Islam e Islamismo

Iran e Arabia Saudita: rivalità geopolitica, non religiosa

Dopo sette anni, la guerra civile siriana ha raggiunto un livello di complessità geopolitica estremamente elevato a causa del coinvolgimento di attori importanti del Medio Oriente, come Iran e Arabia Saudita, la cui rivalità sta permeando anche altri conflitti dell’area, in particolare nello Yemen, in Iraq e in Libano.

La rivalità esistente tra Iran e Arabia Saudita è molto complessa da spiegare. Il conflitto viene generalmente descritto come prodotto del diverso background confessionale; il presente contributo si basa invece sull’assunto che il nucleo di questa rivalità risieda nella competizione per l’influenza, il potere e la sicurezza in tutta la regione.

Più precisamente, l’Arabia Saudita è una potenza che si basa sullo status quo regionale, ha forti legami con le Nazioni occidentali, mentre l’Iran ha cercato spesso un cambiamento rivoluzionario in tutta l’aria del Golfo e del Medio Oriente, vedendo negli Stati Uniti il suo più acerrimo nemico. Pertanto, l’Arabia Saudita considera l’Iran una minaccia, intento a rovesciare l’ordine politico del Medio Oriente, ordine politico adatto a garantire gli interessi sauditi. Nel contempo, gli iraniani ritengono che i sauditi stiano attivamente cercando di mantenere l’Iran vulnerabile, circondandolo di regimi ostili e di basi militari americane. Così, intrappolati nel dilemma della sicurezza, l’Iran e l’Arabia Saudita vedono la competizione per la leadership regionale nei termini di un gioco a somma zero: più potente è l’Iran, più l’Arabia Saudita si sente vulnerabile, e viceversa.

A peggiorare il contesto, l’emergere della primavera araba nel 2011 ha creato una nuova ondata di tensioni e di diffidenza reciproca, in cui entrambi gli Stati hanno cercato di salvaguardare i propri interessi nazionali facendosi coinvolgere nella politica interna degli altri Paesi della regione, impiegando notevoli risorse per condure “guerre per procura”. Entrambi, quindi, hanno alimentato la guerra civile in Siria, che rischia di trasformare la carta geografica del Medio Oriente, stimolato la violenza nel frammentato Iraq e aumentato le fratture settarie nei fragili Libano e Yemen. Di conseguenza, il Medio Oriente sta subendo un’epoca di cambiamenti rivoluzionari in cui la tensione non è mai stata così elevata come è attualmente.

Molte ricerche si sono focalizzate sulle differenze ideologiche tra il reazionario wahabismo e lo sciismo rivoluzionario, datando l’inizio della contrapposizione alla morte del profeta Maometto.

Nadav afferma che entrambi i Paesi sostengono di essere lo Stato modello, leader del mondo musulmano. Da parte sua, l’Iran adotta un modello statuale teocratico guidato da una ideologia islamista che ha sviluppato un quadro democratico. Il sistema politico iraniano si basa sull’ideologia del dodicesimo iman che, scomparso nell’874, un giorno tornerà come il Mahdi; fino al suo ritorno, la popolazione deve sottostare ai religiosi sciiti, che hanno la funzione di colmare lo iato esistente tra autorità civile e religiosa.

Analogamente all’Iran, l’Arabia Saudita vede il proprio sistema politico come quello ideale. Tuttavia, ne consegue una monarchia ereditaria che conferisce un potere illimitato al regnante, che deve essere un discendente del primo monarca saudita, Abdul Aziz Ibn Saud. La dinastia saudita non ha familiarità con la democrazia e basa il suo potere sul wahabismo, un ramo conservatore dell’Islam sunnita che risale al Diciottesimo secolo, quando Mohammad Ibn Abd al Wahab fondò il movimento wahabita.

Nader ritiene che la divergenza principale tra Arabia Saudita e Iran non risieda solamente nelle diverse strutture politiche, ma anche nella percezione di possedere il diritto di condurre il mondo musulmano e nell’ideologia totalitaria e suprematista che vogliono esportare. Venetis sviluppa questo tema e spiega che l’Iran crede nella leadership del “velayat el Fakih”; Letteralmente velayat-e faqih significa “governo tutelare del giureconsulto”: è il principio fondante della dottrina khomeinista, secondo cui a guidare la comunità spirituale e politica deve essere un alto esponente religioso esperto della legge islamica, il vali-ye faqih, fino alla comparsa del dodicesimo imam. Seguendo questo principio, l’Iran vede il suo futuro attraverso il prisma della sua gloriosa storia nazionale, totalmente diversa da quella dei Paesi creati dalla Gran Bretagna nel Golfo. Il clero iraniano crede che gli Stati- Nazione dovrebbero essere sostituiti da emirati islamici poi riuniti sotto un sultanato che segue la loro legge islamica. Bazzi spiega ulteriormente come questa ideologia si opponga direttamente alla rivendicazione di leadership regionale saudita, che ha all’interno del suo territorio due città sante, Mecca e Medina. La dinastia saudita acquisisce una legittimità politica aderendo al principio di epoca medievale secondo il quale i musulmani devono obbedire ai loro governanti senza alcuna contestazione fin tanto che questi applichino correttamente le leggi islamiche.

Nahas sottolinea che, mentre la dinastia saudita si vede come l’unica leadership legittima del mondo musulmano, l’Iran ha continuato a sfidarne la legittimità per decenni, in particolare, dopo la rivoluzione islamica del 1979. Infatti, il nucleo ideologico della rivoluzione iraniana è la resistenza islamica. L’Iran crede nella conduzione di uno scontro vitale contro l’imperialismo e l’estremismo religioso. La Repubblica Islamica ha lavorato per forgiare un’immagine di resistenza e indipendenza che supera le divisioni etniche e promuove un approccio popolare antisionista, antiamericano e anti estremista nella regione. Inoltre, l’ideologia politica iraniana non si rivolge solamente ai musulmani sciiti, ma a tutti i musulmani. Infatti, l’ideologia politica fondata da Khomeini aveva come fine la promozione di un’unità pan-islamica; il modello khomeinista di governo religioso e la denuncia del patrimonio coloniale occidentale erano un messaggio universale. Pertanto, le élite clericali iraniane credono che il loro mandato di Governo non sia limitato dai confini geografici e che il loro potere e la loro influenza debbano essere estesi ai Paesi della regione. Allo stesso modo, Ali Shariati riteneva che i Paesi del Terzo Mondo avessero bisogno, in primo luogo, di una rivoluzione popolare per mettere fine alla dominazione coloniale e rivitalizzare la loro cultura e identità; secondariamente, di una rivoluzione che eliminasse lo sfruttamento, la povertà e il capitalismo. Moaddel afferma che Shariati si riferisse alla “Nezam-e Tawhid”, società unita, nella convinzione che il messaggio del profeta non concernesse solamente l’istituzione di una religione monoteistica, ma anche l’unificazione della popolazione attraverso la virtù pubblica e la buona volontà comune.

A tal fine, l’Iran è sempre stato pronto a sostenere i movimenti islamici e i gruppi di insorti che si allineavano con i suoi obiettivi. All’inizio della primavera araba, l’Iran ha ospitato la prima conferenza internazionale sul “risveglio islamico” a Teheran, che ha visto la partecipazione di più di 700 delegati provenienti da 84 Paesi. Durante la conferenza, l’ayatollah Ali Hosseini Khamenei ha insistito sulla necessità per il Governo islamico di rovesciare i dittatori e le monarchie arabe, tra cui quelle di Giordania, Bahrain e Arabia Saudita. Secondo Crooke ciò ha condotto l’Iran direttamente al conflitto con l’Arabia Saudita, che non ha mai temuto i carri armati iraniani ai suoi confini quanto i concetti rivoluzionari incorporati nel pensiero politico iraniano e la loro possibile diffusione in tutta la regione. Cronin riassume tale contrapposizione nei termini di “clericalismo contro monarchia”, “populismo contro elitarismo”, “regionalismo contro peninsularismo”, “sciismo contro sunnismo” e “anti-occidentalismo contro pro-occidentalismo”.

La rivalità tra Arabia Saudita e Iran ha rivitalizzato un antagonismo settario per la vera interpretazione della leadership nel mondo islamico.

Dal punto di vista storico, il consolidamento della dinastia al-Saud nel 1928 fu l’inizio delle relazioni saudite-iraniane. Tuttavia, un incremento delle relazioni diplomatiche ha avuto luogo soltanto dalla metà degli anni Sessanta, quando re Faysal in Iraq fu rovesciato nel 1958 dai nazionalisti. Temendo ulteriori rivolte populiste contro le dinastie monarchiche della regione, lo shah Muhammad Reza Pahlavi e il re saudita avviarono delle consultazioni reciproche per coordinare le loro politiche regionali. Le relazioni tra le due monarchie furono rinforzate su questa base.

Prima della rivoluzione iraniana, i principali interessi comuni che univano l’Arabia Saudita e l’Iran riguardavano la sfida all’onda socialista e nazionalista dei Paesi confinanti, per garantire un flusso stabile di petrolio e gas, aumentare la ricchezza attraverso le esportazioni, e preservare la stabilità dei rispettivi regimi. Alle divisioni settarie non era data una importanza significativa durante l’esistenza di strutture di governo similari che perseguivano una politica estera e interna di favore.

Tuttavia, questa armonia finì presto nel 1979, quando l’ayatollah Khomeini spazzò via il regime dello shah e stabilì la prima repubblica islamica del mondo moderno. Khomeini mise in discussione la legittimità delle famiglie regnanti dei vicini sceiccati arabi e promosse apertamente la sostituzione di quei regimi con un Governo islamico. È interessante rilevare come la Repubblica Islamica iraniana adottasse una politica estera aggressiva con l’obiettivo di diffondere la rivoluzione nei Paesi musulmani vicini, opponendosi contemporaneamente al patrimonio coloniale occidentale.

Questo drastico cambiamento nella politica estera iraniana e il successo della rivoluzione rappresentavano tutto ciò contro cui la famiglia al-Saud e lo Shah avevano combattuto. Khomeini aveva fatto appello molto chiaramente alle popolazioni degli Stati arabi del Golfo per rovesciare le rispettive monarchie, sostenendo che l’Islam e le monarchie ereditarie erano incompatibili, accusando al-Saud di non avere alcuna legittimità per proteggere i luoghi sacri. La rivoluzione era una minaccia diretta per la forte influenza dell’Arabia Saudita nel Medio Oriente, e per la famiglia al-Saud stessa.

L’atteggiamento militante adottato dall’Iran ha ulteriormente deteriorato i rapporti relativamente cordiali tra i due Paesi. Allarmata dall’aperta ostilità del regime islamico iraniano, l’Arabia Saudita ha risposto attraverso la definizione di un Consiglio di cooperazione del Golfo nel 1981 e di un patto di sicurezza per contrastare la nuova minaccia iraniana. Inoltre, i Paesi del Consiglio di sicurezza del Golfo hanno intensificato le loro alleanze militari con gli Stati Uniti e coordinato il sostegno finanziario e arabo all’Iraq durante la guerra Iran-Iraq degli anni 1980-1988. Di conseguenza, per oltre dieci anni dopo la rivoluzione del 1979, la sfiducia ha dominato i rapporti tra i due Paesi, portando alla rottura delle relazioni diplomatiche nel 1988 e alla nascita di una aspra rivalità per il potere e l’influenza nella regione.

Nel momento in cui gli inglesi si ritirarono dal Golfo nel 1971, gli USA divennero il nuovo supporter della regione. Congiuntamente con i Paesi del golfo, hanno definito la sicurezza nei termini di un equilibrio di potere. Nel 1970, perseguendo la “politica dei pilastri gemelli”, gli Stati Uniti assegnarono allo Shah di Persia e all’Arabia Saudita la funzione di garanti dello status quo della regione. Tuttavia, dopo la rivoluzione islamica, uno dei due pilastri cadde con il crollo del regime iraniano. Molto presto, con l’inizio della guerra tra Iran e Iraq, gli Stati del Golfo, sostenuti dagli Stati Uniti, hanno dovuto sostenere l’invasione dell’Iran da parte di Saddam Hussein nel settembre del 1980, poiché il regime baatista era il principale protettore degli interessi arabi e la loro prima linea di difesa contro l’Islam rivoluzionario.

