Tra i numerosi siti che propagano a mo di megafono la propaganda contro Israele, c’è ampia scelta, uno fra i tanti è il sito di Fujiko Formazione, una radio con sede a Bologna, che, quando si occupa di Medio Oriente, e nello specifico di Israele, segue pedissequamente le coordinate dell’Autorità Palestinese.
Non è tanto il sito in sè a interessarci, quanto un recente articolo che, prendendo le difese dell’inverecondo rapporto di Amnesty International secondo il quale in Israele si praticherebbe l’apartheid, condensa in un paragrafo una serie sorprendente di menzogne. Vale la pena riportarle perchè sono la dimostrazione di come le accuse contro Israele, al di là di quella realtiva al “genocidio” dei palestinesi, siano poche, ripetute, e grottesche, un po’ come le false mappe della presunta espansione israeliana ai danni dei palestinesi, che circolano da anni, malgrado siano una bufala degna di Amici Miei https://www.israele.net/la-false-mappe-della-propaganda-anti-israeliana.
Ma c’è poco da fare, la coazione a ripetere è una prerogativa necessaria della propaganda, anzi è la sua stessa ragione d’essere, così, a proposito del rapporto in questione, sul sito citato leggiamo che:
“Nelle 278 pagine del rapporto di Amnesty International…vengono dettagliate le pratiche israeliane che portano al dominio e all’estrema discriminazione nei confronti dei palestinesi. I grandi limiti alla libertà di movimento, la requisizione delle terre, il divieto di edificare, le discriminazioni in tema di ricongiungimenti famigliari, le uccisioni illegali, le deportazioni di popolazioni o la loro cacciata da villaggi o quartieri, come è avvenuto a Gerusalemme Est nel maggio dello scorso anno, la ripartizione discriminatoria delle risorse. Sono queste ed altre le misure praticate da Israele”.
Queste sarebbero le accuse, che, saldate una all’altra come gli anelli di una solida catena imprigionerebbero i palestinesi nel ferreo giogo dell’apartheid. Sulla natura dell’apartheid, i suoi requisiti base, ha già chiarito nel suo articolo, David Elber https://www.linformale.eu/il-grottesco-impianto-accusatorio-di-amnesty-international/sugli aspetti contenuti invece in questa requisitoria, è il caso di soffermarsi brevemente per decostruirne gli assunti base.
Procedendo con ordine dobbiamo iniziare con quella che sarebbe la prima libertà negata in Israele ai palestinesi. Da Gaza, l’enclave governata da Hamas dal 2007 i palestinesi cercano, se viene loro consentito, di andare a lavorare in Israele. Sono diecimila i permessi lavorativi istituiti da Israele per i palestinesi residenti nell’enclave. Nei cosiddetti territori “occupati”, ovvero la Giudea e Samaria (Cisgiordania, West Bank) i flussi di movimento dei frontalieri palestinesi che ogni giorno entrano in Israele è regolato da checkpoint, visto lo statuto speciale di questi ultimi, normato dagli Accordi di Oslo del 1993, così come si trovano checkpoint in altri punti del paese, la cui presenza, come quella della barriera fatta costruire nel 2002 durante la Seconda Intifada, si è resa necessaria per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani. Anche essa un simbolo tangibile dell’apartheid.
Alcuni numeri possono farci capire in che misura il movimento dei palestinesi che vivono nei territori sia coartato. Sono 87.000 i palestinesi che, provenienti dai territori lavorano legalmente in Israele, mentre 35,000 lavorano negli insediamenti israeliani. Recentemente Israele ha concesso 16.000 permessi supplementari per aiutare la precaria economia dell’Autorità Palestinese. Sono dati che evidenziano quanto Israele limiti il movimento dei palestinesi residenti fuori dal suo perimetro.
Veniamo alla “requisizione delle terre” considerate di proprietà araba. Lo faremo facendo un salto indietro, retrocedendo per l’esattezza al periodo ottomano quando gli arabi possedevano circa il 15% della terra. Oggi, nel 2022, la percentuale è la medesima. Bisogna però dire che nel corso degli anni determinati terreni di proprietà araba laddove ritenuto necessario sono stati espropriati dallo Stato, sempre con compensazione economica nei confronti dei legittimi proprietari. Secondo le normative del diritto internazionale l’espropriazione di un terreno per ragioni di difesa militare, sempre dietro compensazione economica, è ammessa, così come stabilto con chiarezza dalla IV Convenzione dell’Aia del 1907.
In tutti i paesi civili, e Israele non si vede perchè dovrebbe fare eccezione, l’edificazione è consentita secondo le leggi vigenti, le edificazioni abusive sono considerte un reato. La percentuale di abusivismo edilizio palestinese in Israele, nonostante “l’apartheid”, è endemica. Ancora nel 2017, secondo quanto riferito alla Knesset da Marco Ben Shabat della Divisione di Vigilanza nell’Area C della Giudea e Samaria, il 60% delle strutture abusive palestinesi costruite era ancora intatto dal 2010. Fino al 2010 solo dal 10% al 15% delle strutture abusive era stato rimosso e solo il 30, 35% demolito. Evidentemente, per gli estensori del rapporto di Amnesty International, l’abusivismo palestinese dovrebbe essere condonato così come dovrebbero essere considerare illegali tutte le uccisioni di terroristi.
