Faranno tanto discutere, in Israele e non solo, le parole della giornalista Caroline Glick, vicedirettrice del Jerusalem Post, che in un suo editoriale ha ipotizzato che il premier israeliano Benjamin Netanyahu provi una certa empatia nei confronti di Trump. Secondo la giornalista, infatti, il premier israeliano si sarebbe astenuto dal criticare il presidente statunitense dopo le parole di condanna giudicate “troppo blande” nei confronti della cosiddetta alt-right in seguito ai noti fatti di Charlottesville.
Ci sono dei motivi, secondo Caroline Glick, se Netanyahu non ha voluto infierire su Trump. “Potrebbe essere che Netanyahu abbia tenuto a freno la sua lingua perché ha ritenuto non ci fosse nulla da guadagnare nell’attaccare un presidente amichevole nei confronti di Israele” ha ipotizzato la vicedirettrice del Jerusalem Post, che ha anche spiegato: “Ma è anche ragionevole supporre che Netanyahu abbia tenuto la sua lingua a freno per empatia nei confronti di Trump. Più di qualsiasi altro leader del mondo, Netanyahu capisce cosa stia attraversando Trump”. Anche Netanyahu sta avendo giorni difficili per colpa delle “élite non elette di Israele che gli fanno la guerra”.
C’è quindi una certa somiglianza tra i due Paesi: in entrambi i casi il leader scelto dal popolo non è così ben visto dalle “élite” intellettuali e dalla stampa.
Netanyahu potrebbe rivedersi in Trump.
Sempre secondo Caroline Glick, “Le esperienze di Netanyahu nel suo primo mandato, dal 1996 al 1999, sono molto simili alla situazione attuale di Trump. La sua vittoria nel 1996 sul primo ministro uscente Shimon Peres scosse la classe politica israeliana non meno di quanto Trump abbia stordito quella americana”.
Spiega la Glick nel suo editoriale: “Dopo le elezioni israeliane del 1992, i pacifisti che occupavano gli apparati governativi, inclusi i servizi di sicurezza, le università, gli uffici del governo, la magistratura, la Corte Suprema, l’industria dei media e dell’intrattenimento, sono stati presi da euforia collettiva quando il Partito Laburista sotto la guida Di Yitzhak Rabin e Shimon Peres ha regalato alla sinistra israeliana la sua prima vittoria politica chiara dal 1974. Rabin e Peres hanno poi formato la coalizione governativa maggiormente pacifista nella storia di Israele”.
L’anno dopo sono stati firmati gli Accordi di Oslo, ben accolti dai pacifisti ma non altrettanto dall’opinione pubblica.
Uno scollamento che rende Israele di quegli anni molto simile agli Usa di oggi.
La stessa Glick analizza ciò che è accaduto dopo gli accordi di Oslo, fortemente voluti dal governo e dalle élite intellettuali che hanno sfidato lo scetticismo popolare, spesso ridicolizzandolo e mettendolo in cattiva luce. “Quanto al terrorismo, il processo di Oslo ha inaugurato non un’era di pace, ma un’era di violenza senza precedenti. La prima volta che gli israeliani sono stati colpiti da un kamikaze è stata nell’aprile 1994, quando l’euforia sulla presunta pace imminente era al massimo”.
Ecco perché “Le elezioni del 1996 sono state la prima opportunità di voto dopo gli Accordi di Oslo. Allora, malgrado l’assassinio di Rabin e le bellissime cerimonie sui prati della Casa Bianca con palloncini e bambini che tenevano in mano fiori, il popolo d’Israele ha detto no grazie agli accordi di pace. Siamo sionisti, non post-sionisti. Non ci piacerebbe saltare in aria sugli autobus e non apprezziamo il fatto che le vittime del terrorismo siano considerate vittime della pace”.
Parole dure quelle della Glick, che sottolinea come in Israele i fatti abbiano dato ragione all’opinione pubblica e non alla “élite pacifista”, insomma a chi dovrebbe decidere al posto del popolo perché ha una maggiore competenza. Un esempio da sottoporre a chiunque, anche oggi, propone di abolire il suffragio universale. Una sconfitta totale del politicamente corretto.
Preciso o no, la Glick vede un netto accostamento con Trump: “Trump ha ugualmente sostituito il presidente più radicale che gli Stati Uniti abbiano mai conosciuto. Durante gli otto anni di mandato di Barack Obama, nonostante il mancato risanamento dell’economia americana o i fallimenti in politica estera, Obama ha potuto beneficiare del supporto dei media, che lo hanno adorato anziché farlo a pezzi”.
La sinistra statunitense, insomma, ha goduto di buona stampa, così come quella israeliana negli anni ’90, nonostante i risultati fossero discutibili e le scelte popolari andassero di conseguenza. Netanyahu è arrivato dopo il fallimento degli Accordi di Oslo, Trump dopo i fallimenti di Obama.
“Nel 1996, l’élite israeliana ha salutato la vittoria di Netanyahu con scossa e dolore. Il “buon e illuminato” Israele, che pensavano di governare per sempre, era stato appena sconfitto dalla folla ingrata. Peres aveva riassunto i risultati dicendo ai giornalisti che “gli israeliani” hanno votato per lui, “gli ebrei” invece avevano votato per Netanyahu”.
Continua la vicedirettrice del Jerusalem Post: “Il loro lutto rapidamente è stato sostituito da uno spasmo di odio per Netanyahu e i suoi sostenitori che è scomparso neppure ora, 21 anni dopo”. E la “guerra dei media contro Netanyahu” è iniziata “praticamente subito”.
Ciò che scrive la Glick è ovviamente influenzato dalle sue idee personali, ma il problema del distacco tra le cosiddette “élite”, stampa in primis, e il popolo è evidente. Non solo in Israele con Netanyahu e in Usa con Trump, ma anche, e sempre di più, in Italia e in Europa.
Forse Netanyahu non ha nulla a che spartire con Trump, o viceversa, ma l’analisi della giornalista coglie un punto importante, al di là delle similitudini che possono essere discutibili.
Il suo lungo atto di accusa è una sferzata efficace contro chi pretende di decidere e di saperne di più, anche se i risultati parlano chiaro. E sono quelli che contano ed influenzano in primis il voto.