Si ritiene che la rivalità tra Iraq e Iran risalga ai decenni di scambi di colpi sul corso d’acqua di Shat al Arab, inoltre, il conflitto si sarebbe intensificato quando Teheran tentò di esportare la sua rivoluzione islamica in Iraq. Minacciato, Saddam Hussein invase l’Iran per sfidarne l’ambizione egemonica, impadronendosi della ricchezza petrolifera e di una parte del territorio lungo il confine tra Iraq e Iran. La guerra tra i due rivali sarebbe durata otto lunghi anni.

Venetis sostiene che la guerra Iran-Iraq sia stata il risultato della politica del rifiuto di Teheran da parte dei Paesi arabi. Sentendosi totalmente isolato, l’Iran poteva formare delle alleanze soltanto con la Siria, la Libia, lo Yemen del Sud e Hezbollah in Libano (1982).

Il supporto dell’Arabia Saudita all’Iraq durante la guerra per prevenire la diffusione della rivoluzione islamica ha ulteriormente deteriorato le relazioni saudite-iraniane. Riyadh aveva anche sostenuto economicamente l’Iraq con un prestito di quaranta miliardi di dollari per rafforzare il suo esercito. Ariel osserva che tale scelta rappresentava il nucleo dell’ordine triangolare della regione, in quanto alleanza strategica che permetteva all’Arabia Saudita di circondare l’Iraq contenendo l’Iran. Inoltre, con l’intensificarsi della guerra, l’Arabia Saudita ha esercitato pressioni economiche aggiuntive contro l’Iran. Infatti, reagendo all’offensiva iraniana verso il porto iracheno di Fao, i sauditi inondarono i mercati internazionali di petrolio durante il 1985 e il 1986, provocando un crollo dei prezzi. Questa politica ha ulteriormente danneggiato l’economia iraniana e ridotto i ricavi in un periodo di forti spese per la difesa. L’influenza dell’Arabia Saudita sui prezzi del petrolio mondiale avrebbe continuato a definire il rapporto di forza tra i due Paesi negli anni a venire.

Il rapporto tra l’Arabia Saudita e l’Iran raggiunse un vicolo cieco nel 1987 quando alcuni pellegrini iraniani protestarono contro la famiglia al-Saud; gli scontri causarono centinaia di morti da entrambe le parti. I due Paesi si accusarono a vicenda per l’incidente, seguito dalla decisione iraniana di boicottare l’Haji, il pellegrinaggio annuale alla Mecca, in Arabia Saudita negli anni seguenti. Alla fine, nel 1988, i due Stati interruppero le relazioni diplomatiche.

Ciò nonostante, l’invasione irachena del Kuwait nel 1990 avrebbe portato grandi cambiamenti nella regione, spostando, ancora una volta, le alleanze triangolari del Golfo. Marissa Allison scrive che l’invasione del Kuwait ha reso l’Iraq una minaccia condivisa, costringendo l’Iran a moderare le sue posizione nei confronti dell’Arabia Saudita per unirsi contro il perseguimento dell’egemonia da parte di Saddam Hussein.

Katzman aggiunge che la morte di Khomeini e l’ascesa di Ali Akbar Hashemi Rafsanjani nel 1989 come nuovo Presidente iraniano hanno giocato un ruolo importante nel modificare la politica estera iraniana nel Medio Oriente rendendola più pragmatica. Infatti, sotto Rafsanjani, l’Iran ha abbandonato il suo obiettivo di cambiare i Governi dei paesi del Golfo e ha cercato invece di recuperare le relazioni diplomatiche con i suoi vicini arabi. L’Iran aveva l’obiettivo strategico di esortarli ad abbandonare i loro dispositivi di sicurezza con gli Stati Uniti e a formare un’alleanza alternativa per la sicurezza regionale.

Cercando di normalizzare le relazioni con gli Stati vicini, Rafsanjani ha considerato l’importanza dei rapporti con l’Arabia Saudita in termini di proventi del petrolio. A metà degli anni Novanta, il prezzo del petrolio è sceso a meno di 10 dollari a barile danneggiando sia l’Arabia Saudita sia l’Iran. I due rivali hanno lavorato al superamento delle loro differenze per migliorare le loro relazioni per una migliore politica di gestione del petrolio greggio e delle quote di produzione all’interno dell’OPEC. Questa collaborazione ha portato a prezzi del petrolio più elevati dopo il 1999.

Sorprendentemente, come scrive Habibi, il cambio di leadership e gli interessi economici condivisi hanno raffreddato l’animosità tra i due Paesi. Egli mette in evidenza che, nel 1997, dopo la nomina a Presidente di Mohammad Khatami, l’Iran ha ospito la riunione annuale dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, un segno di riconciliazione tra l’Iran e i suoi vicini del Golfo. Il recupero dei rapporti era dovuto anche al crescente potere del principe ereditario Abdullah, che gestiva la politica estera dell’Arabia Saudita dal 1995 e cercava di rafforzare i legami del regno con l’Iran. Visite reciproche sono state ristabilite quando l’ex Presidente iraniano Rafsanjani si recò in visita ufficiale in Arabia Saudita nel 1998; la prima volta la rivoluzione del 1979.

Gli anni Novanta hanno visto una fase di riavvicinamento tra l’Arabia Saudita e l’Iran; dovuto al cambiamento di obiettivi di politica economica ed estera iraniana e al fatto che il regno saudita si sentiva meno minacciato dalla Repubblica Islamica. Tuttavia, persistevano le differenti basi ideologiche e la concorrenza politica ed economica, e poco dopo gli eventi mutevoli della regione avrebbero spinto il rapporto tra Arabia Saudita e Iran al limite, ancora una volta.

Fino alla fine degli Novanta e nei primi anni Duemila, la rivalità tra Arabia Saudita e Iran fu silente. Beauchamp ritiene che l’Iran avesse possibilità limitate di sfidare l’ordine politico saudita ed era troppo concentrato sulla imminente minaccia irachena di Saddam Hussein. Shahram sostiene che l’Arabia Saudita è stata a suo agio con “la politica occidentale del doppio contenimento di Iraq e Iran”. Le forze irachene furono espulse dal Kuwait, e le seguenti sanzioni, la no-fly zone e i bombardamenti americani e inglesi sull’Iraq avevano completamente eliminato la minaccia di Saddam dalla regione. Tuttavia, la decisione degli Stati Uniti di invadere l’Iraq nel 2003 per rovesciare Saddam Hussein e il suo Governo erano cattive notizie per l’Arabia Saudita in quanto rimuoveva uno dei principali attori della regione e apriva la strada all’Iran per sfidare l’ordine esistente. Questo ha portato alla dissoluzione del sistema di potere triangolare in cui le tre grandi potenze del Golfo, Iran, Arabia Saudita e l’Iraq si equilibravano l’un l’altra. Infatti, la struttura precedente è stata sostituita da una struttura bipolare che ha posto l’Iran e l’Arabia Saudita direttamente l’uno contro l’altro.

Inoltre, la rimozione di Saddam ha distrutto l’equilibrio nazionale iracheno, creando così una nuova base di competizione tra Arabia Saudita e Iran. Infatti, l’Iran ha colto l’opportunità di rafforzare i gruppi militanti sciiti pro-iraniani in Iraq, cercando di sostituire Saddam con un regime sciita amichevole. La caduta del regime baatista era vantaggiosa per Teheran per consolidare un rapporto con la neonata “democrazia”, in cui il 65% della popolazione è sciita. Gli sciiti iracheni, insieme ai curdi, una minoranza a lungo oppressa dai baatisti, hanno avuto un ruolo di primo piano nella politica irachena, con l’assistenza iraniana. Proprio per questo l’Arabia Saudita è diventata sempre più preoccupata per la crescente influenza dell’Iran e dei suoi alleati sciiti nel mondo arabo, soprattutto, dopo l’elezione nel 2006 degli sciiti al Governo. Di conseguenza, i Primi Ministri Ibrahim Jafari e Nouri al-Maliki sono stati accettati con freddezza dalla Lega Araba e le relazioni tra l’Iraq e gli Stati arabi non sono ritornati al livello precedente il 2003.

I timori sauditi furono riassunti nel settembre 2005, quando il Ministro degli Esteri, il principe Saud al-Faisal, affermò che gli Stati Uniti stavano consegnando l’Iraq all’Iran senza motivo. Pertanto, l’Arabia Saudita ha modificato il suo obiettivo principale, intervenendo nelle dispute regionali nel Libano, in Palestina e nello Yemen. Il principale driver delle relazione saudite-iraniane è diventato una lotta per plasmare l’equilibrio regionale del potere. Tra i tanti, Wehrey ritiene che durante questo processo le differenze settarie siano state utilizzate come misura per delegittimarsi l’un l’altro. Certamente, egli scrive, la divisione sunniti-sciiti acquisisce importanza quando si tratta della leadership ed è incoraggiata o sottovalutata come mezzo in un gioco geopolitico più grande; tuttavia, le differenze settarie non sono state la causa principale del deterioramento delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran. Per Wehrey, è il contesto storico che ha modificato le loro relazioni.

Nel 2011, un’ondata di proteste popolari ha colpito il Maghreb chiedendo la cacciata di dittatori a lungo al potere. Il successo delle rivolte in Tunisia, Egitto e Libia ha scosso l’equilibrio di potere esistente nella regione e ha sollevato i timori dei non legittimati governanti vicini.

Duran spiega che i sauditi sono sempre stati in ansia per la propria presa sul potere, ed è per questo che sono stati tra i primi a temere la diffusione delle proteste politiche sul loro territorio. Da un lato, hanno dovuto affrontare una nuova ondata di democratizzazione che ha rimosso Mubarak in Egitto, uno dei principale alleati arabi nella regione, aprendo la strada per la presa del potere da parte dei Fratelli Musulmani. Duran afferma che la combinazione di democrazia e politica islamista ha sfidato il ruolo dell’Arabia Saudita come leader del mondo musulmano sunnita, presentando un modello alternativo islamico sunnita alla monarchia saudita. Pertanto, al-Saud ha accolto con favore il colpo di stato militare del generale Abd al-Fattah al-Sisi nel luglio del 2013. D’altro canto, al- Saud ha dovuto affrontare una resistenza sciita al suo interno; la popolazione sciita in Arabia Saudita è stimata intorno al 10%.

Per Gause, a differenza dell’Arabia Saudita, il rovesciamento di Hosni Mubarak in Egitto ha eliminato un avversario chiave per gli iraniani e la primavera araba li ha aiutati a responsabilizzare le comunità sciite nei vicini Stati arabi, in particolare nel Bahrain. In realtà, i leader iraniani hanno, in un primo momento, considerato la primavera araba come espansione della loro ideologia e una continuazione della loro rivoluzione islamica. Tuttavia, Teheran ha male interpretato l’attrattiva del suo modello di governance, sottovalutando la resistenza regionale verso una leadership straniera. L’Iran non è riuscito ad attuare alcune interferenze politiche significative negli Stati arabi nel 2011, quindi, si è spostato rapidamente per la difesa dei suoi principali alleati in Siria e in Libano, coinvolti in caotiche guerre civili.

Il rapporto tra l’Arabia Saudita e l’Iran è peggiorato dato che ciascuno supportava le parti opposte dei conflitti in corso. Per esempio, in Siria, l’Arabia Saudita ha sostenuto i ribelli che combattevano l’alleato dell’Iran, Bashar al-Assad, mentre l’Iran ha appoggiato Assad con aiuti militari per preservarne il potere. Analogamente, quando la maggioranza sciita ha protestato contro la monarchia sunnita in Bahrain, l’Arabia Saudita, temendo l’influenza iraniana, ha sostenuto la brutale repressione dei manifestanti del Bahrein in fine di preservare la famiglia regnante al-Khalifa.

