Interviste

La guerra legale contro Israele: Intervista a David Elber

David Elber, storico e studioso, esperto di Diritto internazionale, è collaboratore abituale de L’Informale. Lo abbiamo voluto intervistare in merito alla recente decisione della Corte Penale Internazionale e sul tema generale della guerra legale contro lo Stato ebraico.

L’ordine di arresto emesso nei confronti di Benjamin Netanyahu e di Yoav Gallant da parte della Corte Penale Internazionale era stato già annunciato e difficilmente sarebbe stato bloccato. Cosa puoi dire in merito? 

I mandati di arresto nei confronti di Netanyahu e di Gallant non hanno nessuna base giuridica ma sono una chiara manovra politica per delegittimare lo Stato di Israele. Si può riassumere, brevemente, come è andata “l’istruttoria”. Non appena Israele ha iniziato le operazioni militari a Gaza, per la Corte Penale, era già tutto chiaro: Israele era colpevole, a prescindere, di crimini di guerra. Infatti, il 30 ottobre (tre settimane dopo l’eccidio del 7 ottobre) il procuratore Khan, in una conferenza stampa al Cairo, dopo aver visitato il sud di Israele e l’area tra Egitto e Rafah aveva dichiarato che molte prove nei confronti di Hamas erano state raccolte e altre andavano trovate, mentre per la condotta militare di Israele a Gaza, era quest’ultimo che avrebbe dovuto fornire le prove che dimostrassero il rispetto delle leggi internazionali. Dunque per il procuratore del più importante tribunale penale era necessario raccogliere le prove dei crimini di un’organizzazione terroristica mentre uno Stato democratico e di diritto, vittima di un eccidio, avrebbe dovuto – lui – presentare prove che dimostrassero che le proprie azioni fossero nei termini di legge in modo da non essere indagato. Questo significa che per il procuratore Khan, Israele era colpevole a prescindere, tutt’al più dovrebbe dovuto presentare le evidenze di non esserlo. Il resto è una logica conseguenza di questo teorema ad iniziare dalla composizione della Camera pre-processuale. Intendo dire che questo è un tribunale politico nel quale i giudici sono l’espressione dei governi nazionali che li nominano. Se diamo una occhiata, ai tre giudici che formano la Camera che ha deciso per il mandato d’arresto, vediamo che è formata da tre rappresentanti di Stati ostili ad Israele: Francia, uno dei paesi più ostili dall’eccidio del 7 ottobre, Benin, che ha scarse relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico e Slovenia. La Slovenia ha appena riconosciuto l’inesistente Stato di Palestina e il cui giudice ha da poche settimane sostituito la Romania (paese molto più amico di Israele) per imprecisati “motivi di salute”. Insomma la decisione è stata blindata.  

Ci troviamo al cospetto di un ulteriore atto di quella che si può definire lawfare, la guerra giuridico-legale contro lo Stato ebraico e che ha come epicentro l’ONU. Questa guerra legale mi sembra si possa fare risalire al 1967, cioè alla vittoria di Israele nella guerra dei Sei Giorni. Quali sono, a tuo avviso, le sue tappe più salienti? 

Si è proprio così. Dal 1967 è stato un crescendo. Inizialmente la delegittimazione di Israele era portata avanti dall’Urss e dai paesi islamici con poche eccezioni (Turchia e l’Iran dello Shah). Poi progressivamente, su pressione araba, ha fatto breccia nei paesi della CEE per giungere negli USA del presidente Carter a causa dell’ideologia terzomondista sempre più forte nelle accademie americane. Da questo momento è iniziata una vera è propria escalation: con il memorandum Hansell, con il quale l’amministrazione USA dichiarava illegale la presenza ebraica in Giudea e Samaria e Gerusalemme “est” (1978). Ancora più in là si spinse la CEE con la Dichiarazione di Venezia del 1980, nella quale si ribadiva, tra le altre cose, la legittimità dell’organizzazione terroristica OLP, la questione di Gerusalemme vista come non parte di Israele, e ribadiva l’illegalità dell”occupazione” israeliana dei “territori arabi” e le “colonie ebraiche come ostacolo alla pace”. Tutti concetti che si sono radicati così tanto da divenire dei veri e propri dogmi. È da sottolineare che all’epoca si parlava ancora di “territori arabi”. Nel corso degli anni novanta sono diventati magicamente “territori palestinesi occupati” senza che vi fosse una base giuridica che lo giustificasse. Questo cambiamento terminologico, solo all’apparenza privo di importanza, è stato decisivo per criminalizzare Israele: ormai tutti hanno la certezza che Israele abbia “occupato” in un imprecisato momento un mai esistito “Stato di Palestina”. Un ulteriore “salto di qualità” è iniziato con la Conferenza di Durban del 2001. Da questo momento in avanti, Israele, per tutte le ONG e il movimento autoproclamatosi “progressista” e “antirazzista”, è diventato il “male assoluto”. Questo delirio in un certo senso è l’unica cosa che è sopravvissuta dell’Urss dopo il suo crollo nel 1991. 

