Ieri, a Ventimiglia ha avuto luogo la presentazione del libro di David Elber, collaboratore fisso de L’Informale, “Il diritto di sovranità in terra di Israele” (Salomone Belforte Editore, 2024), durante la quale, un gruppo agguerrito di contestatori ha cercato, senza successo, di impedirne lo svolgimento. Qui di seguito, il resoconto di quanto è accaduto.
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Se c’è un contesto in cui si rivela il disorientamento del popolo che occupa le università italiane con slogan su un conflitto di cui sanno ben poco, sono i luoghi di confronto. Se all’interno di una piazza con i militari schierati la tentazione di contrapporsi fisicamente alla polizia o all’avversario può apparire persino ragionevole per chi è in età di tempeste ormonali, utilizzare lo stesso registro comunicativo gridando al fascismo, al regime, al razzismo in una circostanza in cui il confronto tra posizioni diverse non sarebbe solo possibile, ma anche auspicabile, il cortocircuito si manifesta in tutta la sua grottesca evidenza.
Ma andiamo per ordine. Siamo alla fine di una 3 giorni tra Liguria e Principato di Monaco dedicata all’informazione su Israele promossa da Maria Teresa Anfossi, presidente dell’Associazione Italia Israele di Ventimiglia. In agenda la presentazione di David Elber, storico, ricercatore, autore e brillante divulgatore che parlerà di diritto internazionale, requisito fondamentale per orientarsi in ogni discussione che inevitabilmente affronta i temi della sovranità, della terra e dello status di Gaza e dei territori contesi. Sullo sfondo c’è la Biblioteca Aprosiana di Piazza Bassi, nel centro di Ventimiglia, che questi giorni appare più bella che mai, baciata dalla bella stagione.
Lo spazio è stato concesso dal sindaco Di Muro, seguendo una prassi che va oltre la cortesia istituzionale e che il nutrito gruppo di forze dell’ordine a presidiare l’entrata evidenzia. La richiesta della concessione di uno spazio che tocca i temi del conflitto non è solo un atto formale – e che i ringraziamenti in apertura sottolineano come non si dia per scontato – piuttosto si tratta di una meritevole scelta di campo, quella che contrappone legalità e dialogo al tentativo di una lettura a senso unico della guerra a Gaza e che rende in questi mesi un atto eroico anche il solo parlare di ebraismo e conflitto arabo-israeliano. La Resistenza, tema di cui una parte della società si è appropriata indebitamente, oggi è quella di chi mette gli spazi a disposizione di un evento potenzialmente in grado di richiamare frotte di facinorosi. Il coraggio sta dalla parte di chi decide di farsi quattrocento chilometri consapevoli che un pugno di fluidissimi figli di papà in un pomeriggio di giugno decida di combattere la noia cercando di venderci che lo fa per carità verso i palestinesi e amore della libertà e si possa sabotare un evento, tradendo il loro disinteresse per l’una e per l’altra causa.
Alle 16 tutto è pronto per cominciare, quando tra il pubblico, oltre gli interessati al libro e alle parole di Elber cominciano ad occupare i posti in sala un gruppo nutrito di giovani, troppo numerosi, troppo colorati e troppo ben distribuiti per non apparire come l’alba di un’azione di disturbo coordinata. I relatori, tra i quali il sottoscritto, che ha il compito di introdurre l’incontro e l’editore Guido Guastalla non si scompongono anzi plaudendo alla partecipazione di così tanti giovani in un contesto in cui raramente si vede tanta partecipazione. Decido quindi di introdurre l’autore parlando della difficoltà di orientarsi basando la conoscenza solo sulle piattaforme digitali, portando esperienza diretta di dialogo e convivenza incoraggiando le nuove generazione al pensiero critico e all’imprescindibile studio condotto sui libri, perché l’elaborazione di una posizione – qualunque posizione si decida di avere sul conflitto – non può essere figlia di scorciatoie o regolata dall’esposizione di una qualunque narrativa suggerita dagli algoritmi dei nuovi media.