Le tensioni tra i due rivali hanno avuto un’escalation quando Riyadh ha accusato Teheran di aver orchestrato le rivolte della popolazione sciita nel Bahrein. Jahner spiega che l’Arabia Saudita non si preoccupava per un intervento iraniano, ma temeva l’effetto dei movimenti di liberazione sciiti sulla proprio minoranza sciita. In realtà, i movimenti in cerca di libertà in tutta la regione sono stati l’occasione per l’Iran di espandere la propria influenza e stabilire alleanze. Inoltre, non era chiaro in quali mani sarebbe finita la leadership della regione, considerando il vuoto di potere che le rivolte avevano creato, tuttavia, la severa risposta saudita alle proteste politiche ha contribuito a lanciare la propaganda iraniana contro l’illegittimità saudita e la sua brutalità in tutta la regione.

Steinberg ritiene che la situazione politica delle comunità sciite nei paesi del Golfo e negli Stati arabi era ed è ancora una grande fonte di attrito che ha bisogno di una speciale comprensione strategica. In effetti, la minoranza sciita in Arabia Saudita è sempre stata politicamente, economicamente e culturalmente discriminata perché ha respinto il Governo saudita. È importante rilevare che la maggior parte della minoranza sciita vive nella provincia orientale dell’Arabia Saudita, dove si trovano le principali raffinerie e giacimenti petroliferi del Paese. Per paura, la politica dell’Arabia Saudita verso la minoranza sciita è stata guidata più dal pregiudizio, secondo il quale gli sciiti nazionali sono settari filo-iraniani, e non dagli orientamenti politici attuali.

Queste politiche hanno portato ad una seconda ondata di manifestazioni contro la monarchia saudita nel luglio del 2012, con slogan come “Abbasso al-Saud” e “Morte ad al-Saud”. Per peggiorare le cose, il Governo saudita ha risposto arrestando Baqir al-Nimr, uno studioso di religione e leader popolare dell’opposizione sciita anti-monarchia, che ha criticato continuamente il Governo e richiesto riforme politiche. Analogamente al-Saud ha accusato l’Iran di spingere le proteste per destabilizzare la sicurezza interna dell’Arabia Saudita. La percezione della minaccia nazionale e regionale ha guidato la politica saudita durante la primavera araba e ha avuto conseguenze critiche nazionali in quanto ha portato il Governo a respingere ferocemente le richieste dell’opposizione sciita.

La scelta saudita e del Bahrein di non integrare i cittadini sciiti ha reso i giovani dimostranti vulnerabili al supporto straniero, elargito soltanto dall’Iran. Kinninmont sostiene che le minoranze sciite in altri Paesi del Golfo, come l’Oman e il Kuwait, sono più integrate, e spiega che, a seguito della loro integrazione, i Governi temono meno che siano manipolate per essere utilizzate come punto d’appoggio per stimolare la dissidenza. Per Kinninmont, nel suo insieme, l’influenza iraniana sulla comunità sciita è sopravvalutata sia dall’Arabia Saudita sia dall’Iran. In realtà, sono le circostanze politiche locali e le opportunità che i sistemi politici locali prevedono per l’inclusione delle popolazioni sciite che determinano queste differenze di comportamento politico. In altre parole, nei Paesi in cui gli sciiti sono più integrati, l’Iran ha meno influenza su di loro, perché non favoriscono la parte iraniana quando il contesto politico nazionale è a loro favorevole.

La suscettibilità dell’Arabia Saudita verso la sollecitazione delle proteste da parte iraniana nei Paesi vicini ha raggiunto anche lo Yemen, dove l’Iran ha sostenuto le proteste degli Houthi. L’Arabia Saudita ha considerato necessario reprimere ogni tentativo di diffondere la rivoluzione nelle zone di confine. In primo luogo, l’Arabia Saudita ha abbandonato la sua relativa passività in politica estera per condurre un allineamento inter-arabo come contrappeso alla minaccia iraniana nello Yemen.

Per l’Iran, lo Yemen non era un punto nodale della politica di sicurezza, tuttavia l’instabilità del Paese più povero del mondo arabo è stata percepita come un’opportunità per acquisire un potere supplementare nei confronti dell’Arabia Arabia.

In breve, all’inizio della primavera araba, l’Iran aveva una linea vincente, mentre i sauditi avevano scelto una linea difensiva, in particolare quando la caduta di Mubarak sembrava essere un’altra battuta d’arresto per i loro sforzi di contenere l’influenza iraniana. Tuttavia, attraverso l’indebolimento del regime siriano, l’Arabia Saudita sperava si spezzasse l’asse della resistenza formata da Siria, Libano e l’Iran. Il caos generato dalla primavera araba era l’unica possibilità per i Sauditi di limitare l’influenza iraniana. La Siria è diventata così centrale per l’Arabia Saudita che, nel 2012, ha iniziato a sostenere la rivolta. Pertanto, il modo in cui la crisi siriana si concluderà, determinerà chi avrà vinto questo round per la conquista dell’influenza.

Il crescente squilibrio di potere nella regione ha favorito l’animosità tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Infatti, dalla caduta di Saddam nel 2003 l’equilibrio regionale si è rotto. Il nuovo Governo in Iraq ha stabilito collegamenti diretti e legami con l’Iran a discapito degli interessi sauditi nel Paese. Riyadh ha ritenuto che la caduta del “muro” iracheno avrebbe fornito all’Iran l’occasione per creare nel Levante quello che viene definito “l’asse della resistenza”. L’Iran ha quindi avuto un accesso completo ai suoi alleati in Siria, dove Teheran ha lavorato per mantenere il Presidente Bashar al- Assad al potere durante la guerra civile, estendendosi al Libano, dove il suo alleato Hezbollah ha una forte base, e diffondendo similmente la sua influenza nello Yemen, dove i ribelli Houthi continuano a lottare per il controllo della politica yemenita.

Guardando la mappa del Medio Oriente, è chiaramente visibile l’amplificazione dell’influenza dell’Iran negli ultimi anni. Questi interventi continui nei conflitti regionali hanno fornito all’Arabia Saudita dei seri motivi per preoccuparsi.

L’espansione iraniana ha creato un accerchiamento dell’Arabia Saudita in un momento in cui gli Stati Uniti hanno cominciato a disinteressarsi del Medio Oriente per concentrarsi sull’Asia Orientale come nuovo imperativo strategico. Inoltre, la primavera araba ha fatto sì che i sauditi si rendessero conto che l’intimidazione iraniana non era solo esterna, ma anche una minaccia esistenziale interna. Quindi, la famiglia reale ha visto la necessità di assumere un atteggiamento proattivo nelle materie concernenti la sua sicurezza. Al-Saud aveva cercato di riequilibrare il potere nella regione al fine di evitare un’egemonia iraniana che consolidasse anche un dissenso interno. L’intervento militare saudita in Bahrain per schiacciare le proteste contro la loro monarchia era una prova di irrazionalità saudita nel prendere le misure necessarie per impedire la sua caduta. Infatti, come l’equilibrio di potere continuava a cambiare a favore dell’Iran, la politica estera saudita è stata sempre più guidata da una sensazione di urgenza sulla base di una convinzione paranoica che il suo crollo fosse imminente. Secondo Durani, nel 2015 le importazioni per la difesa avevano raggiunto la cifra di 6,5 miliardi di dollari.

Da parte sua, l’Iran si è impegnato nell’estendere la sua forza militare convenzionale. Matthew McInnis indica che in breve tempo Teheran avrà forze aeree e terrestri idonee ad operare oltre i suoi confini. Tuttavia, l’Iran non può raggiungere il predominio aereo o distribuire grandi formazioni di combattimento all’estero; i missili balistici sono stati l’essenza della sua strategia militare per sopperire a tale mancanza, anche se i missili non hanno testate di precisione e non possono essere guidati per distruggere obiettivi avversari. Pertanto questi missili sono utilizzati come deterrenti nei confronti dei Paesi del Golfo e di Israele. Le capacità difensive missilistiche dei Paesi del Golfo, d’altra parte, sono migliorate con l’assistenza degli Stati Uniti, ma la loro efficacia contro un attacco iraniano non è ancora garantita. Anche se la maggior parte dei Paesi del Golfo ha sviluppato una difesa aerea e navale migliore, l’Iran è consapevole della loro completa dipendenza dal sostegno americano per quanto concerne l’intelligence, la ricognizione, la comunicazione, logistica, e la formazione per condurre qualsiasi operazione militare nel futuro. McInnis sottolinea come l’Iran continui ad espandere le sue capacità asimmetriche per aumentare il costo di eventuali azioni militari future per i Paesi del Golfo Persico. Osserva, inoltre, come l’Iran continui ad investire in piccole barche armate, missili cruise di difesa, sottomarini, veicoli aerei senza equipaggio, e in altri sistemi che potrebbero sfidare le capacità dei Paesi del Golfo e degli Stati Uniti per esercitare un potere nel Golfo Persico.

Allo stesso modo, i recenti divieti di navigazione internazionale sullo Stretto di Hormuz nell’aprile e nel maggio del 2015, dimostrano che l’Iran cerca di ricordare al mondo la sua capacità di controllare il contesto regionale. Per Teheran, l’equilibrio convenzionale di potere nel Golfo Persico rimarrà nel breve termine un gioco difensivo e coercitivo e la modernizzazione nei prossimi decenni delle sue forze missilistiche, di difesa aerea, navali e terrestri potrebbe farne una vera e propria potenza militare in grado di sfidare direttamente gli Stati del Golfo.

In aggiunta alla sua potenza militare competitiva, il territorio e la popolazione iraniane sono immensamente maggiori di quelli di qualsiasi altro Stato arabo del Golfo. La sua economia, la scienza e la tecnologia sono anche più avanzate e diversificate. Questi fatti sollevano le preoccupazioni dei sauditi riguardo alla loro vulnerabilità di fronte al crescente potere dei loro vicini.

Secondo Bruno, l’accordo di Vienna sul programma nucleare iraniano ha alimentato ulteriormente la rivalità strategica tra l’ayatollah e al-Saud. Gli iraniani riceveranno investimenti dall’Europa e dai Paesi emergenti, compresa la Cina. La famiglia reale saudita teme che il rilascio di risorse economiche renda Teheran un gigante regionale che può utilizzare ogni crisi per perseguire i suoi obiettivi politici e militari. L’Iran detiene già una leadership in crescita nel Medio Oriente nonostante il danno causato dalle sanzioni economiche. La sua vera forza risiede nell’interno, in quanto è la più stabile nazione musulmana in Medio Oriente. L’Iran è esistito all’interno dei suoi confini attuali per migliaia di anni ed è riuscito a mantenere sotto controllo le sue minoranze. Inoltre, anche se è governato da chierici, l’Iran ha meccanismi elettorali democratici dalla rivoluzione del 1979. Van Buren osserva che, a differenza dell’Arabia Saudita, i leader iraniani non si preoccupano di una possibile rivoluzione islamica perché l’hanno già sperimentata.

Inoltre, Salehzadeh scrive che Ali Khamenei ha diviso il potere tra diverse élite, come il Corpo delle Guardie rivoluzionarie (IRGC), l’esercito della Repubblica Islamica dell’Iran, i servizi di intelligence e il Basij. Tra questi gruppi vi è una lotta per il potere e per i proventi del petrolio. Ogni gruppo cerca di preservare il sistema dominante presente nel Paese, perché tutti insieme con il loro leader Ali Khamenei sono come una nave; se un pezzo si rompe, la nave intera affonda. Per questa ragione, tutti gli interessi sono subordinati al mantenere l’attuale regime politico e l’unità interna.

Friedland esplicita che, al fine di salvaguardare il suo sistema statuale, l’Iran applica generalmente un soft power. Tenta di diffondere la sua influenza attraverso i legami con religiosi sciiti nella regione, finanzia le cause umanitarie e politiche, l’acquisto di armi, l’addestramento per i militanti, favorisce il commercio, l’attività diplomatica e l’influenza culturale. Tuttavia, l’Iran sembra avere ancora una lunga strada da percorrere per avere successo nel presentarsi come leader del mondo islamico.

