare quanti più ebrei possibile.
I morti di Gaza, (non sappiamo se per Giordano i jihadisti di Hamas vanno computati tra i massacrati o sono da considerarsi una categoria a parte), sono una conseguenza purtroppo inevitabile della reazione israeliana.
Sub specie aeternitatis, i morti ammazzati in guerra sono tutti uguali, così come contano assai poco le ragioni di una parte piuttosto che quelle dell’altra, ma nel mondo contingente nel quale ci è dato vivere, le distinzioni sono inevitabili, così come è inevitabile la demagogia, la retorica, l’equidistanza e i buoni sentimenti che fanno sentire nobili coloro che, come Giordano, ci dicono che la guerra è brutta e ci invitano a guardare la notte senza stelle dove le vacche sono tutte nere.