Il significato del processo per Israele
Una sera di maggio del 1960, Adolf Eichmann, o Ricardo Klement come era conosciuto in Argentina, mentre rientrava a casa dal lavoro fu catturato da agenti dei servizi segreti israeliani; nove giorni dopo era trasportato in Israele per essere giudicato per i crimini di guerra commessi durante la Seconda Guerra mondiale. L’Obersturmbannführer delle SS Adolf Eichmann era stato a capo del Dipartimento per gli affari ebraici della Gestapo dal 1941 al 1945. Era responsabile degli aspetti pratici della deportazione degli ebrei europei dalle loro case ai campi di sterminio, partecipando, per esempio, alla pianificazione dei treni che conducevano i deportati ai campi. Già nel 1935 Eichmann stava cercando possibili soluzioni alla questione ebraica, sostenendo l’emigrazione forzata degli ebrei. Seguì questo progetto fino al 1939, quando divenne il direttore della sezione IV B4, affari ebraici e evacuazione, con il compito di pianificare le deportazioni.
Più di due decenni dopo, iniziò il suo processo. L’11 aprile 1961, dopo una lunga serie di interrogatori, Eichmann fu imputato di quindici accuse penali, inclusi i crimini contro l’umanità, contro il popolo ebraico e crimini di guerra. Nel caso di Adolf Eichmann, la base normativa che regolò il suo processo fu una legge dello Stato di Israele del 1950. I quindici capi di imputazione che furono contestati all’imputato, suddivisi in “delitti contro il popolo ebraico” e “delitti contro l’umanità”, possono farsi comunque rientrare tutti nella questione dello sterminio, della “soluzione finale” e, in definitiva, la prima categoria non era che una specificazione della seconda nel cui genere rientrava.
Tre giudici presiedettero il processo, mentre l’accusa fu sostenuta dal procuratore generale di Israele Gideon Hausner. Il procedimento giudiziario si tenne nel teatro Beit Ha’am, nel centro di Gerusalemme, ristrutturato proprio per ospitare il processo. Il processo durò fino al 14 agosto, il 15 dicembre i giudici emisero il loro verdetto di colpevolezza. Eichmann fu condannato a morte e giustiziato nel carcere di Ramleh il 31 maggio 1962.
L’interesse del pubblico e la copertura mediatica fu enorme. Inoltre, aveva una grande funzione simbolica, dato che era la prima volta che Israele metteva sotto processo un criminale nazista.
La notizia dell’arresto di Eichmann rese orgoglioso Israele, ma allo stesso tempo lo costrinse a confrontarsi con i ricordi e le esperienze dolorose dei sopravvissuti, che costituivano un quarto della popolazione.
Il processo rappresentò per lo Stato ebraico l’opportunità di riesaminare la propria comprensione dell’Olocausto. Per Ben Gurion[1] la punizione di Eichmann non era il punto nevralgico del processo, bensì esso ebbe la funzione di ricordare agli altri Paesi che l’Olocausto li obbligava a sostenere l’unico Stato ebraico esistente sulla terra. Nel ribadire i crimini commessi durante la Shoah, il Primo Ministro israeliano sottolineava le responsabilità delle potenze occidentali per non aver fatto di più per salvare gli ebrei europei.
Ancora più importante, secondo Ben Gurion, era il fatto che il processo aveva offerto la possibilità di impartire la lezione fondamentale dell’Olocausto alle giovani generazioni di israeliani, per i quali tale periodo storico era stato come rimosso.
Non vi è alcun dubbio che prima del processo Eichmann i ricordi e la lezione della Shoah non fossero stati profondamente interiorizzati dall’opinione pubblica israeliana, infatti, gli israeliani trovavano difficoltà nel comprendere come sei milioni di ebrei fossero stati assassinati senza opporre resistenza.