Fare in modo che l’Iran non ottenga questa leadership è l’obiettivo dell’Arabia Saudita. Il suo obiettivo principale è diventato frenare il potere. Riyadh ha scelto di riequilibrare l’influenza iraniana attraverso una strategia sfumata invece che con una apertamente conflittuale. Attualmente i Paesi del Golfo hanno scelto una politica strategicamente difensiva e tatticamente offensiva per bloccare l’Iran, attraverso l’attuazione di una guerra di coalizione che utilizza le forze aeree per sostenere le forze di terra. Questa competizione senza fine tra l’Arabia Saudita e l’Iran per il potere regionale e l’influenza sta infiammando ulteriormente l’area mediorientale.

È interessante soffermarsi anche sulle opposte alleanze di Iran e Arabia Saudita. Durante la Guerra Fredda la maggior parte dei Paesi apparteneva al blocco occidentale o al blocco orientale. Nel suo articolo Salehzadeh riconosce che, nel 1979, seguendo i principi di Khomeini, l’Iran ha tentato di evitare di costruire una politica estera che inclinasse verso uno dei campi. Tuttavia questo non è stato possibile, grazie alle buone relazioni dell’Iran con il campo “orientale”, in particolare con la Russia, il vecchio regime dell’Unione Sovietica e la Cina. Questi due Paesi restano i principali alleati dell’Iran, nonostante il fatto che Teheran sia uno Stato membro della Movimento Non Allineato e abbia una propria agenda politica. Queste alleanze servono all’Iran per contrastare l’influenza occidentale crescente nella regione del Maghreb e portare avanti il suo programma nucleare.

La Russia è un membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e un membro del P5+1, ed ha appoggiato il Joint Comprehensive Plan of Action sul programma nucleare iraniano. La Russia è anche un alleato strategico nella lotta dell’Iran per mantenere Assad al potere. La Russia è stato il principale fornitore di armi convenzionali e tecnologie missilistiche all’Iran. Analogamente, ha fornito anche il combustibile per il reattore nucleare per usi civili a Bushehr; un progetto da cui la Russia riceve significativi ricavi. Nel gennaio del 2015, i due alleati hanno firmato un memorandum d’intesa sulla cooperazione in materia di difesa, in cui rientravano anche le esercitazioni militari.

Le sanzioni contro la Russia del 2014 hanno contribuito a rafforzare l’allineamento dei due Paesi in quanto entrambi si considerano bersagli delle sanzioni occidentali. Ambedue hanno accusato gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita di cospirare contro di loro e di utilizzare la diminuzione dei prezzi internazionali del petrolio per fare pressione sulla loro economia. Katzman spiega inoltre che il Consiglio di cooperazione degli Stati arabi del Golfo, d’altra parte, ha scelto l’alleanza con il campo occidentale. Infatti, dopo il ritiro britannico dalla regione del Golfo, gli Stati Uniti hanno svolto il ruolo di protettore dei Paesi del Golfo. Da allora, ogni Paese si è impegnato negli accordi militari e di sicurezza bilaterali con gli Stati Uniti, ben consapevole che l’Iran ha 1.100 miglia di costa sul Golfo Persico e sul Golfo dell’Oman; le monarchie del Golfo ospitano un numero significativo di forze Usa presso le loro strutture militari e acquistano equipaggiamenti militari dagli Stati Uniti, tra cui la tecnologia di difesa missilistica. Le loro strutture sono fondamentali per eventuali operazioni aeree degli Stati Uniti contro l’Iran nell’eventualità di un conflitto regionale.

Salehzadeh osserva come attraverso l’aiuto saudita, gli Stati Uniti possano essere considerati come un Paese confinante con l’Iran che sorveglia gli affari interni ed esteri della regione, tra cui le relazioni dell’Iran con i suoi vicini. Questa presenza militare straniera accanto ai confini iraniani è una minaccia esistenziale per Teheran. I leader iraniani sottolineano come le grandi dimensioni della presenza militare degli Stati Uniti nella regione del Golfo Persico li esponga a un possibile attacco nel caso di errori di calcolo militare o travisamento delle politiche iraniane nella regione. L’obiettivo principale di Iran era convincere gli Stati del Golfo ad abbandonare la loro dipendenza dai poteri esterni e stabilire accordi di sicurezza collettiva. Tuttavia, gli Stati del Golfo hanno rifiutato una collaborazione collettiva sotto una leadership iraniana e si sono avvicinati al campo occidentale.

Prima della primavera araba, si erano formati due assi, l’uno contro l’altro. Da un lato, un campo pro-USA, guidato dall’Arabia Saudita, tra cui la monarchia conservatrice del Re Abdullah II di Giordania e il regime autocratico di Hosni Mubarak in Egitto. Dall’altra parte, l’asse anti-statunitense era guidato dall’Iran e comprendeva la Siria, la formazione libanese Hezbollah, Hamas e il governo iracheno di recente formazione. Tuttavia, lo scoppio improvviso del Primavera araba all’inizio del 2011 ha disorganizzato e interrotto l’asse anti-Iran. La caduta di Mubarak ha dato potere ai Fratelli Musulmani in Egitto, che rapidamente hanno migliorato le relazioni con l’Iran a spese dell’Arabia Saudita. Per la prima volta dalla rivoluzione del 1979, le navi iraniane avrebbero potuto attraversare il Canale di Suez nel loro cammino verso i porti siriani. Tuttavia questo avvicinamento non è durato a lungo, non appena il Governo dei Fratelli Musulmani è stato rovesciato da un colpo di stato militare. Allo stesso modo, gli alleati siriani e libanesi dell’Iran sono stati scossi dagli ultimi eventi, rendendo più difficile per Teheran garantire la sopravvivenza dell’“l’asse della resistenza”.

Mentre l’ambiente politico regionale si è trasformato, l’Iran ha visto la necessità di una riconciliazione con i suoi vicini arabi per salvaguardare la propria egemonia. L’Iran era consapevole che non avrebbe mai potuto ottenere la leadership del mondo musulmano se non poteva garantire la sicurezza dell’area mediorientale.

Inoltre, Teheran ha cercato di espandere la sua influenza politica instaurando rapporti con ciascuno dei suoi vicini del Golfo. Per lo più ha cercato di attuare dei gesti diplomatici, degli accordi economici e commerciali, e la cooperazione militare. Meno spesso, ha usato la sua autorità religiosa sciita per raggiungere le minoranze sciite.

L’approccio iraniano verso ogni vicino è differente ed è caratterizzato da diversi fattori politici, economici, geografici, e storici indipendentemente dalle loro differenze settarie. Il Qatar per esempio, ha mantenuto storicamente buoni rapporti con l’Iran, con il quale condivide il controllo sul più grande giacimento di gas del mondo. L’Oman, che ha una grande importanza strategica per l’Iran, è anche considerato uno dei Paesi del Golfo più vicino a Teheran. In effetti, il 40% delle forniture di petrolio del mondo ogni giorno passa dallo stretto di Hormuz. In aggiunta a questo, i principali canali delle acque profonde e le rotte marittime sono nelle acque dell’Oman. Inoltre, le 200 miglia di costa dell’Oman rappresentano un hub commerciale chiave sia per il Golfo Persico settentrionale sia per le regioni dell’Oceano Indiano. Allison osserva come l’Oman non sia mai stato governato dall’Inghilterra, non sia un membro dell’OPEC, ed abbia contribuito a condurre relazioni commerciali e diplomatiche con l’Iran, indipendentemente dalla loro differenza settaria

Tutto il processo di creazione delle alleanze, sia dell’Iran sia dell’Arabia Saudita, ha attraversato le linea di faglia settarie per raggiungere i loro alleati regionali.

La politica estera iraniana ha affrontato i vincoli di un Medio Oriente in cui né i persiani né gli sciiti sono la maggioranza. Che si trattasse di prima o dopo la rivoluzione iraniana, l’Iran ha cercato in generale alleanze strategiche, non settarie. Tuttavia, dalla nascita della Repubblica Islamica e dall’inasprimento della politica di contenimento da parte dell’Occidente e del Golfo, l’Iran ha avuto un ristretto numero di partner da selezionare. Ayub spiega che invece di adottare una politica esclusivamente sciita, l’Iran ha cercato di costruire partenariati con i Paesi e gli attori non statali che condividono il suo risentimento per l’ordine regionale e la percezione di minaccia alla sicurezza interna. Attraverso questo approccio, l’Iran si è trovato più vicino al sunnita Hamas, allo sciita Hezbollah e al regime laico alauita di Assad. Analogamente, la recente vicinanza con l’Iraq non è semplicemente finalizzata alla costruzione di un rapporto con il secondo più grande Paese a maggioranza sciita; la vicinanza a Baghdad ha come fine il mitigare le minacce da uno Stato vicino e il trovare alleati all’interno di uno Stato a maggioranza sciita. Ma, come le tensioni e i conflitti diventano altrove sempre più divisi secondo linee confessionali, l’Iran si è trovato sempre più vincolato nella sua capacità di costruire relazioni con i gruppi non-sciiti.

Tuttavia, il marchio iraniano sciita sarà costantemente una carta perdente nella sua lotta per la leadership religiosa di un mondo musulmano che è al 90% sunnita. Gli stessi sciiti non sono così uniti come sembrano. Per la maggior parte di loro, la loro identità e i loro interessi si basano più sulla loro origine etnica che sulla loro confessione religiosa. Gli sciiti iracheni, per esempio, hanno scelto il loro interesse nazionale durante la guerra Iran-Iraq ed erano pronti a uccidere i loro compagni sciiti in Iran e viceversa. Allo stesso modo, i gruppi militanti sciiti in Libano, Amal e Hezbollah, si sono scontrati durante la guerra civile nel Paese. Allo stesso modo, gli Houthi zaydi sciiti nello Yemen hanno combattuto il Governo di Ali Abdullah Saleh, uno zaydi, diverse volte tra il 2004 e il 2010, poi, nel 2014, hanno catturato la capitale Sana’a, con il supporto del deposto presidente Saleh. La condivisione di una comune identità sunnita non ha eliminato le lotte di potere tra i musulmani sunniti sia che si tratti di un Governo laico o religioso. I sauditi, i Fratelli Musulmani e la Turchia e i gruppi sunniti regionali sono bloccati in un conflitto sul ruolo politico dell’Islam nel mondo sunnita. Anche all’interno dello stesso campo salafita ci sono divisioni gravi.

Una gestione efficace degli alleati regionali richiede una ideologia transnazionale e connessioni politiche che rendano il target potenziale aperto ad un rapporto. Queste connessioni sono ora più forti della potenza militare convenzionale per manovrare il corso della politica regionale. Secondo Bazoobandi, le relazioni Iraq-Iran sono il miglior esempio di queste connessioni. Inoltre, in Iraq, l’Iran è penetrato nel Governo appena nato per mantenere una forte coalizione favorevole e in grado di fornire un ampio sostegno agli obiettivi di Teheran nell’area. Attraverso questo processo, l’Iran cerca di contrastare l’influenza di altri concorrenti nel Paese compresa quella dell’Arabia Saudita, che a sua volta sostiene i gruppi sunniti in tutto l’Iraq. Così Baghdad è diventata un punto strategico per l’Iran nella regione, ha fornendo opportunità con cui contrastare l’influenza saudita.

L’Iraq ha aiutato l’Iran ad eludere le sanzioni internazionali più dure. In effetti, l’Iraq è diventato il secondo partner commerciale dell’Iran dopo la Turchia, uno dei maggiori investitori nel settore delle costruzioni del turismo religioso, nel settore energetico e in quello bancario.

Anche l’influenza nel Libano ha una rilevanza strategica per l’Iran a causa dei suoi confini con la Palestina, il suo atteggiamento nei confronti di Israele e l’accesso al Mediterraneo per gli obiettivi economici e geopolitici. I rapporti tra il Libano e la Siria sono sempre stati buoni dopo l’istituzione della Repubblica Islamica. Khomeini ha visto lo sciismo libanese come un partner fondamentale negli sforzi iraniani per esportare la sua rivoluzione nella regione. Per questi motivi e come risposta all’invasione israeliana in Libano, Teheran ha offerto il suo supporto agli sciiti libanesi e ha contribuito a fondare Hezbollah nel 1982.