La Corte Penale Internazionale è una emanazione diretta dell’ONU, così come lo è l’UNESCO, che con delle risoluzioni recenti ha di fatto espropriato Israele di alcuni dei simboli storici dell’ebraismo come il Muro Occidentale e le tombe dei patriarchi a Hebron, ascrivendoli all’Islam. Nel suo ultimo discorso un sede ONU, Netanyahu lo ha definito “palude antisemita”. Ha forse esagerato? 

Bisogna precisare che la Corte Penale Internazionale non è una “emanazione diretta dell’ONU” però è figlia dello stesso processo degenerativo “culturale” che ha permeato l’ONU con la decolonizzazione: l’ONU, come la CPI, è “ostaggio” di paesi illiberali, non democratici e privi dei più elementari diritti umani. Quando dico che la CPI non è emanazione dell’ONU intendo dire che tecnicamente, per il diritto internazionale, sono due cose diverse: l’ONU con tutte le sue agenzie e organismi, compresa la Corte Internazionale di Giustizia, è figlia del Trattato di San Francisco del 1945, mentre la Corte Penale Internazionale è figlia di un altro trattato internazionale: il Trattato di Roma del 1998. Di quest’ultimo trattato non fanno parte, tra gli altri, USA, Russia, India, Cina, Turchia, Indonesia e Israele. In pratica i 3/4 della popolazione mondiale. Netanyahu non ha certo esagerato definire l’ONU come “palude antisemita” e l’UNESCO è sicuramente un emblema di questa situazione. Ormai anche l’UNESCO è diventato un formidabile “attrezzo politico” in mano agli odiatori di Israele per delegittimarlo in ogni sede internazionale oltre che per condizionare l’opinione pubblica. Qui bisogna sottolineare un aspetto pericolosissimo: l’UNESCO è diventato, nei confronti di Israele e del popolo ebraico, uno strumento di negazionismo storico-culturale che fa presa nell’opinione pubblica e atto a negare il “legame storico” tra la Terra di Israele e il popolo ebraico. Tale legame è la radice legale della nascita del moderno Stato di Israele come sancito dalla comunità internazionale negli anni ’20 del 1900. Il voler negare ogni legame tra il popolo ebraico e la Terra di Israele è il metodo più sofisticato, subdolo e apparentemente “apolitico” per delegittimare Israele nell’opinione pubblica. In pratica si viene a dire che Israele è illegittimo e gli ebrei non centrano nulla con la loro terra ma sono degli usurpatori. Il tutto ammantato di “credibilità” storico-scientifica. Tutto questo è semplicemente aberrante.

Con la guerra a Gaza ancora in corso, la più lunga mai combattuta da Israele, abbiamo assistito e stiamo assistendo, ad una offensiva giuridico-legale massiccia, per non parlare di quella mediatica. Si tratta, alla fine, di armi spuntate o possono realmente causare ad Israele danni reali?  

