«È il Paese – disse Federico Zeri dell’Italia – che ha fatto morire Morselli suicida per non aver pubblicato nessun libro e che si era dimenticato in un cassetto il manoscritto del Gattopardo».
Tra le cose che il nostro Paese ha smarrito in fondo ai tiretti della sua cultura, ci sono senza dubbio i libri di Sion Segre Amar. Quanti conoscono la biografia dell’autore in questione, con una certa malizia, potrebbero dire che questa «trascuratezza» non è del tutto casuale, ma trova un senso nella totale estraneità di Segre Amar dalle consorterie letterarie. C’è, però, un’altra ragione per spiegare lo strano oblio in cui sono precipitati i libri di questo scrittore anomalo e umanissimo, ossia la loro originalità e inclassificabilità, due qualità imperdonabili in un mondo che ama le etichette per meglio canonizzare ed escludere.
Il libro più eccentrico e inquietante di Sion Segre Amar è, senza dubbio, Il logogrifo, un racconto fumoso e surreale che ha per tema una grande passione del suo autore, ossia quella per i codici miniati, i giochi linguistici e, più in generale, per le lettere, sempre intrise di storia, di senso, di materia umana e di presenza di Dio. Proprio come insegna la tradizione ebraica.
L’io narrante del testo, dopo aver seppellito il padre, uno sfuggente copista, decide di tornare sui suoi passi e recuperare una misteriosa pergamena, contenente un frammento della Bibbia, che aveva sotterrato accanto a lui. Si tratta del «logogrifo» che dà titolo al libro, un rompicapo che consiste nel formare da una parola madre altre parole costituite da un minor numero di lettere. Tormentato dal curioso enigma, che assume significati mistici, in preda a uno scombussolamento religioso e carnale, il protagonista si abbandona all’eremitaggio in compagnia di una fanciulla.
In seguito ad alcune boccaccesche vicende, dalle quali emerge tutta l’ironia dell’autore, il narratore, che dorme all’addiaccio presso solitari e antichi cimiteri, s’imbatte in «segni e parole che qui mi apparivano più vivi, benché incisi su pietre sepolcrali». Riscopre così la calligrafia dell’antichità classica: «Per i segni grafici degli antichi poeti e scrittori, dei filosofi e dei saggi, che non avrebbero scritto le loro opere mirabili se non avessero avuto a disposizione uno strumento di sì pura bellezza come quell’alfabeto».
Assistito dalla sua arte e dal suo sapere, dopo un romitaggio per boschi e città, il protagonista diventa scriba e miniatore di corte, al punto tale da essere chiamato «fratello» dal duca. Dopo aver cavalcato in compagnia del sovrano presso una città fantasma («I resti di una città morta, con ampie vie lastricate, canalizzazioni, colonne e capitelli di porfido, rovine di mura e palazzi, su cui prosperavano in festoso rigoglìo giardini fioriti di capperi e fiordalisi»), dove avviene l’incontro con una irreale e bellissima donna, il nostro scriba sarà imprigionato, per lunghi anni, senza motivo.
Gli anni di prigionia, autenticamente kafkiani, nel senso più nobile e sincero dell’aggettivo, costituiscono una parte centrale della vicenda. Il narratore, tra sogni e lambiccamenti, deliri e allucinazioni, ha modo di approfondire la sua arte e di meditare a fondo sulle parole e sull’impenetrabile logogrifo. «Il libro – riflette il carcerato – dà un godimento ben più profondo; ci parla, ci consiglia. È un amico segreto che da ogni luogo della terra tutte le età ci inviano […] Il libro è anche simbolo di giovinezza. Non invecchia, e sempre si rinnova». Vivide e acute, le pagine relative alla prigionia risentono dei mesi che Segre Amar trascorse in cella durante il regime fascista a causa delle sue attività di oppositore.
Ritrovata la libertà, ottenuta grazie a «una scala che, appoggiata a terra, sembrava toccare con la cima la volta del cielo», il narratore riprende le sue peregrinazioni e la sua attività di copista. Seguono incontri con cristiani, ebrei («Entrammo in un grande stanzone disadorno, con banchi di legno, e sedie sgangherate. Sul fondo, un armadio, davanti al quale pendeva una lampada ad olio che spandeva una fioca luce») e un selvaggio baccanale.
I fatti si susseguono immersi in un’atmosfera irreale, intessuti di riferimenti alla mistica ebraica, a Sant’Agostino, a Dante e al primo umanesimo. Assistiamo all’emergere della stampa a caratteri mobili, alla quale si oppone l’ormai anziano miniatore: «Credi tu, dissi io a questo punto, che una macchina possa fare ciò di cui il tuo cervello è capace? Quando scrivi, tu ripeti il miracolo della creazione facendo uscire le parole dal nulla così come il mondo uscì dal caos quando la prima parola fu pronunciata. Questo miracolo si ripete ogni volta che prendi in mano una penna, qualunque sia il testo che trascrivi».
Tutto il libro, compresa la risoluzione del misterioso logogrifo, è un’apologia della parola scritta a mano, che rende ogni lettera unica come ogni creatura del Creatore. Per questa ragione è necessario accostarsi ai libri con devozione e rispetto: «Aprire un libro, infatti, non è spalancare per vano diletto la porta di una stanza riccamente affrescata; ma entrare in punta di piedi in un santuario, in una nuda basilica antica, ad ascoltare la voce del tempo. LIBER, LIBERTAS: Cosa è dunque il libro, se non l’anticamera della libertà?». Ancora il protagonista: «Il nostro libro è un essere vivente, che nasce vive e muore, con le sue malattie, le sue sofferenze e le sue gioie, delle quali noi siamo partecipi, nel bene e nel male».
Il libro termina con le lettere della dissepolta pergamena che vanno in fiamme: «si infiammavano, le sottili membrane si accartocciavano, fondevano, si incenerivano, salendo poi in fiocchetti minuti verso il cielo […] Solo i calchi delle lettere si salvarono, e fluttuarono a lungo nell’aria sopra di me». Lettere infuocate, dunque, come quelle con cui Dio scrisse la Torah.
«In principio erat verbum» non è una fulminea intuizione di Giovanni l’evangelista, ma una verità espressa già nella Torah. È con la Parola, con il Dire di Dio, che il mondo ha avuto inizio.