Le priorità delle alleanze strategiche iraniane prevedono anche una forte collaborazione con la Siria. Anche se il Governo siriano è laico e segue la confessione alauita, che è un lontano ramo dell’Islam sciita, l’alleanza dell’Iran con il governo di Bashar è stata la più resiliente in Medio Oriente a causa dei loro interessi comuni a lungo termine. Da parte sua, l’Iran considera la Siria l’alleato più affidabile nella regione che può offrire aiuti strategici per affrontare qualsiasi potenziale aggressione militare israeliana e per influenzare gli sviluppi in Libano e in Palestina, e probabilmente anche nel Mediterraneo orientale. Inoltre, durante la guerra Iran-Iraq, l’Iran è stato isolato dagli altri Paesi arabi e la Siria era l’unico alleato arabo al suo fianco. Questa posizione non è frutto semplicemente della simpatia tra sciiti e alauiti. In realtà, Iran e Siria hanno una alleanza strategica di lunga data, in parte a causa della loro comune animosità nei confronti di Saddam Hussein. Il mantenimento di una grande alleanza con la Siria ha anche fornito all’Iran un canale sicuro per la spedizione di beni commerciali e militari, che sono divenuti particolarmente importanti dopo le sanzioni contro Teheran nel 2011.

L’Iran ha beneficiato anche della sua alleanza con la Siria per entrare nei mercati internazionali. Nel febbraio del 2013, Iran, Iraq e la Siria hanno firmato un accordo sulla costruzione di un gasdotto, attraverso il quale il gas naturale dell’Iran sarebbe trasportato attraverso l’Iraq fino alla Siria e venduto sui mercati europei. L’Iran considera la Siria come una sua estensione strategica che non può permettersi di perdere. Ecco perché il corso degli avvenimenti in Siria e l’esito delle crisi sono diventati così importanti per Teheran. Se l’alleanza Iran-Siria si rompesse, l’influenza e l’autorità della Repubblica Islamica nella regione crollerebbero e l’Iran non sarebbe più in grado di minacciare Israele, l’Arabia Saudita e i suoi alleati.

Per contrastare le alleanze dell’asse iraniano, l’Arabia Saudita ha cercato di rafforzare la cooperazione con gli Stati del Golfo. Tuttavia, le aspirazioni saudite per una leadership sulla parte meridionale del Golfo non hanno incontrato una risposta favorevole da parte degli altri Paesi del Golfo per disaccordi militari e monetari. Con il peggiorare delle relazioni con l’Iran, l’Arabia Saudita ha cercato di stabilire nuove alleanze nella regione con la Turchia, l’Egitto e gli Stati africani confinanti.

Arabia Saudita e Iran continuano a considerarsi a vicenda come minacce. L’Arabia Saudita percepisce che l’Iran sta cercando di ribaltare un ordine politico del Medio Oriente che è adatto ai suoi interessi; mentre gli iraniani credono che il regno saudita stia lavorando per mantenere l’Iran vulnerabile. Così le due potenze cadono in un dilemma di sicurezza. Come uno di loro aumenta la spesa per la difesa o sostiene un conflitto regionale per procura al fine di proteggere se stesso da una minaccia percepita, l’altro vede questa misura di difesa come minaccia e reagisce di conseguenza. Entrambi si sentono in dovere di intraprendere delle azioni per garantire la propria sicurezza e finiscono per intimidire la loro controparte aumentando le probabilità di conflitti futuri. I sauditi e gli iraniani stano attuando delle strategie politiche a somma zero; più potente appare l’Iran, più vulnerabili si sentono i sauditi e vice versa. La logica difensiva iraniana spiega il suo supporto ai conflitti in Paesi come la Siria e lo Yemen. Tali supporti iniziano a sembrare cruciali. L’Arabia Saudita percepisce l’aiuto iraniano per gli Houthi nello Yemen come un tentativo di creare il caos nei vicini confini sauditi. Nel frattempo, l’Iran vede il supporto dell’Arabia Saudita ai ribelli in Siria come un mezzo per privarla di un importante alleato e circondarlo di regimi aggressivi. La migliore risposta per l’Arabia Saudita è stata quella di bombardare gli Houthi nello Yemen mentre l’Iran ha inviato più truppe e consiglieri militari in Siria.

Come conseguenza della paura costante negli ultimi anni, l’Arabia Saudita e l’Iran sono stati sempre più coinvolti in una serie di conflitti “per procura”, in quanto le trasformazioni degli ordini politici nella regione hanno dato l’opportunità a queste due potenze di competere per l’influenza. Iran e Arabia Saudita hanno avuto come obiettivi, per proiettare il loro soft power nella regione, Stati frammentati che affrontavano gravi problemi politici interni. La loro concorrenza ha esacerbato una serie di contenziosi esistenti nella regione, dal momento che le due potenze sostenevano i fronti opposti.

I loro impegni al di là dei propri confini si sono intensificati quando hanno attivamente fornito sostegno militare e paramilitare ai loro alleati contrapposti in Siria e in Iraq, come così come nel Libano e nello Yemen. Il sostegno agli alleati generalmente include spedizioni di armi, fornitura di consulenti, formazione delle milizie militari e paramilitari e finanziamento. La lotta è chiaramente per la direzione della politica interna nel Medio Oriente più che una competizione prettamente militare.

Il rovesciamento di Saddam Hussein nel 2003 ha dato all’Iran la possibilità di modificare il suo rapporto con l’Iraq. Questo è stato un evento promettente e minaccioso per Teheran. In realtà, l’Iran temeva che l’Iraq potesse diventare un alleato armato degli Stati Uniti in modo tale da completare l’accerchiamento militare dei suoi confini. Pertanto, ha cercato di controllare gli sviluppi nel suo vicino lavorando con i Partiti sciiti iracheni, le forze sciite emergenti e i curdi, inoltre, in misura minore l’Iran ha supportato anche i gruppi sunniti. L’Iran ha utilizzato i suoi rapporti di lunga data con i politici chiave iracheni, i Partiti e i gruppi armati, e il suo soft power nella sfera economica, religiosa, per affermarsi in Iraq. Principalmente, l’obiettivo politico iraniano era quello di unire i Partiti sciiti iracheni in modo che potessero tradurre il loro peso demografico in influenza politica consolidando il controllo sul Governo.

La maggior parte degli attuali membri sciiti delle élite politiche in Iraq, come le famiglie Hakim e Sadr, ha trascorso il periodo dell’esilio in Iran. Oggi non solo hanno stretti legami con Teheran, ma cercano anche di mantenere una collaborazione reciproca; vedono l’Iran come un supporto culturalmente familiare e forte alle prime luci dell’alba del loro dominio politico in Iraq. Infatti, durante l’esilio, l’Iran li ha aiutati nell’organizzazione del Supremo Consiglio della Rivoluzione Islamica in Iraq (ISCI), costituito a Teheran nel 1982, con base in Iran fino al trasferimento in Iraq nel 2003. Allo stesso modo, le Guardie Rivoluzionarie hanno organizzato le Brigate Badr, l’ala militare del Supremo Consiglio che ha combattuto fianco a fianco con le forze iraniane durante gli otto anni della guerra. Dopo il 2003, migliaia di miliziani Badr sono entrati nel sud dell’Iraq dall’Iran per proteggere i confini meridionali iraniani. L’Iran ha inviato 2.000 Guardie Rivoluzionarie e paramilitari in Iraq del sud dietro le colonne corazzate degli Stati Uniti nel marzo del 2003 e gli iraniani hanno preso il controllo di Bassora prima che gli Usa potessero arrivare anche a Baghdad. Molti uomini dell’organizzazione Badr sono stati poi integrati nelle forze di sicurezza irachene, in particolare nell’esercito e nel Ministero dell’intelligence e dell’organizzazione delle forze speciali interne.

Il Partito islamico Dawa, fondato nel 1957, ha avuto il sostegno iraniano durante le ultime fasi della sua esistenza sotterranea in Iraq. Dopo il 2003, il Dawa ha aderito al processo politico nazionale. Tuttavia, aveva un potenziale limitato a causa della sua milizia armata. Il leader del Partito, Nouri al-Maliki, è stato poi selezionato dal più potente Supremo Consiglio e dai sadristi come scelta di compromesso per la carica di Primo Ministro nell’aprile del 2006. Gli alleati di Teheran hanno quindi svolto un ruolo chiave nel plasmare la costituzione del 2005 e le nascenti istituzioni politiche irachene. Anche se l’Iran ha utilizzato la carta settaria per guadagnare influenza in Iraq, il suo sostegno agli alleati sciiti iracheni non era basato solo sulla condivisa solidarietà religiosa e sulla comune opposizione al regime di Saddam Hussein, ma anche sul riconoscimento che questi gruppi islamici potessero assegnare all’Iran un risultato migliore di quello offerto da raggruppamenti nazionalisti laici, come la coalizione Iraqiyah di Ayad Allawi, un Partito nazionalista più laico, la cui base politica comprendeva molti nazionalisti arabi ed ex sostenitori del regime che si opponevano fortemente all’influenza iraniana in Iraq. Con l’aiuto iraniano, una lista sciita congiunta, l’Alleanza irachena unita (UIA), ha gareggiato nelle elezioni parlamentari del 2005. L’alleanza includeva l’ISCI, il Partito dell’organizzazione Badr, il Dawa, il Partito islamico Fadhila, e altri piccoli Partiti sciiti iracheni, che hanno goduto di diversi livelli di supporto da parte dell’Iran. L’Alleanza ha ottenuto la maggioranza dei voti in entrambe le elezioni, e ha quindi svolto un ruolo importante nella definizione della costituzione irachena e nei seguenti Governi. L’UIA è stata sostenuta anche nelle gennaio del 2005 elezioni da un’autorità sciita religiosa irachena, l’ayatollah Ali al-Sistani, nonostante le sue differenze con l’establishment religioso di Qom per quanto riguarda la dottrina del governo clericale (Velayat-e faqih).

Pur promuovendo il suo soft power nell’Iraq, l’Iran ha anche cercato di influenzare la rete clericale sciita a Najaf. Teheran ha finanziato i chierici politicizzati a Qom. Teheran segue questo metodo non solo a causa delle convinzioni religiose e politiche, ma anche perché ritiene che la promozione della solidarietà con gli sciiti del mondo gli garantirà il loro sostegno in caso di un possibile attacco contro l’Iran. Sostenendo i chierici iraniani a Qom che promuovono la sua ideologia di Governo clericale (velayat-e faqih), piuttosto che i chierici di Najaf, che promuovono un ruolo clericale più limitato in politica, l’Iran cerca di controllare la rete sciita internazionale.

La morte dell’ayatollah Hussein Fadlallah, nel 2010, un influente religioso libanese addestrato a Najaf, e le cattive condizioni di salute di Ali al-Sistani, il membro della scuola di Najaf e il principale marja, importante per quasi l’80% di tutti gli sciiti del mondo, rende la scuola Najaf più vulnerabile alla influenza iraniana. In questo modo, l’Iran acquisisce influenza in Iraq e cerca di stabilire per se stesso un ruolo importante nella vita politica, economica, e religiosa di Najaf.

L’Iran ha lavorato anche per preservare i suoi legami di vecchia data con i principali Partiti curdi dell’Iraq, tra cui il Partito Democratico Curdo (KDP) e l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) per fissare la sua influenza in alcune zone del nord dell’Iraq. I guerriglieri curdi peshmerga hanno combattuto a fianco dell’Iran contro le forze irachene durante la guerra Iran-Iraq, e, reciprocamente, Teheran ha armato il PUK durante il suo combattimento con il KDP dal 1994 al 1998. L’Iran continua a godere di stretti legami con il PUK e KDP e con il Governo regionale del Kurdistan (KRG) con sede a Irbil. L’Iran ha rapidamente sviluppato legami economici bilaterali con il KRG che incontrano le esigenze di Irbil per quanto riguarda lo sbocco sul mare e l’accesso ai mercati, mentre l’Iran potrebbe ottenere prodotti combustibili raffinati e tecnologia. Questa alleanza ha aiutato l’Iran a eludere in parte la sanzioni internazionali.

