Editoriali

Il Sì di Khartum

L’accordo con il Sudan per una normalizzazione con Israele, ulteriore tassello posto dall’Amministrazione Trump, dopo quello con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, per avvicinare allo Stato ebraico un gruppo rilevante di paesi islamici, richiede, al momento, la cautela di rito.

Si tratta di un preambolo, di un primo avvicinamento, che dovrà essere ratificato, e che per ora registra proficuamente un’intesa virtuale. Nonostante ciò, se la nave andrà in porto, si tratterà di una tappa più significativamente importante di quella che ha portato agli Accordi di Abramo. In questo caso sarebbe, diversamente da quelli che lo hanno preceduto, un accordo di pace vero e proprio.

Il Sudan è stato per decenni un simbolo dell’ostilità islamica nei confronti di Israele. E’ a Khartum che nel 1967, dopo la vittoria di Israele nella Guerra dei sei giorni, vennero pronunciati durante il summit della Lega araba che vi si tenne, i tre famosi no di rigetto, “No a una pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no ai negoziati”. Mentre gli Emirati e il Bahrein non sono mai stati in guerra con Israele, il Sudan è stato un nemico dichiarato fin dal 1948, quando, nel corso della Guerra di indipendenza del 1948-1949, inviò a combattere sei dei propri contingenti a fianco delle armate egiziane. Ancora nel 2016 il Sudan era un saldo alleato dell’Iran, aiutando il regime a importare razzi e altre armi a Gaza per sostenere Hamas.

Se l’accordo, nonostante la presa di posizione di aperto contrasto da parte di Sadiq al-Mahdi, ex primo ministro e oggi leader del National Umma Party sudanese, verrà ufficialmente formalizzato dall’attuale governo in carica presieduto da Abdalla Hamdock, Israele potrà segnare a suo pro un passo storico, mentre, per una sempre più insignificante Autorità Palestinese, sarà l’ennesimo schiaffo in faccia.

La normalizzazione in fieri ha come clausola chiave la rimozione, da parte degli Stati  Uniti, del Sudan dalla lista degli Stati terroristi, consentendogli di potere usufruire dei prestiti internazionali necessari a rinvigorire una economia agli stenti. Si tratta di un do ut des ben chiaro, fondato sulla realpolitik negoziale più robusta tanto cara a Trump e la cui morale è, in questo caso, che l’economia vale più dell’ideologia.

E’ un incontestabile successo diplomatico da parte americana a soli dieci giorni dalle elezioni. Che venga riconfermato Trump o sia eletto Joe Biden al suo posto, l’accordo in corso, non perderà la sua efficacia.

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