È vero stiamo assistendo ad una offensiva giuridico-legale senza precedenti. Si è sdoganato un nuovo concetto giuridico: Netanyahu è colpevole fino a prova contraria e di conseguenza Israele. Mai si è assistito ad un attacco ad uno Stato con tale veemenza e senza nessuna base legale per farlo. Netanyahu (quindi Israele) è colpevole a prescindere. Tutto questo è, pienamente e acriticamente, avvalorato dai media. In pratica si sta portando avanti un’agenda politica ben precisa, ammantandola di princìpi giuridici inesistenti: Israele è un paese occupante, i palestinesi sono le vittime e quello che è accaduto il 7 ottobre è una conseguenza di questo. Quindi Israele deve ritirarsi dai “territori palestinesi occupati”. Anche questo è un ribaltamento della storia e dei fatti. Io temo che l’amministrazione Biden prima di cedere le consegne a quella di Trump possa usare il Consiglio di Sicurezza per far approvare una risoluzione che formalizzi questa visione politica del tutto priva di fondamento. Questo sarebbe un danno reale davvero grave, come lo fu la risoluzione 2334 voluta da Barak Obama. Altri danni sono già in corso: l’odio diffuso verso Israele e/o gli ebrei in Europa e negli Stati Uniti, ormai l’antisemitismo è talmente sdoganato a sinistra che non fa più notizia, anzi è colpa delle “malefatte” di Netanyahu se è riemerso. I mass media stanno giocando un ruolo di primaria importanza su questo, facendosi cassa di risonanza, a tutte le false notizie propagandate da Hamas e dai suoi fiancheggiatori all’ONU, nelle ONG e tra molti governi Occidentali. 

In questi anni tu ti sei soprattutto dedicato ad approfondire gli aspetti legati al diritto internazionale relativamente allo Stato ebraico. Oltre a numerosi articoli, molti dei quali pubblicati qui su L’Informale, hai scritto tre libri dedicati alla questione, di cui l’ultimo, Il diritto di sovranità in terra di Israele, da poco pubblicato. Da tutto ciò che hai scritto e scrivi, emerge chiaramente come si sia cercato e si cerchi in ogni modo di delegittimare i fondamenti giuridici dell’esistenza stessa dello Stato ebraico e la sua sovranità sui territori considerati occupati della Cisgiordania. E’ così? 

Sì, come ho detto anche in precedenza la delegittimazione di Israele ha assunto forme diverse e trasversali. Una grave forma di delegittimazione è il negazionismo dell’UNESCO che tenta di cancellare la storia del popolo ebraico e dei luoghi sacri all’ebraismo. Un’altra forma di delegittimazione la stanno conducendo accademici, politici e semplici giornalisti che hanno inventato la leggenda di Israele nato “per decisione dell’ONU”. Come ha affermato di recente anche Macron. Purtroppo questa credenza, che ha assunto connotati religiosi e non discutibili, è in voga anche in molti ambienti ebraici. Ma non ha alcun fondamento giuridico né storico. In pratica in questo modo si stà portando avanti, consapevolmente o inconsapevolmente, una narrazione che vede Israele nato nel peccato: come riparazione ai delitti della Shoà e a danno del popolo palestinese. E se ci pensi bene questo è il principio utilizzato in tutte le trattative di pace che Israele ha fatto o deve fare: è sempre e unicamente Israele che deve cedere qualcosa, che subisce le pressioni internazionali affinché si arrivi ad un accordo. Questo perché Israele è visto come colpevole di qualche cosa, anche, se, è lui che è stato sempre attaccato e aggredito fin dalla sua nascita. Ma come si diceva è nato nella colpa di conseguenza in sede di trattative è messo in una posizione morale inferiore ai suoi avversari di conseguenza è lui che deve cedere sempre. È come se la Germania o il Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale anziché aver ceduto dei territori e obbligati ad uno spostamento coatto della popolazione avessero preteso indennizzi territoriali ed economici agli alleati. Assurdo solo a pensarlo. Ma questo principio è accettato per le aggressioni arabe: sono loro che aggrediscono ma chiedono compensazioni dopo le loro sconfitte: un vero e proprio ribaltamento legale oltre che morale ed etico, e l’Occidente è connivente. 

Israele “l’occupante”, Israele “il conculcante”. Oggi, in molti pensano che Israele occupi realmente in modo abusivo dei territori che sarebbero dei palestinesi. Quali sono, brevemente, i fatti decisivi per smontare questi falsi assunti? 