Indubbiamente, l’Iran ha contribuito a stabilire molte delle milizie sciite che hanno combattuto gli Stati Uniti nel periodo 2003-2011. La maggior parte di questi gruppi si è trasformata in organizzazioni politiche tra il 2011 e il 2014. L’Iran ha fatto in modo che alcuni di questi gruppi sostenessero le forze di sicurezza irachene (ISF) contro lo Stato Islamico. Le milizie con cui l’Iran lavora più a stretto contatto in Iraq includono As’aib Ahl Al Haq (Lega delle Giusti), Kata’ib Hezbollah (Brigate Hezbollah), e l’Organizzazione Badr. L’esercito del Mahdi di Moqtada Al Sadr (rinominato Brigate della pace nel 2014) è stato sostenuto ampiamente dall’Iran durante il periodo 2003-2011, ma ha cercato di prendere le distanze dall’Iran dopo le recenti campagne contro lo Stato Islamico.

L’Arabia Saudita, dall’altro lato, era pessimista su tutta la situazione in Iraq dopo l’invasione americana nel 2003. Per lo più, ogni tentativo saudita per lanciare relazioni con i gruppi sunniti arabi o le fazioni in Iraq avrebbe potuto mettere i sauditi in una posizione discutibile, dato che andavano a sostenere fazioni contrarie agli alleati americani. Per questo, Riyadh ha mantenuto la comunicazione con i Partiti iracheni, arabi e curdi, sunniti e sciiti, tribali e urbani, ma non è riuscita a favorire il tipo di relazioni stabilite dall’Iran.

In altri conflitti regionali i sauditi hanno sviluppato stretti legami con vari partiti, per lo più attraverso aiuti finanziari, sostegno diplomatico e talvolta con aiuti militari diretti, al fine di controllare i conflitti e salvare i propri interessi. Nel caso iracheno Riyadh ha mantenuto la sua passività come gli Stati Uniti richiedevano per impedire il consolidamento dell’influenza iraniana in Iraq. Come l’Iran continuava a consolidare la sua influenza sui gruppi sciiti, l’Arabia Saudita ha avuto un momento difficile nella portare avanti la sua modalità paternalistica di trattare gli alleati della comunità araba sunnita, a causa della loro identificazione con il ceppo salafita del jihadismo che aveva preso di mira il regime saudita. Tuttavia, quando il movimento di Al-Sahwa (Risveglio) è apparso nel 2006, l’Arabia Saudita ha finalmente trovato un alleato iracheno ostile all’intervento iraniano. Pertanto, in collaborazione con gli Stati Uniti, Riyadh ha sostenuto il movimento al-Sahwa.

Inoltre, per affrontare il peso demografico della maggioranza sciita alle elezioni, Riyadh ha sostenuto il candidato Iyad Allawi, leader del Partito Iraqiya, che era stato Primo Ministro del Governo di transizione iracheno durante il biennio 2004-2005. Anche se Allawi era sciita, il suo Partito era stato costruito basandosi su una coalizione trasversale multietnica che si basava sul nazionalismo iracheno. Il Partito non ha avuto dei risultati positivi nelle elezioni del 2005, ma il malcontento pubblico verso il Primo Ministro Nuri al-Maliki ha aiutato Allawi a vincere le elezioni parlamentari del 2010. I sauditi lo hanno sostenuto finanziariamente e attraverso i media. Il Partito ha ottenuto una pluralità di seggi. Tuttavia, con il sostegno iraniano, Maliki è stato in grado di tenere insieme i Partiti sciiti e conservare la premiership. Di conseguenza, l’influenza saudita è stata ridotta a un mero simbolo. L’Arabia Saudita ha rifiutato di ricevere al Maliki a Riyadh per le visite ufficiali di inviare un ambasciatore a Baghdad.

L’Iran ha cercato di influenzare il risultato delle elezioni parlamentari irachene nel 2005 e nel 2010, e le elezioni provinciali del 2009, con il finanziamento e la consulenza dei suoi candidati preferiti. Dopo le elezioni del 2010 ha stabilito una strategia politica post-elettorale centrata sulla prevenzione della nascita di un Governo da parte di Allawi. A tal fine, tutte le principali liste sciite sono state invitate a Teheran per incontri, dove la SLA e l’INA sono stati incoraggiati a formare una coalizione, che avrebbe portato alla formazione dell’Alleanza Nazionale (NA) nel maggio del 2010. Per molti osservatori, l’Iran sta perdendo l’Iraq a favore degli Stati Uniti o di un Governo appoggiato dai sauditi, il che significherebbe una battuta d’arresto per la sua ricerca di influenza regionale e potrebbe costituire una grave minaccia per la sicurezza dei suoi confini.

A seguito della partenza nel 2014 di Nouri Al Maliki, l’Arabia Saudita ha accolto con favore l’arrivo del nuovo premier iracheno Haider Al Abadi. Allo stesso modo, l’Iran ha cessato di sostenere il suo ex alleato al Maliki appena si è reso conto della portata di entrambe le opposizioni nazionali e internazionali quando Mosul è caduto in mano allo Stato Islamico. L’Iran ha avuto un altro punto di vantaggio nei confronti dell’Iraq nel 2014 quando Obama ha rifiutato in un primo momento di aiutare l’Iraq contro l’ISIS, che ha iniziato una marcia verso Baghdad a giugno. In quel momento critico, nessun Paese si è offerto di aiutare il governo iracheno, se non l’Iran. Teheran ha inviato consulenti e armi che hanno permesso all’Iraq di respirare e di evitare la caduta di Baghdad. Nell’offensiva su Tikrit, sono stati mobilitati 20.000 miliziani sciiti. Paradossalmente, l’ascesa dello Stato Islamico ha rafforzato l’influenza iraniana. La brutalità e la spietatezza dello Stato Islamico hanno permesso ai consiglieri iraniani di gestire efficacemente le milizie sciite in Iraq e in una certa misura l’esercito iracheno, e costretto gli Stati Uniti ad usare la loro potenza aerea in tandem con le forze di terra guidate dall’Iran.

La competizione tra l’Iran e l’Arabia Saudita ha coinvolto anche il Libano, dove entrambi hanno intensificato le divisioni tra le fazioni politiche libanesi. Questa divisione risale all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri il 14 febbraio 2005, che ha portato all’emergere di un campo di battaglia politico tra i pro-Iran e Assad, “Alleanza 8 marzo” e il pro-Golfo e Arabia Saudita “Alleanza 14 marzo”.

Da un lato, l’Alleanza 8 marzo si è formata dopo le elezioni dell’8 marzo, quando migliaia di sostenitori pro-Siria e pro-Hezbollah hanno protestato per le dimissioni del Primo Ministro filo siriano Omar Karami. L’alleanza è principalmente una coalizione che comprende il Movimento libero cristiano maronita, il movimento sciita Amal e Hezbollah. Dall’altro, l’Alleanza 14 Marzo, formata anch’essa nel 2005, prende il nome dalle proteste anti-siriane che hanno avuto luogo il 14 Marzo 2005 segnando il mese di commemorazione dall’assassinio di Rafiq Hariri. Guidati dal sunnita Movimento del Futuro di Saad Hariri, il Alleanza 14 marzo è una coalizione politica di Partiti uniti dalla loro presa di posizione anti-siriana, anti-iraniana e dalla opposizione all’Alleanza 8 marzo. Guidata anche da Michel Moawad, figlio del Presidente René Moawad e leader del movimento per l’indipendenza, così come dai membri delle Forze cristiane libanesi e da altre figure come Amine Gemayel, Presidente del Partito Kataeb ed ex Presidente della Repubblica del Libano. Blanchard osserva come il sistema confessionale abbia prodotto strane alleanze, tra cui la più recente coalizione di Governo che collegava Hezbollah, la milizia sciita e il Partito politico, considerata dagli Stati Uniti una Organizzazione terroristica, insieme ai Partiti di sinistra e alle fazioni cristiane filo-siriane.

La maggior parte dei Partiti libanesi si basa su sette, ma è legata ai propri interessi regionali. Come dimostra la collaborazione tra il Partito sunnita Mustaqbal (il Movimento Futuro) con i sauditi, e la dipendenza dei principali Partiti sciiti, di Amal e Hezbollah dall’Iran. L’Alleanza 14 marzo ha accusato l’Alleanza 8 marzo di essere alle dipendenze dei rispettivi regimi di Iran e Siria. L’Alleanza 8 marzo ha accusato il rivale di essere una coalizione fantoccio guidata dall’amministrazione americana e finanziata dal Governo saudita.

Appoggiando i rivali del suo alleato, il Movimento 14 marzo dominato dai sunniti, l’Iran ritiene che Riyadh stia cercando di vanificare la sua influenza sul Libano. Nel 2005, sembrava che Riyadh avesse inferto a Teheran una battuta d’arresto con il ritiro delle forze siriane dal Libano e la vittoria della coalizione 14 marzo nelle elezioni parlamentari successive. Tuttavia, gli alleati libanesi dell’Arabia Saudita non sono stati in grado di frenare Hezbollah ed entro l’inizio del 2011 l’Alleanza 14 marzo aveva perso la sua maggioranza parlamentare, ed alcuni dei suoi elementi si erano uniti ad Hezbollah e ai suoi alleati per rimuovere Saad al-Hariri dalla premiership.

Hezbollah, il più significativo alleato dell’Iran nella regione, è una forza importante nella politica libanese. I leader iraniani affermano che Hezbollah è una conseguenza della rivoluzione iraniana del 1979, che l’Iran ha sostenuto politicamente, finanziariamente e militarmente dalla sua creazione. Il finanziamento continuo e la fornitura di armi ad Hezbollah sono finalizzati a rafforzare il ruolo sciita nella società libanese, consentendogli di acquisire più potere nell’arena politica libanese. Inoltre, nel 2006 dopo la guerra di Hezbollah contro Israele, l’Iran ha finanziato le attività di ricostruzione in Libano.

Secondo fonti israeliane, l’Iran ha fornito a Hezbollah più di 100.000 razzi e missili, alcuni in grado di raggiungere Tel Aviv dal sud del Libano, così come artiglieria tecnologicamente avanzata, artiglieria con funzionalità anti- nave, anticarro e antiaerea. Dopo la rivoluzione islamica, l’Iran riteneva che sua ideologia si sarebbe diffusa oltre l’Iran, e ha attivamente cercato di esportarla in Libano. Quando l’Iran era ancora in alle prese con la guerra con l’Iraq, nel 1982 inviò 1.500 delle sue Guardie Rivoluzionarie nella valle della Bekaa in Libano. Le Guardie reclutarono e formarono giovani uomini di gruppi sciiti libanesi, tra i quali Amal e Hezbollah, per difendere gli sciiti del Libano contro Israele e proiettare l’influenza iraniana. Attualmente, Hezbollah mantiene un ampio sostegno in tutto il Libano e detiene 14 dei 128 seggi del Parlamento. Hezbollah è diventato il più potente movimento politico in Libano, la cui forza militare è cresciuta in modo significativo, tanto che la sua ala paramilitare è considerata più potente dell’esercito libanese.

Le recenti elezioni legislative in Libano hanno segnato la vittoria di Hezbollah, un segnale molto preoccupante per l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti che considerano il “Partito di Dio” un’organizzazione terroristica.

Dalla primavera araba, Hezbollah ha aiutato l’Iran nel sostenere il Governo siriano durante il conflitto contro l’opposizione, intervenendo apertamente nella guerra civile siriana per conto del governo di Assad. Hezbollah sta combattendo per conto dell’Iran contro l’opposizione e i ribelli sostenuti dall’Arabia Saudita. Il suo coinvolgimento nel conflitto siriano ha intensificato le tensioni tra il Libano e l’Arabia Saudita. Infatti, nei primi mesi del 2016, guidati dall’Arabia Saudita, i Paesi del Golfo hanno formalmente etichettato Hezbollah come un’organizzazione terroristica sollecitando i loro concittadini a lasciare il Libano.

