Le grandi ambizioni espansionistiche della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan sono recenti, ma l’accelerazione che hanno avuto da un anno a questa parte va considerata come uno dei maggiori pericoli mondiali.
Articoleremo qui le principali azioni politiche e militari che il Presidente turco ha messo in campo per attuare la sua politica neo-ottomana estremamente aggressiva.
L’antagonismo che contrappone Erdoğan ai principali paesi arabo sunniti, l’Arabia Saudita, l’Egitto e gli Emirati Arabi ha molteplici fronti, sia sul piano politico-religioso sia militare: la Libia, la Siria, l’Iraq, il corno d’Africa, il Golfo persico e le fazioni palestinesi. L’asse consolidato con il Qatar va visto nell’ ottica di conquistare il predominio nel mondo sunnita. Il Qatar ha le risorse economiche mentre la Turchia la forza militare. Nel Golfo Persico, la Turchia ha preso le difese del Qatar nella disputa con l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo. Ha inviato un contingente militare a protezione dell’Emirato consistente in oltre 5.000 soldati e carri armati. L’altro pilastro turco, in questa contrapposizione, è la stretta simbiosi ideologica con la Fratellanza musulmana altrettanto pericolosa perché trasversale e radicata nei paesi arabi.
In questa ottica, va annoverata anche l’operatività militare dei turchi in Siria e Iraq. Dalla sconfitta dell’Isis, la Turchia è presente nel Nord dell’Iraq, nella base di Bashiqa, a circa 60 chilometri da Mosul, ma da allora non si è più ritirata. La ragione è il controllo del confine per prevenire “infiltrazioni terroristiche” curde. Di fatto occupa un area del territorio iracheno.
In Siria ha iniziato un’invasione su larga scala per creare una zona cuscinetto finalizzata ad allontanare i curdi del Rojava dal confine turco e sostituirli con una popolazione araba e turcomanna. Oltre a questi avvenimenti bellici, va sottolineato come Erdoğan più volte abbia dichiarato – in modo non troppo velato – che ritiene il trattato di Losanna del 1923, con il quale fu formalizzata la perdita dei territori ex-ottomani del Medio Oriente e del Nord Africa, come qualcosa di “rivedibile” perché il trattato avrebbe una sua “scadenza”. In questa ottica va vista la presenza turca in Iraq, Siria e Libia, dove, con i primi due Stati, ha avuto degli aspri contenziosi di confine sin dai tempi dei Mandati francese e Inglese, soprattutto relativamente al Vilayet di Mosul. Per la stessa ragione ha iniziato una serie di provocazioni con la Grecia nel Mediterraneo orientale e nel mar Egeo. Il rais ha iniziato a mettere in dubbio l’accordo di Parigi del 1947 con il quale si concedeva alla Grecia la sovranità sulle isole del Dodecaneso (controllate dall’Italia fin dal 1912) ritenendole turche per diritto.
Per quanto concerne il teatro libico, qui, da diversi anni, Erdoğan, sta fornendo aiuti militari al governo di Tripoli di al-Sarraj in contrapposizione agli altri paesi arabi sunniti che appoggiano il generale Haftar in una sanguinosissima guerra civile per il controllo delle risorse energetiche del paese. E’con questo scopo che ha deciso di intervenire militarmente in Libia per appoggiare al-Sarraj contro i suoi nemici interni con l’intento ufficiale di “porre stabilità” al paese ma con il fine ben preciso di stringere una alleanza strategica con la Libia per il controllo delle risorse del sud est del Mediterraneo. In base ad una interpretazione del diritto internazionale tutta sua, Erdogan ha concordato con i libici di suddividersi tutta la parte orientale del Mediterraneo come sua zona economica esclusiva, di fatto escludendo Cipro, l’Egitto, la Grecia e Israele, di fatto minacciandoli, in ripetuti discorsi, di astenersi dall’operare lo sfruttamento delle riserve di gas presenti e di non procedere oltre con il progetto di realizzazione del gasdotto per portare il gas verso l’Europa. Minacce che sono state rivolte anche alle multinazionali energetiche europee (ENI in testa). E’ degli ultimi giorni la notizia dell’accordo tra Turchia, Libia e Qatar con il quale la Libia ha ceduto in concessione alla Turchia la città di Misurata per ospitarvi delle basi navali ed aeree. Questo riporta gli orologi indietro al 1911.
Con Cipro, a tutt’oggi occupata per un terzo dalle truppe turche, e con la Grecia, da diversi mesi, si susseguono delle provocazioni navali ed aeree che potrebbero degenerare in uno scontro militare. Tra queste sono da annoverare un “incidente” navale avvenuto tra due navi da guerra (una turca e una greca) tra Rodi e Creta, e la violazione della sovranità greca dell’isola di Castellorizo, con aerei militari e droni. In questo caso la sensazione è che né la NATO né la UE interverrebbero in difesa dei greci o dei ciprioti. Per questa ragione greci e ciprioti si sono notevolmente avvicinati ad Israele per poter avere il suo sostegno in caso la situazione dovesse peggiorare.