Purtroppo questi assunti sono così radicati che è difficile fare breccia tra coloro che ne sono convinti. Per prima cosa bisogna sottolineare che l’ONU con la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale (quella che suggeriva la spartizione del Mandato per la Palestina) non ha deciso nulla, semplicemente perché non ha mai avuto il potere di decidere nulla. Questo perché nessun organo dell’ONU è dotato di potere di sovranità, quindi non può decidere la nascita di Stati o sancire i loro confini. Chiarito questo punto, vediamo le tappe principali che hanno condotto alla legittimità della nascita del moderno Stato di Israele. Al popolo ebraico è stato riconosciuto il diritto di autodeterminazione – così come ad altre popolazioni arabe musulmane o cristiane – con la Conferenza di pace di Sanremo del 1920, con i trattati internazionali di Sévres, di Losanna e con il Mandato per la Palestina. In pratica il Mandato per la Palestina è stato lo strumento giuridico creato dalla comunità internazionale per far nascere lo Stato nazionale del popolo ebraico. Bisogna anche ricordare che i confini che furono stabiliti nel 1922 dagli inglesi, quando divisero il Mandato in due unità amministrative, una per il popolo ebraico e l’altra per il popolo arabo, furono i confini dai quali nacquero due Stati indipendenti: la Giordania nel 1946 e Israele nel 1948 con confini precisi e ben definiti. Questo, per il principio dell’uti possidetis iuris, con il quale la comunità internazionale riconosce i confini degli Stati nascenti. Per questo principio tutto il territorio che va dal fiume Giordano al mar Mediterraneo è sin dal 1922 territorio appartenente al popolo ebraico. Detto questo come può essere che il popolo ebraico “occupi illegalmente” ciò che era già suo? L’unica occupazione illegale che si è verificata, nel corso della storia, fu quella di Giordania ed Egitto quando occuparono Giudea, Samaria, parte di Gerusalemme e la Striscia di Gaza tra il 1948 e il 1967. Questo va detto per chiarire in modo inequivocabile che i “territori palestinesi” non sono mai esistiti a meno che non si intendano quelli mandatari che erano del popolo ebraico per realizzare la propria autodeterminazione.  

Durante il suo primo quadriennio di presidenza, Donald Trump ha fatto per Israele più di qualsiasi altro presidente americano: ha levato i fondi all’UNRWA, ha fatto uscire gli Stati Uniti dal Consiglio per i Diritti umani di Ginevra oggi presieduto dall’Iran, ha riconosciuto la legittimità della sovranità israeliana sulle alture del Golan, ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele spostandovi l’ambasciata americana, ha ridotto all’irrilevanza l’Autorità Palestinese e ha inaugurato gli Accordi di Abramo. Quali sono le tue aspettative in merito alla nuova amministrazione USA?  

Per prima cosa voglio esprimere il mio sollievo per il fatto che Kamala Harris e il partito democratico non abbiano vinto le elezioni. Per Israele sarebbe stato un disastro. È vero che Trump è imprevedibile e umorale, ma le persone designate per la sua amministrazione fanno ben sperare per Israele. Anche i primi riverberi della sua elezione sono molto positivi: Trump non si è ancora insediato e il Qatar ha, già, chiuso gli uffici di Hamas e smesso la farsa delle trattative sugli ostaggi, dove tutte le pressioni erano unicamente su Israele; l’Iran che minacciava fuoco e fiamme dopo la risposta israeliana del 26 ottobre non ha mosso un dito. Abu Mazen e i cleptocrati dell’Autorità palestinese sono letteralmente spariti dai media. Inoltre, se questa amministrazione darà seguito a quanto già fatto in passato e rafforzerà i dettami della legge Taylor Force Act, spariranno del tutto perché non avranno più i soldi per pagare gli stipendi degli assassini di ebrei. Con queste premesse sono convinto che cesseranno le ostilità a Gaza e in Libano con rassicurazioni reali per la sicurezza di Israele ben diverse dalla ridicola Risoluzione 1701 con cui si chiuse la seconda guerra del Libano e che è rimasta del tutto inefficacie per 18 anni. Anche le prospettive di allargamento degli Accordi di Abramo potranno rafforzarsi. Rimane l’incognita rappresentata dall’Iran, ma anche su questo fronte l’Amministrazione di Trump sarà molto più allineata con Israele e i paesi arabi sunniti rispetto a quella che avrebbe nominato Kamala Harris che sarebbe stata totalmente allineata alla dottrina Obama che cercava l’appeasament con l’Iran a tutti i costi. Se dovesse scoppiare un confronto tra Iran e Israele/USA molto probabilmente il regime iraniano non sopravvivrà al confronto. Un altro fronte importante è l’ONU che, così, come si è trasformato negli ultimi decenni non ha senso di esistere: è più dannosa che utile. Solo uno come Trump può decidere di far uscire gli USA da questa organizzazione e sancirne la fine. Solo così si può sperare in una nuova organizzazione che ne prenda il posto nel pieno rispetto della democrazia, dei diritti umani, nella piena uguaglianza tra i suoi membri.   

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