Mentre gli israeliani si consideravano l’opposto degli ebrei passivi della Diaspora, gli ebrei vittime dell’Olocausto venivano a rappresentare i tratti peggiori degli ebrei esiliati, poiché si erano semplicemente lasciati condurre al massacro dai nazisti come pecore al macello. Incapace di simpatizzare e comprendere l’effetto della Shoah sui superstiti, certi strati dell’opinione pubblica israeliana avevano preferito che i sopravvissuti tacessero i loro ricordi, concentrandosi sul futuro piuttosto che sul passato. In Israele, il sopravvissuto divenne una figura eccentrica, senza parole, muta, che viveva ai margini della società e spesso al limite della follia. Secondo il Ministro Yossi Beilin, gli israeliani associavano i sopravvissuti dell’Olocausto a persone tristi con i numeri sulle braccia e a folli che vagavano in giro con gli occhi sbarrati.
Questa classificazione dei sopravvissuti come emarginati fu interrotta quando il procuratore capo Hausner li chiamò a testimoniare durante il processo, in cui deposero più di 100 superstiti. Le testimonianze furono trasmesse in tutto Israele attraverso la radio, che riportò in ogni casa ciascun dettaglio dei crimini nazisti e il dolore dei superstiti. Per la prima volta, i sopravvissuti furono invitati a condividere le loro esperienze con l’opinione pubblica israeliana, che fu costretta a cambiare la propria posizione sulla passività delle vittime. Scrivendo sul processo, il poeta e romanziere israeliano Haim Gouri affermò, riferendosi alla generazione di israeliani sconcertata dalle esperienze dei superstiti: “Dobbiamo chiedere perdono a coloro che abbiamo giudicato così duramente […] senza chiedere a noi stessi quale diritto avevamo per farlo”[2].
Attraverso il processo nacque nella società israeliana un nuovo rispetto per “l’eroismo dei deboli”, che favorì l’integrazione della Shoah nell’identità nazionale di Israele.
La storia della Shoah acquisì, grazie al processo Eichmann, una dimensione specifica, a se stante, dando ai sopravvissuti il ruolo di resistenti attivi al nazismo anche in un ghetto, come dimostrava la rivolta del ghetto di Varsavia, e in un campo di sterminio, un ruolo molto diverso da quello di vittima passiva.
Cattura e processo di Adolf Eichmann
Gli articoli che i giornalisti de “La Stampa” dedicarono al processo contro Adolf Eichmann concorrono a fornire non soltanto una rappresentazione dei livelli di attenzione che l’opinione pubblica riservò a quel procedimento giudiziario, ma anche una raffigurazione delle modalità con cui una parte degli intellettuali contemporanei trattò il tema della Shoah a sedici anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale.
Il quotidiano torinese dedicò al processo una grande attenzione, seguendo in questo l’orientamento della stampa internazionale, con l’invio di corrispondenti e le analisi e i commenti di importanti collaboratori, tra i quali Carlo Casalegno, Carlo Arturo Jemolo e Francesco Rosso. Queste analisi, più che una trattazione meticolosa delle singole udienze del processo, saranno al centro di questo capitolo, poiché da esse sarà possibile acquisire una maggiore comprensione delle modalità adottate da un grande giornale indipendente per trattare il tema della Shoah.
La mancanza di ogni riferimento alle Leggi razziali del 1938 e al ruolo che svolsero gli italiani nella persecuzione e nello sterminio nelle pagine del quotidiano durante il processo dimostra come l’introduzione del tema della memoria delle persecuzioni degli ebrei italiani nel discorso pubblico incontrasse ancora grandi difficoltà[3].
La notizia dell’arresto[4] di Adolf Eichmann fu pubblicata nelle pagine interne del giornale; l’articolo, che si rifaceva all’annuncio del Primo Ministro David Ben Gurion, riferiva che il criminale di guerra Eichmann, responsabile della morte di sei milioni di ebrei, si trovava in stato di arresto in Israele e sarebbe stato processato per direttissima. Si ripercorreva brevemente il passato di Eichmann, scomparso dopo la caduta del Terzo Reich. Nei giorni successivi, erano fornite ulteriori informazioni sulla cattura del gerarca nazista; infatti, era trapelata la notizia che fosse stato catturato da agenti dell’intelligence israeliana in Argentina e successivamente trasportato in Israele[5].