Un’ulteriore tappa del nazionalismo in salsa islamica di Erdoğan è stata la conversione del museo di Santa Sofia in moschea. Questa antica basilica cristiana divenne moschea per la prima volta subito dopo la conquista della città di Costantinopoli (oggi Istanbul) nel 1453. Rimase tale fino al 1931. Dal 1935 per volontà di Kemal Ataturk divenne un museo. Dallo scorso 10 luglio è tornata ad essere una moschea. Mossa volta a compattare le file islamiche del partito di Erdoğan e della Turchia intera sempre più alle prese con una grave crisi economica che ha iniziato a erodere il consenso verso il Presidente-Padrone del paese. Per lo stesso motivo è stata appena operata la conversione in moschea dell’ex chiesa di San Salvatore in Chora, sempre a Istanbul, che, fin dal 1958, era un museo molto visitato per i suoi splendidi affreschi.
Un altro capitolo della politica di Erdoğan è quello dedicato a Israele. La prima osservazione da fare è che l’alleanza tra Turchia e Israele – fino all’ascesa di Erdoğan – era la più solida tra Israele e un paese musulmano. Grandi scambi economici, militari e di intelligence hanno caratterizzato questa alleanza. Dal 2003 progressivamente tutto è cambiato, e a partire dal 2010 – dopo il caso della Mavi Marmara – l’antica alleanza si è trasformata in aperta ostilità turca nei confronti dello Stato ebraico. Da quel momento sono state numerose le manovre ostili messe in campo da Erdoğan. Queste sono le principali:
Il suo sostegno per Hamas e nei confronti delle altre organizzazioni terroristiche palestinesi è sempre più evidente e in piena competizione con l’Iran degli ayatollah. Questo supporto passa attraverso generosi finanziamenti, appoggio politico e logistico, fino ad arrivare alla concessione della cittadinanza turca alla dirigenza di Hamas.
Un potente strumento offerto di recente ai palestinesi (questa volta della sponda ANP) è un autentico “tesoro” – così come definito da quest’ultimi – che consiste nell’intero archivio ottomano relativo ai territori che oggi sono Israele (compresa Gerusalemme) e i territori amministrati dall’ANP (si tratta di oltre 100.000 pagine microfilmate). L’intento è chiaro: dotare l’ANP di un’arma legale per intraprendete numerose controversie giudiziarie nei confronti dello Stato ebraico relativamente a terreni ed edifici pubblici , religiosi e privati, mettendo in dubbio i diritti di proprietà per bloccare qualsiasi compravendita presente e futura e contestare eventualmente quelle passate.
Le attenzioni ottomane di Erdoğan hanno in Gerusalemme il nodo più importante. E’ qui, infatti, che il “Centro culturale turco” ha iniziato a cooperare e finanziare il Waqf con l’intento di stabilire programmi scolastici – anche in lingua turca – presso le università Bir Zeit e Al Quds. Oltre a questi programmi, gli accordi sottoscritti dai turchi con lo Sceicco Ekrima Sa’id Sabri (precedente Gran Muftì di Gerusalemme) servono per finanziare le famiglie dei terroristi palestinesi condannati in Israele. Non meno inquietante è il legame tra lo sceicco Sabri e lo sceicco Raed Salah, il quale è a capo della branca fuori legge del Movimento Islamico nel nord di Israele, diverse volte incarcerato per terrorismo. In questo modo, Gerusalemme stà lentamente diventando un vero e proprio teatro di scontro politico, culturale e religioso dove Erdoğan, utilizzando i palestinesi, vuole contendere la sovranità al legittimo governo di Israele (e forse in futuro la gestione dei luoghi santi islamici all’Arabia Saudita). E’ in tale conteso che vanno comprese le numerose dichiarazioni di contenuto antisemita fatte dal rais turco nei riguardi di un piano per “giudaizzare” Gerusalemme ai danni dei musulmani.
La questione diventa sempre più impellente: come si potrà fermare l’espansionismo turco? Dal punto di vista militare la cosa sarebbe catastrofica vista la forza militare turca – secondo esercito più grande della NATO – l’unica carta a disposizione è quella economica. L’asfittica economia turca è oggi un castello di carte che crollerebbe se gli ingenti capitali stranieri (soprattutto europei) smettessero di giungere copiosi nelle banche di Ankara. Tuttavia, al momento, la volontà politica di contenere Erdoğan è assai debole. Non è molto lontano un futuro che vedrà la Turchia un pericolo ben maggiore di quello rappresentato dall’Iran.