Allo stesso modo, le tensioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran e tra i loro alleati in Libano sono aumentate dall’inizio del conflitto in Siria. Tali tensioni si sono ulteriormente amplificate dopo che il re Salman è salito al trono saudita e ha perseguito una politica estera assertiva. Riyadh ha offerto 4 miliardi di dollari di aiuti alle forze armate libanesi, come parte del suo sforzo per preservare l’influenza nel Paese e provocare Hezbollah, che è stato piuttosto critico verso l’aumento degli investimenti sauditi nell’esercito libanese. Tuttavia, Al-Saud dichiarò di aver annullato la sua fornitura di aiuti, offerti nel tentativo di rafforzare l’esercito e renderlo più adatto ad operare in modo indipendente da Hezbollah. Il regno saudita e i suoi alleati hanno spiegato che la loro decisione aveva lo scopo di eliminare l’influenza di Hezbollah nella politica estera libanese. L’Arabia Saudita sta giocando un gioco particolare in Libano, volendo punire e indebolire Hezbollah e il suo supporter iraniano.

L’intervento russo e iraniano in Siria ha aumentato la rabbia saudita verso Hezbollah. L’obiettivo di Riyadh in Siria è quello di sbarazzarsi dell’Iran, ma Hezbollah ha come obiettivo quello di resistere. Pertanto, la frustrazione con Beirut è cresciuta costantemente nel regno saudita. A peggiorare le cose, il Libano non si è unito a un consenso della Lega Araba che condannava l’Iran per l’attacco all’ambasciata saudita a Teheran all’inizio di gennaio. Per incalzare il Libano, Riyadh ha risposto sospendendo il programma di 3 miliardi di dollari per l’acquisto di armi francesi per l’esercito libanese e annullato il progetto di 1 miliardo di dollari per l’assistenza al servizio di sicurezza interno del Libano. Inoltre, ha inserito Hezbollah e altre organizzazioni ad esso collegate nella lista delle organizzazioni terroristiche. In contrasto, il gruppo 8 marzo ha difeso l’Iran e ha esortato per un appoggiò più forte all’Iran come bilanciamento dell’equilibrio regionale. Gli Stati amici dell’Arabia Saudita riconoscono la forza di Hezbollah in Libano e non hanno il coraggio di sfidarlo direttamente. L’espulsione dell’Iran dal Libano è un obiettivo troppo lontano per la diplomazia saudita e sconfiggere Hezbollah non è così facile.

A questo punto, lo scenario di pressioni saudite in Libano contro Hezbollah sembra irrealistico. L’Alleanza 14 Marzo non sembra avere abbastanza potere per reprimere gli sforzi di Hezbollah e il braccio di ferro Riyadh con il Governo libanese imponendo delle sanzioni economiche potrebbe estendere la crisi presidenziale. La sopravvivenza economica libanese dipende principalmente dal Golfo e una guerra indiretta tra Riyadh e Teheran porterebbe il Paese sull’orlo del caos politico.

Lo scoppio delle rivolte della primavera araba in Siria ha condotto il Paese in una guerra civile che sta coinvolgendo sempre più attori regionali. Le potenze confinanti avrebbero molto da perdere e quindi hanno avviato un patronato sulle parti in conflitto nel quadro della loro più ampia lotta regionale per la supremazia. Questo confronto ha portato l’Iran, l’Iraq, e l’Hezbollah libanese a fianco del regime di Assad, e l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia a supporto dei ribelli.

Con il protrarsi della crisi siriana, una guerra “per procura” ha cominciato ad emergere coinvolgendo attori regionali e internazionali. I sauditi ed i loro alleati hanno cominciato a fornire materiale bellico e sostegno finanziario all’opposizione siriana. Nel frattempo, l’Iran, si è sentito in dovere di dare pieno sostegno al regime di Assad, dato che la crisi in Siria stava offrendo ai suoi rivali regionali una grande possibilità per indebolire il suo potere e la sua influenza nel Medio Oriente.

L’assistenza che è stata fornita al regime siriano da parte dell’Iran includeva petrolio e aiuti finanziari, supporto di intelligence, attrezzature militari e munizioni, armi di piccolo calibro, armi e artiglieria pesante, specialisti tecnici e ufficiali per formare e condurre le forze siriane, e l’invio delle unità della Forza Quds per condurre operazioni di terra.

Un notevole supporto è stato dato alle Brigate Baath, una milizia fedele al partito Baath di Assad. Il comandante del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica Mohammad Ali Jafari ha annunciato che l’Iran sostiene al-Assad finanziariamente, politicamente e diplomaticamente e che le forze speciali Quds dell’esercito sono da tempo presenti in Siria. Nel mese di giugno del 2015, Staffan de Mistura, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Siria, stimava che l’aiuto dell’Iran alla Siria, tra aiuti militari e economici, ammontasse totalmente a circa 6 miliardi di dollari all’anno.

Da parte sua, l’Arabia Saudita ha patrocinato tutti gli insorti utilizzabili per la causa anti-iraniana. L’obiettivo strategico che guidava la politica estera saudita era rovesciare Assad indebolendo, di conseguenza, Iran e Hezbollah. In effetti, Al-Saud mirava a rinforzare alcuni elementi tra i ribelli, in modo che, se e quando Assad fosse caduto, tali elementi avrebbero controllato ciò che rimaneva dello Stato siriano. A tal fine, l’Arabia Saudita non si è focalizzata solo sulla fornitura di assistenza materiale e finanziaria, ma ha cercato di migliorare lo status e le capacità dell’opposizione politica ad Assad, e in particolare della Coalizione Nazionale per la Rivoluzione Siriana e delle forze di opposizione.

Inizialmente, il regno saudita ha patrocinato la frangia meno settaria dei gruppi ribelli, l’Esercito Libero Siriano (FSA), e altri gruppi che hanno mantenuto una certa distanza dai Fratelli Musulmani. Quando il FSA non ha ottenuto i risultati desiderati, i sauditi hanno spostato il loro appoggio a gruppi combattenti salafiti apertamente più settari. I sauditi hanno iniziato a sostenere la formazione del Fronte Islamico nel 2013, ma ancora rifiutando di sostenere Jabhat al-Nusra e l’ISIS, e i gruppi di combattimento sunniti pubblicamente legati ad al-Qaeda. Riyadh ha scommesso su due tipi di ribelli siriani che non sono considerati politicamente radicali e che non avrebbero chiamato alla disobbedienza verso i governanti musulmani. Il primo è un alleato occidentale non islamico e il secondo sono gruppi di orientamento salafita. L’Esercito Libero Siriano rientra nella prima categoria, sotto il Supremo Comando militare guidato dal generale Salim Idris, mentre Ahrar al-Sham e simili gruppi salafiti rientrano nella seconda categoria.

Riyadh vede il conflitto siriano come un’opportunità per frenare l’espansione dell’influenza iraniana nel Medio Oriente. La risposta dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati regionali ha confermato i peggiori timori dell’Iran che l’obiettivo degli Stati del Golfo fosse indebolire la Repubblica Islamica più che cacciare Assad dal potere. Sia l’Arabia Saudita sia l’Iran hanno investito troppo nella guerra in Siria per tornare indietro; ciò ha sempre accecato i due rivali e li ha condotti a errori strategici senza fine, infatti, entrambi sono caduti in un circolo di ambizioni a somma zero. Da un lato, l’Europa e gli Stati Uniti sono allineati al fianco dei ribelli e sono d’accordo sulla necessità di un cambio di leadership in Siria, alimentando le speranze di vittoria, ma offrendo un sostegno materiale modesto. La Russia, d’altra parte, ha fatto del suo meglio per garantire che l’Occidente non apportasse alcun cambiamento al regime siriano.

Anche l’Iran vede il conflitto siriano come un gioco a somma zero, in cui la caduta del regime di Assad potrebbe significare la nascita di un nuovo regime anti-Iran che si appoggia su un ordine politico regionale fondamentalmente ostile verso Teheran. Così, l’Iran non rischia solamente di perdere un alleato importante, ma anche il sostegno a Hezbollah e quindi la sua influenza sul Libano e sulla questione arabo-israeliana. Teheran dovrebbe confrontarsi con la nascita di una mezzaluna sunnita filo-occidentale, che si estende dalla Turchia alla Siria, la Giordania, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Per questi motivi l’Iran non può perdere la sua prima linea di difesa contro gli sforzi combinati dai suoi nemici regionali per isolare e rovesciare la Repubblica Islamica come parte di una strategia a lungo termine. Lo scenario che l’Iran teme di più in Siria è la sostituzione del regime con un altro strettamente alleato al rivale regionale di Teheran, l’Arabia Saudita. Oltre che cercare di conservare il suo potere e l’influenza nel Levante, la strategia iraniana ha anche una componente di difesa. L’opposizione siriana ora ha la capacità di prendere il controllo di aree del confine est dell’Iraq ed aumentare la tensione tra il Governo dominato dagli sciiti a Baghdad e gli insorti sunniti. Pertanto, l’Iran teme davvero che se il regime di Assad fosse deposto lo stesso potrebbe accadere in Iraq.

Il conflitto siriano potrebbe alimentare ulteriormente le ambizioni sunnite in Iraq e portare alla disgregazione del Paese tra sciiti, sunniti e le regioni curde minacciando la sicurezza nazionale iraniana, provocando problemi interni, soprattutto nelle regioni curde e arabe al confine con l’Iran. Pertanto l’Iran ha iniziato ad interpretare ogni opposizione o atto stranieri come una minaccia diretta o indiretta alla sua sopravvivenza, e come parte di una grande strategia o cospirazione per rovesciare la Repubblica Islamica

L’alleanza tra Iran e Siria è di grande importanza geopolitica; chi arriva a controllare il Medio Oriente deve prima prevalere sulla Siria e chi controlla Damasco o ottiene la sua alleanza potrebbe isolare altri Stati arabi e avere un ruolo di leadership nella regione. Teheran si trova ad affrontare una scelta obbligata con due opzioni difficili. La prima è quello di scegliere di rimanere a fianco del suo più prezioso e antico alleato arabo e quindi essere visto come ipocrita e opportunista da parte delle masse del mondo arabo-musulmano. La seconda è quella di essere neutrale e astenersi dal sostenere il regime di Assad, senza alcuna garanzia di avere la fedeltà del nuovo Governo dopo la presa del potere a Damasco. Date le attuali circostanze, l’Iran ha dovuto scegliere la prima opzione. Tuttavia, l’Iran si rende conto che non può durare per sempre. Il suo interesse per un dialogo politico e una possibile soluzione diplomatica è aumentato negli ultimi anni. Teheran ha anche iniziato a costruire una milizia in Siria conosciuta come Al-Jaysh al-Sha’bi, composta da fedelissimi del regime, alauiti, e altri gruppi, al fine di garantire che ogni futuro nuovo regime non sia in grado di controllare l’intera Siria. In caso di perdita del suo alleato siriano, l’Iran vuole fare in modo che l’Arabia Saudita non possa strumentalizzare la Siria contro la Repubblica Islamica nella sfida per il potere regionale.

Nel 2015, i sauditi hanno annunciato la formazione di un’alleanza militare di circa 30 paesi musulmani, tra cui Egitto e Turchia, per combattere il terrorismo internazionale. La coalizione è stata vista dalla Russia e dall’Iran come finalizzata a rafforzare la leadership dell’Arabia Saudita e contrastare i loro sforzi nella regione.

L’Arabia Saudita ha recentemente minacciato di intervenire direttamente in Siria, infatti, un funzionario militare saudita ha annunciato agli inizi di febbraio del 2016: “Il regno è pronto a partecipare a tutte le operazioni di terra che la coalizione potrebbe accettare di svolgere in Siria”.

La rivalità geopolitica tra Iran e Arabia Saudita ha trovato anche un altro conflitto regionale in cui dispiegare la sua distruttività, la guerra civile nello Yemen.