L’arresto di Eichmann in territorio argentino da parte di agenti israeliani apriva tra Israele e Argentina un controversia diplomatica che avrebbe coinvolto anche le Nazioni Unite[6]. L’Argentina chiedeva la restituzione di Eichmann, le scuse ufficiali del Primo Ministro israeliano e il riconoscimento della violazione della sovranità nazionale.
“La Stampa” dedicò al contenzioso diplomatico tre articoli in prima pagina. Nel primo[7], si chiariva che Ben Gurion stava preparando la risposta alla nota con cui l’Argentina aveva chiesto la restituzione di Eichmann, tuttavia, sebbene il Governo israeliano non avesse rilasciato dichiarazioni, negli ambienti vicini al Ministero degli Esteri si dava per certo che la nota sarebbe stata respinta. L’articolo riportava anche alcuni commenti di giornali israeliani, apertamente polemici e critici delle richieste del Paese sud-americano; ci si domandava perché l’opera di giustizia nei confronti del “massacratore nazista responsabile dell’eccidio di sei milioni di ebrei” dovesse essere ostacolata da cavilli formali come quelli avanzati dal Governo argentino. Secondo il giornale “Maariv” era impensabile che Israele potesse richiedere l’estradizione di Eichmann una volta che questi fosse ritornato in Argentina, poiché non esisteva tra i due Stati un accordo di estradizione, inoltre una decisione dell’ONU del 1947 stabiliva che l’estradizione fosse possibile soltanto verso quei Paesi in cui era stato commesso il crimine. Il giornale israeliano sosteneva che il Governo dovesse respingere la tesi secondo cui Eichmann era stato rapito, dato che esisteva una dichiarazione dello stesso che affermava di essere venuto a Tel Aviv di sua volontà. In effetti, Eichmann redasse, subito dopo l’arresto, una nota in cui acconsentiva ad essere processato in Israele per “tramandare un quadro vero degli eventi alle generazioni future”[8]. Il ricorso all’ONU era impossibile, in quanto l’arresto di Eichmann non aveva turbato la pace mondiale, un argomento non sostenibile, poteva essere una considerazione in più, come per dire: “siete voi argentini che vi preoccupate tanto di un criminale nazista”.
Nei giorni successivi, il corrispondente Antonio Barolini[9] riferiva che l’Argentina aveva ottenuto che il caso fosse esaminato dall’ONU[10]. L’articolo riportava in parte il documento che il delegato argentino presso le Nazioni Unite, Mario Amadeo, aveva presentato al Consiglio di Sicurezza: “l’arresto di Adolf Eichmann, avvenuto in suolo argentino ad opera di un gruppo israelitico che agisce sotto la denominazione di “comitati volontari”, è chiara violazione della Legge internazionale e della Carta delle Nazioni Unite. Ha inoltre creato un’atmosfera d’incertezza e, tra le nazioni, una perdita di fiducia, incompatibile con la tutela e il rispetto della pace internazionale”. L’incontro tra il delegato argentino e il Ministro degli Esteri Golda Meir non aveva sortito alcun effetto, poiché entrambi erano rimasti sulle loro posizioni. Il giornalista riferiva anche di alcune proposte avanzate per superare la condizione di stasi; la prima prevedeva la consegna temporanea di Eichmann all’ambasciata argentina di Tel Aviv, in attesa che un organo delle Nazioni Unite stabilisse quale Corte internazionale di giustizia dovesse giudicarlo, mentre la seconda ipotizzava una riconvocazione di una Corte internazionale simile a quella di Norimberga. La prima ipotesi era insostenibile, dato che il compito della Corte era dirimere controversie tra Stati e non casi individuali, era, in effetti, una controversia tra Stati. In ogni modo, la richiesta dell’Argentina di una convocazione del Consiglio di Sicurezza aveva sgombrato il campo da queste ipotesi, riportando il caso nell’ambito del diritto internazionale e dei rapporti stabiliti dalla Carta delle Nazioni.
