La strategia iraniana di continuare ad armare Hezbollah, la propria mano longa in Libano, è persistente. I raid israeliani in Siria sono ormai fermi da due mesi e mezzo dopo l’abbattimento a settembre, di un aereo di ricognizione russo a Latakia e la conseguente ira di Mosca, salvo l’eccezione del probabile intervento israeliano di giovedì scorso.
L’approvvigionamento di armi per Hezbollah ora avviene direttamente tramite gli aerei che dall’Iran atterrano a Beirut. Inviare le armi via terra dalla Siria si è rivelato troppo oneroso a causa degli attacchi israeliani finalizzati a colpire i convogli, dunque si è optato per la via più semplice, diretta e sfacciata.
In questa decisione, non solo ha pesato l’interventismo di Israele ma anche l’indisponibilità russa nei confronti di Teheran nel continuare a usare il territorio siriano per inviare le armi in Libano. Il messaggio è arrivato a destinazione chiaro e forte.
L’Iran continua dunque a rafforzare Hezbollah che controlla il sistema politico libanese rendendo il paese di fatto una provincia iraniana. A tutto ciò si aggiungono i test da parte di Teheran di missili balistici a media gittata capaci di trasportare testate multiple. E’ di sabato la dichiarazione del Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, a proposito dei missili che “Sono in grado di colpire ovunque in Medioriente e anche parti dell’Europa”.
“Come abbiamo avvertito da un po’ di tempo, in Iran, i test dei missili e la loro proliferazione stanno aumentando. Si accumulano i rischi di una escalation regionale se falliamo nel restaurare la deterrenza“, ha aggiunto.
Le dichiarazioni del Segretario di Stato si inquadrano nel contesto della posizione nettamente ostile nei confronti della Repubblica Islamica dell’Iran, assunta dall’Amministrazione Trump dal suo insediamento e nel nuovo assetto strategico mediorientale che vede gli stati sunniti, con in testa l’Arabia Saudita, convergere verso Israele, rafforzando al contempo la loro intesa con gli Stati Uniti, ai fini di contrastare la politica espansionista iraniana in Libano, Siria, Iraq e Yemen.
L’atteggiamento morbido dell’Amministrazione Trump verso Mohammad bin Salman a seguito dell’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, vicino ai Fratelli Musulmani e ad Al Qaeda, avvenuto in Turchia e con ogni probabilità commissionato dallo stesso principe saudita, va letto nel contesto della rinsaldata alleanza americana con la Casa di Saud dopo il gelo occorso con l’Amministrazione Obama, soprattutto a seguito dell’accordo con l’Iran sul nucleare. Alleanza che ha come obbiettivo principale la deterrenza nei confronti dell’Iran. Le ultime mosse iraniane confermano quanto sia essenziale tale alleanza a discapito di ulteriori considerazioni.
L’omicidio Khashoggi è stato infatti usato mediaticamente per cercare di colpire l’alleanza evidenziandone, a nome di tutte le anime belle del pianeta, “l’immoralità”, come se fosse la prima volta nella storia che in virtù dell’obbiettivo di contrastare un nemico pericoloso, si stringano alleanze con paesi o potentati antidemocratici e brutali. Per restare al Medioriente e all’Iran, non è certo un mistero l’appoggio dato a Saddam Hussein da parte americana in funzione anti-iraniana durante la guerra Iraq-Iran del 1980-1988.
E oggi è ancora l’Iran la preoccupazione principale. In Medioriente, con l’eccezione di Israele, il mercato non offre alleati liberali, tuttavia i “virtuosi” e i moralisti un tanto al chilo sono sempre pronti ad indignarsi, soprattutto quando in ballo ci sono la sicurezza di Israele e gli interessi americani.