Lo Yemen, il Paese più povero del mondo arabo, che confina con il regno saudita e occupa gran parte della punta sud-occidentale della penisola arabica, è diventato una delle aree in cui gli interessi iraniani sembrano scontrarsi con quelli sauditi. A partire dal loro regionale campo di battaglia in Siria e in Iraq, lo Yemen si è rivelato essere un’altra prima linea fondamentale nella competizione per la supremazia.

Dopo le rivoluzioni gemelle nello Yemen settentrionale e meridionale, e la rivoluzione islamica in Iran, la Repubblica Araba dello Yemen del Nord (YAR) ha mantenuto buoni rapporti con l’Arabia Saudita a causa della loro reciproca opposizione all’Iran. Nello stesso tempo, il PDRY, lo Stato socialista che è succeduto al dominio britannico nel sud è diventato più vicino a Teheran a causa della loro comune opposizione al colonialismo occidentale e al potere delle monarchie del Golfo. Dopo l’unificazione, i rapporti con lo Yemen sono stati stabiliti attraverso la presidenza di Ali Abdullah Saleh, generalmente favorevole a mantenere legami con qualsiasi Stato che potesse servire i suoi interessi, anche se Saleh era più favorevole al vicino saudita.

La vera crisi yemenita è iniziata con la rivoluzione del 2011 che ha messo fine al Governo di Saleh dopo 33 anni di regime. Nel novembre 2011, sotto le pressioni dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti, Saleh è stato costretto a firmare un accordo in cui cedeva l’autorità al Vice Presidente Abed Rabbuh Mansur Hadi. Mansur Hadi ha avuto molte difficoltà nell’unire la litigiosa arena politica del Paese e non è riuscito a sfidare le minacce provenienti sia da Al Qaeda nella penisola arabica sia dai militanti Houthi che stavano conducendo una rivolta nel nord. Infatti, dopo che l’onda della primavera araba ha colpito il Paese, gli Houthi sono aumentati, espandendosi e raggiungendo la capitale yemenita nei primi mesi del 2015. Questo movimento militare e politico ha preso il controllo di Sana’a dopo aver fatto pressioni sul Presidente di transizione Mansour Hadi, il nuovo alleato chiave saudita nello Yemen, affinché si dimettesse. Nato come movimento revivalista per la forma Zaydi dell’Islam sciita, quasi unicamente presente nel nord dello Yemen, gli Houthi si sono trasformati negli ultimi dieci anni in una milizia formidabile. Secondo i diplomatici di Riyadh, Washington e Londra il gruppo è sostenuto da Teheran come parte dei suoi sforzi per espandere la propria rete di alleati in tutta la regione.

Nei mesi successivi, gli Houthi hanno dichiarato di aver preso il controllo del Governo, sciolto il Parlamento e installato un Comitato rivoluzionario guidato da Mohammed Ali al-Houthi. Il Presidente Hadi è fuggito a Aden, dove si è dichiarato unico Presidente legittimo e ha invitato i funzionari governativi fedeli e i membri delle forze armate ad unirsi a lui. Il 27 marzo 2015, Hadi ha lasciato il Paese nel momento in cui le autorità saudite hanno iniziato attacchi aerei sugli Houthi. L’Iran ha un interesse strategico a lungo termine nello Yemen; collocato sulla punta sud-occidentale della penisola del Golfo, lo Yemen è un paese litigioso, mal governato, vicino al confine meridionale dell’Arabia Saudita. Inoltre, gli sciiti in Yemen potrebbero servire a Teheran come base potenzialmente amichevole per operazioni contro l’Arabia Saudita. Giocando la carta Houthi, l’Iran potrebbe anche cercare di fare pressione sui sauditi per le questioni riguardanti l’Iraq e la Siria o promuovere i suoi sforzi per minare il Regno dalla suo confine sud.

Il coinvolgimento dell’Iran nello Yemen non è una novità e risale al regime di Saleh. Mentre in passato, questo coinvolgimento è stato percepito come un fenomeno minore che comportava spedizioni di armi ai ribelli in Yemen, oggi sembra avere una importanza strategica. Dal 2012, le forze di sicurezza degli Stati Uniti hanno aumentato la loro cooperazione con il governo yemenita per bloccare le spedizioni di armi iraniane nello Yemen e nel mese di luglio del 2012, il Ministero degli Interni yemenita ha rivelato la scoperta di un gruppo di spie iraniane con sede a Sana’a e arrestato un ufficiale della Guardia rivoluzionaria iraniana con l’accusa di esserne stato il capo. Inoltre, un tribunale yemenita ha condannato i membri dell’equipaggio di una nave che stava trasportando armi dall’Iran, catturato dalla Guardia Costiera yemenita e dalla US Navy in un’operazione congiunta nel gennaio del 2013 e accusato di collaborare con l’Iran e di contrabbando di armi.

Il coinvolgimento iraniano nello Yemen permette all’Iran di dimostrare la sua forza regionale e la portata della sua influenza militare. Le spedizioni di armi iraniane destinate agli Houthi non sono molto significative rispetto alle armi che già raggiungono lo Yemen, in particolare il nord, ma permettono a Teheran di acquistare influenza nel Paese e sfidare l’egemonia dell’Arabia Saudita nella penisola. L’Iran non supporta soltanto gli Houthi, ma cerca anche di rafforzare la sua influenza su altre fazioni yemenite, tra cui il movimento separatista del sud. Il Governo yemenita afferma che l’Iran ha anche cercato di minare la Conferenza Nazionale per il Dialogo, che aveva lo scopo di creare un consenso nazionale e risolvere la crisi yemenita. Nel 2013, l’ambasciatore iraniano a Sana’a ha incontrato il capo del braccio politico del movimento Houthi per diverse volte al fine di persuadere gli Houthi a ritirarsi dalla Conferenza.

Per i sauditi, il poroso confine meridionale di 1.770 km che condivide con lo Yemen rende la posta in gioco molto alta. L’Arabia Saudita è diventata una facile preda per Teheran da penetrare e manipolare. Per queste ragioni, i sauditi hanno fornito importanti aiuti finanziari e militari al Governo centrale yemenita, e conducono attacchi di terra e aerei contro gli Houthi. Ciò che è accaduto e potrebbe accadere a sud del loro confine è una questione di estrema gravità per la sicurezza nazionale, soprattutto ora che il futuro dello Yemen è in questione. L’instabilità nello Yemen significherebbe dare all’Iran un solido punto d’appoggio nella penisola, una eventualità che i sauditi non possono permettersi, infatti, la possibile vittoria degli Houthi nella creazione di uno Stato sciita filo-iraniano significherebbe un accerchiamento iraniano dell’Arabia Saudita. Tuttavia, gli Houthi non sono legati all’Iran come Hezbollah, e il sostegno finanziario combinato con le operazioni militari dell’Arabia Saudita sono finalizzati a tagliare le forniture iraniane e potrebbero mitigare la minaccia generale.

Le preoccupazioni geopolitiche dell’Arabia Saudita riguardano soprattutto il controllo della costa yemenita e il corridoio marittimo (stretto di Bab al-Mandab) che dà accesso al Mar Rosso. Infatti, il 4% del petrolio globale, in gran parte dell’Arabia Arabia, passa attraverso lo stretto di Bab al-Mandab, quindi i porti lungo lo stretto sono di grande importanza strategica per i sauditi. Anche se non è così importante come lo Stretto di Hormuz, lo stretto di Bab al-Mandab è di vitale importanza per la capacità dell’Arabia Saudita di raggiungere i mercati energetici globali. Per Riyadh, la presa degli Houthi sulla costa occidentale dello Yemen significa dare libero accesso al Mar Rosso all’Iran, un fatto che potrebbe aiutarlo a continuare la fornitura di armi ai suoi alleati locali, mantenere un presenza contigua nei pressi dello stretto di Bab el-Mandeb e ottenere l’accesso al Canale di Suez e al Mediterraneo. I massicci bombardamenti sauditi sullo Yemen sono una prova che l’Arabia Saudita farebbe di tutto per controllare la città di fronte allo stretto di Bab el-Mandeb, lo stretto tra i corsi d’acqua strategicamente più importante del mondo.

Vedendo gli Houthi come principali alleati iraniani, l’Arabia Saudita ha messo in campo tutti i suoi sforzi per isolarli diplomaticamente, strangolarli economicamente e indebolirli militarmente. A loro volta, gli Houthi hanno rifiutato di accettare il Presidente filo-saudita Hadi ed hanno offerto 100.000 dollari per la sua cattura. Gli Houthi sono meno dipendenti da Teheran rispetto ad Hadi ed ai suoi alleati verso Riyadh, ma la situazione del Paese e la loro relativa autonomia li hanno spinti a sollecitare il sostegno finanziario e politico iraniano.

Anche se l’Arabia Saudita ha giustificato l’intervento in nome della sicurezza, è chiaro che la priorità assoluta è creare un equilibrio di potere tra i due campi del conflitto yemenita; gli sciiti Houthi si sono uniti all’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh contro l’Arabia Saudita e le truppe governative. Il conflitto è più di una complicata lotta interna di natura settaria. Le operazioni militari offrono la possibilità al re Salman bin Abdulaziz Al Saud di dimostrare la sua indipendenza dagli Stati Uniti, così come la leadership militare del suo Paese nella regione come complemento alla forza economica. Inoltre, re Salman è salito al trono solo dal gennaio del 2015, ma è vecchio e debole; ciò rende i suoi figli e nipoti più desiderosi di utilizzare il conflitto in Yemen per posizionarsi in vista del prossimo passaggio generazionale nella casa reale saudita.

In conclusione di questo articolo, è importante soffermarsi anche sugli effetti dell’accordo di Camp David firmato dall’Iran e da cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dalla Germania (P5+1) sul programma nucleare iraniano. L’accordo è stato una svolta per Teheran che ha accettato di sospendere il suo programma nucleare in cambio della fine delle limitazioni al petrolio iraniano, delle sanzioni economiche e dell’embargo sulle armi. L’accordo ha aperto la strada per investimenti esteri diretti e permetterà all’Iran di partecipare all’economia globale. Allo stesso modo, l’accordo aumenterà il commercio del Paese e il PIL, reintegrerà l’Iran nei mercati globali, e aprirà alla cooperazione con altri Stati nel sistema internazionale. L’Iran probabilmente utilizzerà questa nuova forza economica e l’accesso alle armi per sostenere i suoi alleati ed estendere la sua influenza regionale.

Senza sforzi da parte degli Stati Uniti, che sotto la Presidenza Trump hanno deciso di recedere dall’accordo, e della comunità internazionale per ridurre le tensioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran, si approfondirà la loro lotta di potere. Anche se la minaccia di un Iran in possesso di un un’arma nucleare è stata ridotta, l’Arabia Saudita si sente sempre più intimorita da un Iran che utilizzerà probabilmente la sua nuova forza economica per diventare la nuova potenza egemone regionale. Infatti, numerose delegazioni europee di alto livello hanno visitato l’Iran dopo che il Joint Comprehensive Plan of Action è stato perfezionato, la maggior parte delle quali comprendeva dirigenti aziendali che cercavano di riprendere i rapporti commerciali con Teheran.

Nonostante gli effetti delle sanzioni, l’Iran è ancora la diciottesima più grande economia del mondo, ha grandi riserve di petrolio e gas, inoltre, è il più grande produttore di auto in Medio Oriente, e la maggior parte dei suoi 80 milioni di cittadini è istruita. Questi fattori rendono attraente Teheran per gli investimenti esteri; infatti, nonostante la decisione del Presidente Trump di recedere dall’accordo, l’Unione Europea si è schierata per il suo mantenimento.

La decisione del Presidente statunitense dovrebbe in parte diminuire i timori che avevano colto l’Arabia Saudita di un Iran nuovo alleato strategico degli Stati Uniti in una regione fortemente compromessa dalla violenza settaria.

La rivalità geopolitica a somma zero tra Arabia Saudita e Iran non potrà che causare una ulteriore destabilizzazione del già fragile equilibrio mediorientale.

 

 

 

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