L’affermazione di papa Francesco, contenuta nel suo libro di prossima uscita, secondo cui, con riferimento alla guerra ancora in corso a Gaza, occorra indagare per appurare se non è in corso un genocidio, non è certo estemporanea, ma si inserisce nel solco di sue dichiarazioni precedenti, e di un quadro generale di affermazioni e prese di posizione di membri autorevoli del clero cattolico le quali compongono un mosaico composto da stereotipi antigiudaici inquietanti.
Già a settembre il pontefice regnante aveva dichiarato che «La difesa sempre deve essere proporzionata all’attacco. Quando c’è qualcosa di sproporzionato, si fa vedere una tendenza dominatrice che va oltre la moralità», a cui, come chiosa, aveva aggiunto, «La guerra è immorale ma le regole di guerra indicano una moralità…quando questo non c’è si vede, diciamo in Argentina, il cattivo sangue».
“Tendenza dominatrice”, “cattivo sangue”, sono accostamenti assai infelici, soprattutto quando si commenta una guerra combattuta dagli ebrei, e riportano alla memoria il celebre pistolotto sapidamente antisemita che Charles De Gaulle ebbe a pronunciare indispettito a seguito della guerra dei Sei Giorni, quando defini gli israeliani “un popolo di elite, sicuro di se stesso e dominatore”, suscitando la reazione sdegnata di Raymond Aron.
D’altronde non c’è da meravigliarsi e c’è solo l’imbarazzo della scelta tra dichiarazioni del medesimo tenore in ambito ecclesiastico, da quelle del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Matteo Zuppi, per il quale Netanyahu fa “il male del suo popolo”, evidentemente sottointendendo che lui sa quale sia il bene, all’ineffabile Monsignor Ravasi che, durante una trasmissione, informò gli ascoltatori di come la reazione di Israele a Gaza fosse iperbolicamente vendicativa, https://www.linformale.eu/wp-admin/post.php?post=13683&action=edit&classic-editor al vescovo di Anversa che, in una lettera tirò in ballo il Dio vendicativo degli ebrei, rispolverando Marcione.
Non è un caso se durante un convegno tenutosi alla Pontificia Università Gregoriana, l’ateneo romano dei gesuiti, in rapporto al già nutrito florilegio di affermazioni di questo tenore, il rabbino capo della Comunità di Roma, Riccardo Di Segni, ebbe a parlare di “teologia regredita” https://www.linformale.eu/la-chiarezza-necessaria/.
Dopo i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, durante i quali il rapporto con l’ebraismo e anche con Israele, nonostante difficoltà e inciampi, segnarono concordanze rilevanti, e soprattutto con Joseph Ratzinger giunsero ad alte vette di approfondimento teologico, con quello in corso non si può non rilevare una ostilità preconcetta nei confronti di Israele, pregna di un armamentario lessicale che riporta la Chiesa su posizioni preconciliari, e questo in seno a un pontificato che si autointerpreta e viene percepito come progressista.
Ed è forse questa una cifra per capire certe uscite, dato comunque per scontato che il Vaticano non ha mai realmente accettato fino in fondo la nascita di uno Stato ebraico, con il quale instaurò le sue relazioni diplomaiche solo quarantacinque anni dopo la sua nascita.
La voce del progressismo dice da decenni che in Medio Oriente le vere vittime non sono gli israeliani ma gli arabi, poi diventati palestinesi, e che a essi in primis va mostrata simpatia, quando non solidarietà incondizionata.
Al di là della retorica e della demagogia, a chi siano rivolte le simpatie del papa attuale e dei più vocianti esponenti della Chiesa appare sempre maggiormente chiaro.
Purtroppo, in un’epoca in cui secondo tutti gli indici statistici, l’antisemitismo è potentemente riaffiorato insieme alla tipica accusa antisemita, che esso è colpa degli ebrei, ovvero degli israeliani, da un papa ci si aspetterebbe maggiore sorveglianza sulle parole pronunciate. Si tratta forse chiedere troppo a chi ha mostrato più di una volta una spiccata propensione nel parlare a ruota libera.