Si ricorda qui il caso della grande manifestazione organizzata da Hamas con la collaborazione parziale di Fatah e della Jihad islamica del 30 aprile 2017 al confine di Gaza con Israele e che avrebbe dovuto culminare tra il 14 e il 15 maggio dello stesso anno. In mezzo a 40,000 partecipanti, il 30 marzo, l’esercito israeliano uccise 16 manifestanti. Ventiquattro ore dopo l’esecrazione internazionale, l’IDF fu in grado di mostrare le fotografie dei 16 morti, qualificati dalla stampa di mezzo mondo come “innocenti” e “pacifici” manifestanti, in assetto militare. Erano infatti membri della Brigata Izz ad-Din al-Qassam, rivendicati successivamente da Hamas stesso come propri miliziani. Vi furono 62 altri morti successivamente, quelli che Massimo D’Alema, in una intervista, defini come vittime disarmate di un “barbaro eccidio”. Fu lo stesso portavoce di Hamas a specificare che no, non erano vittime disarmate ma, ancora una volta 50 dei propri miliziani. Gli esempi potrebbero essere molti altri, ma per Amnesty International, queste uccisioni sono da considerarsi “illegali”, come lo è l’uccisione di qualsiasi altro terrorista da parte della polizia israeliana o dell’esercito.
Discendendo per li rami, in Israele i ricongiungimenti familiari sono disciplinati burocraticamente come in qualsiasi altro paese, tuttavia vi è una legge restrittiva relativamente al ricongiungimento di cittadini palestinesi residenti nei territori, sposati con cittadini palestinesi residenti in Israele. La legge venne introdotta nel 2003 al culmine della Seconda Intifada per motivi di sicurezza dopo che un membro di Hamas, Shadi Tubasi, il quale ottenne la carta di identità israeliana in virtù del suo matrimonio, uccise sedici israeliani in uno dei più brutali attachi terroristici del periodo.
Circa 130,000 palestinesi ottennero il ricongiungimento familiare durante gli anni ’90. Secondo lo Shin Bet 155 di costoro e i loro discendenti si sono resi responsabili di atti di terrorismo dal 2001 in poi. Ma tutto questo scompare dalla scena per i fautori della “discriminazione” che questa legge esemplificherebbe, occultando le ragioni della sua entrata in vigore. Essa sarebbe un simbolo dell’apartheid che vigerebbe in Israele.
“La deportazione di popolazioni”, è forse il gioiello della corona del rapporto di Amnesty International e si coniuga perfettamente con l’accusa di “pulizia etnica”, quella che, nella fabula neocolonialista di Ilan Pappe, pupillo di ogni propalestinese duro e puro, sarebbe avvenuta da parte ebraica nei confronti della popolazione araba, durante la guerra del 1948. La pietra di inciampo, in questo caso è però vistosa.
E’ sempre la storia (ovvero i fatti) a sostenerci. Nel 1948 nel territorio mandatario risiedevano complessivamente circa 1.300.000 arabi. Oggi nello stesso territorio ne risiedono 6.400.000 (1.800.000 in Israele, 2.800.000 nei territori amministrati dall’ANP e 1.800.000 a Gaza). Per quanto riguarda Gerusalemme la situazione è la seguente: nel 1967 vi risiedevano 263.000 arabi, oggi sono 320,000 su 900.000 complessivi, ovvero la percentuale più (35%) dall’inizio del primo censimento effettuato nel 1840. Un caso davvero clamoroso quello di Israele, in cui la deportazione della popolazione araba l’ha esponenzialmente incrementata.
L’ultimo misfatto elencato è la discriminazione delle risorse, altro segno inequivocabile, secondo Amnesty International, del suprematismo razziale ebraico. In questa circostanza ci possono venire in soccorso gli Accordi di Oslo.
Nell’appendice I, all’Art.40, le parti concordarono in modo estremamente dettagliato l’utilizzo delle risorse, i compiti delle parti nella gestione del sistema idrico e lo stabilirsi di una commissione congiunta per la verifica del fabbisogno della popolazione. Tra i compiti assegnati alla parte israeliana c’era quello di fornire la maggior parte dell’acqua destinata alla popolazione palestinese, compito che Israele assolve ancora oggi.
Inizialmente, venne stabilito che le autorità israeliane dovessero fornire una quantita di acqua fresca pari a 28.6 mcm annuali. Nel corsi degli anni successivi la commissione congiunta aumentò enormemente l’erogazione dell’acqua per migliorare la situazione idrica dei palestinesi. Già nei primi anni 2000, la quantità di acqua erogata da Israele è passata dai 28.6 mcm iniziali (concordata con gli Accordi di Oslo) a 47 mcm annuali, fino a raggiungere i 52 mcm all’anno.
Tuttavia, per Riccardo Noury, rappresentante italiano di Amnesty International, non ci sono dubbi, l’apartheid israeliano è una realtà di fatto.