Ma i ragazzi non sono attratti dal confronto né si dimostrano interessati al rispetto delle regole che assegna degli spazi a chi vuol fare domande e la pazienza di ascoltare le risposte. A nulla valgono i tentativi di spiegare la complessità dell’orientarsi in un epoca di bulimia informativa, dove farsi un idea ragionata del conflitto è già un atto sovversivo. Ma i gustatori non sono lì per ascoltare. Hanno consegne ben precise e non attendono nemmeno di un pretesto per esplodere. Con proclami scritti sugli schermi degli smartphone e recitati a memoria – come a ricordarci che oggi il problema passa principalmente per queste finestre digitali – Scattano in piedi a turno urlando slogan, impedendo ai relatori di intervenire. Il loro intento è quello di impedire lo svolgimento dell’incontro.
Non hanno gli strumenti culturali per apprezzare dell’opportunità di beneficiare dell’esposizione nei pochissimi luoghi dedicati al bilanciamento dell’informazione su Israele. Vogliono prendersi tutti gli spazi e relegare in soffitta persino l’equidistanza ipocrita mostrata a piene mani prima del 7 ottobre: sono per il pensiero unico, per la tesi preconfezionata “Israele stato illegittimo e assassino”, la stessa propugnata dall’oscurantismo radicale. Sarebbe stato molto facile sbattergli in faccia che conciati come sono a Gaza molti di loro avrebbero fatto la fine degli israeliani linciati dalla folla. Ma a nulla valgono le parole nell’epoca della post-verità, della pietà a senso unico, dell’indignazione eterodiretta. Questi ragazzi sono un inconsapevole strumento di propaganda del quinto dominio, quella psychological warfare utilizzata da Hamas e dalle dittature che lo sostengono. Ma si illudono di combattere per loro stessi. Nella loro follia iconoclasta si abbattono non solo su tutto ciò che “israeliano” ma anche su ciò che è ebraico, confermando la sovrapposizione tra antisionismo e antisemitismo, se mai ci fosse ancora qualcuno che volesse distinguerle. Si appropriano di citazioni false di Primo Levi, fanno parallelismi con Auschwitz, parlano di lager a cielo aperto, di genocidio. Tutte parole ben scelte perché la vera lotta dell’asse Iran-Hezbollah-Hamas non è per la conquista di un fazzoletto di terra – militarmente impossibile da conseguire – ma per un bottino in grado di regalare ben più soddisfazione: le menti dei giovani occidentali, più facili da conquistare vista la loro ingenuità e autolesionismo.
Le parole e i cartelli che si portano dietro – insieme alla sola bandiera palestinese che tradisce il superamento dell’anacronistico “due popoli due stati” – risuonano artefatte come le grafiche dell’intelligenza senza artificiale che ottengono decine di milioni di condivisioni grazie ad una nuova forma di antisemitismo. È quella che procede per imitazione, quella dell’aggregazione compulsiva alla scia di proteste ordite a tavolino dai nipotini del KGB che dalla guerra fredda hanno aggiornato i manuali investendo enormi capitali opachi nello sfruttamento della rete e dell’intelligenza artificiale.
L’esposizione dell’autore continua, salvata dal provvidenziale intervento degli agenti della Digos che rimuovono uno ad uno i guastatori mentre si rivelano, urlando frasi scritte sugli smartphone e invitati a scattare in piedi grazie ad una regia che gli impone ordini su whatsapp. Le parole di David Elber sono uno strumento fondamentale per capire le basi del conflitto, se qualcuno di loro avesse la bontà di ascoltarle. L’incontro si conclude con gli organizzatori costretti ad uscire – inseguiti – da una porta sul retro, mentre nella piazza sottostante spuntano ancora più cartelli e megafoni nelle mani di contestatori venuti da Imperia, da Genova, da Milano.
Senza timore di offendere l’autore, la vera lezione oggi è venuta dal comportamento delle forze dell’ordine, sempre più indispensabili a difesa dei pochi spazi di (potenziale) autentico confronto e dallo studio sociologico di un evento che rappresenta l’ennesimo esempio di quello che ci aspetta nel prossimo futuro. L’”Italia in miniatura” non è a Rimini, ma a Ventimiglia, oggi. Gli ingredienti ci sono tutti. Contestatori, forze dell’ordine aggredite, “cattivi maestri” a distanza, contorno ipocrita di claque che applaude con volti, occhi, parole sguaiate, che tradisce la religione dell’odio che li anima e con la quale, purtroppo, dovremo convivere per molto.
Alex Zarfati è presidente di Progetto Dreyfus