Editoriali

La vittoria di Trump e il suo significato per Israele

La vittoria netta di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane non è, in primis, una buona notizia per l’Iran e per  i suoi delegati in Medio Oriente, ma lo è invece in modo lampante per Israele e anche, collateralmente, per l’Arabia Saudita e per gli Emirati del Golfo.

Alla notizia della vittoria di Trump il rial iraniano è sceso al minimo storico. Dai 32,000 necessari per un dollaro del 2015 quando vennne siglato l’accordo sul nucleare si è arrivati ai 703,000 al dollaro di oggi.

Trump è stato l’unico presidente americano che dal 1979 ha posto sull’Iran sanzioni massicce che ne hanno fortemente compromesso la tenuta economica, così come è stato l’unico presidente in carica ad asssestare al regime un colpo durissimo con l’uccisione in Iraq nel gennaio del 2020 di Qasem Soleimani, una delle sue figure più di spicco e il regista della strategia del terrore che per decenni l’Iran ha articolato a livello regionale.

Si tratta dunque per Khamenei e per i suoi accoliti di un antagonista vero e pericoloso, lontano mille miglia dalla mano vellutata che gli porse Obama durante la sua presidenza e che ha continuato a porgergli l’Amministrazione Biden.

Inutile sottolineare come, dalla sua vittoria, il governo Netanyahu esca fortemente rafforzato e che Benjaminn Netanyahu possa tirare un sospiro di sollievo relativamente alle intenzioni programmatiche dell’Amministrazione Biden di fare nascere in Cisgiordania uno Stato palestinese retto da Fatah che non si è mai dissociata dall’eccidio del 7 ottobre.

Con la seconda presidenza Trump questa prospettiva è tramontata, come era già accaduto durante il suo primo quadriennio. Si rafforzano invece gli Accordi di Abramo, rimasti sospesi nel loro esito ulteriore e di maggiore rilievo, l’intesa diplomatica tra Israele e Arabia Saudita annunciata da Netanyahu come prossima nel settembre 2023 all’ONU e mandata a gambe all’aria dall’aggressione di Hamas.

Per quanto riguarda Gaza, dove Hamas è stato sostanzialmente disarticolato, ma dove sono prigionieri ancora 101 ostaggi, Netanyahu potrà avere ancora più mano libera per fare ciò che Trump lo esortava a fare pochi mesi fa, “finish the job”, concludere il lavoro, il che, in termini concreti, può solo preludere a una presenza protratta di Israele all’interno della Striscia che metta fine definitivamente al regime terrorista dell’organizzazione jihadista salafita. Lo stesso vale per il Libano, dove l’esigenza di Israele non è quella di occupare il paese ma di neutralizzare la minaccia di Hezbollah al di la del fiume Litani, consentendo ai circa ottantamila sfollati israeliani che dal 8 ottobre hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni, di potervi tornare in sicurezza. Anche qui, è prevedibile che Trump si attivi affinchè questo obiettivo essenziale venga raggiunto.

Tornando all’Iran e alla sua minaccia, esso si trova adesso ulteriormente indebolito e fortemente esposto a un ulteriore intervento militare israeliano che, come lo stesso Trump aveva esortato a fare, colpisca i pozzi petroliferi e i siti nucleari, neutralizzando di fatto la minaccia nucleare che pende sullo Stao ebraico.

Si tratta al momento di possibili esiti psrossimi. L’Amministrazione Biden resterà ancora in carica per circa tre mesi, periodo insidioso, durante il quale non è da escludere che in attesa dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca il 20 di gennaio, venga confezionata per Israele qualche polpetta avvelenata.

 

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