Continuiamo la breve storia del rapporto tra la sinistra e gli ebrei. Complici le due guerre mondiali, la dittatura e la lotta al nazifascismo, le riflessioni in merito alla questione ebraica non subirono mutamenti sostanziali. Nemmeno le leggi razziali del 1938 stimolarono nuove riflessioni. Né il Partito Socialista Italiano né il Partito Comunista Italiano, nato nel 1921, si discostarono dall’interpretazione marxista dell’antisemitismo e del sionismo.
Ogni ipotesi di uno Stato Ebraico veniva rigettata in nome dell’unità proletaria e del mito dell’Unione Sovietica come unico stato in cui l’antisemitismo fosse scomparso. In tal senso si espressero il socialista Dante Lattes e il comunista Antonio Gramsci. Le politiche razziali del regime fascista vennero liquidate come il corollario razziale di un nazionalismo volgare e retrivo. Nella maggioranza dei casi, si sostenne che l’antisemitismo non si sarebbe mai diffuso nella popolazione italiana, ma la realtà smentì questa convinzione. Le autorità della Repubblica sociale, in combutta con l’alleato nazista, perseguirono con puntiglio la caccia all’ebreo, nonostante la guerra stesse terminando con una loro sconfitta.
Sono tuttavia da segnalare alcune eccezioni, specie nell’area appartenente a Giustizia e Libertà, che dimostrò maggiore interesse al tema della persecuzione antiebraica. Tale attenzione era dettata soprattutto dall’origine ebraica di numerosi suoi esponenti.
Possiamo affermare che la riflessione sull’antisemitismo e il sionismo in seno alla sinistra italiana venne da singoli esponenti toccati, direttamente, dal problema. Anche alla luce delle prime testimonianze della Shoah, i partiti della sinistra non modificarono le loro posizioni. Scrive la storica Alessandra Tarquini nel suo libro dedicato alla sinistra italiana e gli ebrei: «Consultando i periodici della sinistra, fra il 1943 e il 1946, l’aspetto che colpisce non è l’assenza di notizie sui lager, ma la mancata riflessione sull’antisemitismo».
Socialisti e comunisti evocarono la Shoah come momento di resistenza in situazioni estreme e come apice dei crimini del nazifascismo, ma senza un riferimento primario agli israeliti. A tal proposito è significativo l’intervento di Natalia Ginzburg, moglie di Leone, sul quotidiano del PCI. La Ginzburg presenta la Shoah come un fenomeno riguardante l’umanità intera, omettendo ogni riferimento all’antisemitismo. Le riflessioni della scrittrice alimenteranno un dibattito sulla natura «universale» o «particolare» della Shoah, che non accenna a placarsi nemmeno oggi. Altri intellettuali della sinistra, come Alberto Moravia e Renato Guttuso, fecero della Shoah l’espressione di una disumanizzazione generale e il simbolo del male universale. Il nascondimento della natura antisemita della deportazione e dell’entusiastico sostegno di molti alle leggi razziali era funzionale a una certa retorica antifascista, che mirava a rappresentare gli italiani, essenzialmente, come vittime di un tiranno e mai, davvero, convintamente fascisti e razzisti. Si stava confezionando il mito del «buon italiano», che negli anni a venire sarebbe diventato di dominio comune, fungendo da risposta auto-assolutoria. Scrive ancora la Tarquini riferendosi ad ampi settori della sinistra: «La maggior parte di loro, come accadde nel resto d’Europa, interpretò l’antisemitismo all’interno della categoria dell’antifascismo e non fece distinzioni fra i perseguitati razziali e quelli politici».
In Unione Sovietica, lo stato a cui una fetta consistente della sinistra italiana guardava con speranza, il 13 gennaio 1953, Stalin annunciò al mondo l’esistenza di un «complotto dei medici». Nove medici del Cremlino, di cui sei di origine ebraica, vennero accusati di aver assassinato, tra il 1945 e il 1948, alcuni stretti collaboratori del dittatore e di essere pronti a uccidere i maggiori dirigenti politici e militari dell’URSS, secondo gli ordini ricevuti dagli «imperialisti occidentali» e dai sionisti.
Nelle settimane successive, la stampa rincarò la dose sulla «quinta colonna» ebraica e diede notizia dell’ondata di arresti di ebrei accusati di non meglio precisati «crimini economici» e di spionaggio. L’ultimo piano di Stalin per lo sterminio di nemici reali o immaginari, riguardò gli ebrei, a riprova del fatto che il secolare pregiudizio antisemita non era scomparso dalla Russia sovietica ma, anzi, trovò nuova linfa dalla nascita dello Stato d’Israele, a cui sarà dedicato il prossimo articolo.