In conclusione, Barolini scriveva che la questione aveva un duplice aspetto, uno umano e uno giuridico. Giuridicamente, Israele aveva violato la sovranità nazionale dell’Argentina; umanamente, lo Stato ebraico aveva posto in evidenza l’esigenza di “dar corso ad un atto di riparazione, che finora gli era stato negato dai cavilli della burocrazia”. In realtà non erano cavilli della burocrazia, ma complicità dei governi argentini con i criminali nazisti[11]. Barolini si augurava che la sentenza, pur riconoscendo all’Argentina l’esattezza della sua posizione, interpretasse “la legge internazionale non tanto sul piano strettamente letterale e nudo degli avvenimenti, quanto nello spirito di libertà e di civiltà invocato dal mondo moderno”.
Prima della deliberazione del Consiglio di Sicurezza, il quotidiano pubblicò un articolo di Eric Rouleau, tratto da “Le Monde”, che conteneva un’intervista[12] al Primo Ministro israeliano Ben Gurion. Intervistato dopo aver passato alcuni giorni nella villa dell’ex ambasciatore francese a Tel Aviv, il Primo Ministro aveva accettato di chiarire per i lettori alcuni aspetti del contenzioso tra Israele e Argentina: “la tragedia ebraica sotto l’hitlerismo […] hanno voluto sterminarci fino all’ultimo neonato. Ora, a Norimberga furono i procuratori americani, inglesi e francesi a pronunciare le requisitorie ed i rappresentanti del popolo ebraico non furono che i testimoni passivi. Nessun castigo potrà mai essere nella misura dei crimini di Eichmann, ma egli ci servirà per fare tutta la luce sul famoso piano di Hitler di risolvere il problema ebraico con il genocidio”.
Rouleau faceva presente che alcuni giuristi contestavano il diritto di Israele di giudicare Eichmann. Ben Gurion rispondeva che “quali che siano le proteste e i sofismi di questi pretesi esperti, che danno prova di un formalismo disumano, Eichmann sarà giudicato in Israele da un tribunale puramente israeliano secondo la legge israeliana votata nel 1950 appositamente per i boia nazisti. Non abbandoneremo la nostra presa, ma daremo a questo criminale di guerra tutte le garanzie di un processo giusto: potrà farsi difendere da avvocati stranieri, anche tedeschi, purché non siano ex nazisti; l’istruttoria sarà condotta minuziosamente e probabilmente non sarà terminata prima del prossimo dicembre. Il processo vero e proprio, che durerà parecchi mesi, sarà pubblico”.
Ben Gurion appariva turbato dalla denuncia presentata dall’Argentina, che giudicava completamente senza fondamento e senza giustificazione, infatti, argomentava il Primo Ministro, “Eichmann ha firmato una dichiarazione in regola per affermare che si è recato in Israele di propria volontà. Del resto, il nostro prigioniero non è suddito dell’Argentina dove viveva sotto falso nome; se i dirigenti argentini lo rivendicano, chiederemo loro come mai danno ospitalità ad un ex ufficiale delle SS quando Buenos Aires si era impegnata formalmente, nel 1944, a non dare asilo ai nazisti e ai criminali di guerra. Soltanto la Germania, se mai, avrebbe teoricamente il diritto di chiederci l’estradizione di Eichmann, e non l’ha fatto. […] Gli argentini hanno semplicemente un’idea delle sofferenze che abbiamo subito? Hanno avuto sei milioni di assassinati? Capiscono cosa significhi battersi disperatamente contro un mostro sanguinario e finalmente avere in mano l’uomo che aveva giurato la perdita di un intero popolo? Certamente no; erano neutri nel conflitto che minacciava l’avvenire dell’umanità”. Ben Gurion sperava di incontrare il Presidente argentino Frondizi, affinché prevalesse il buon senso[13].
Fu sempre Antonio Barolini a riferire, pochi giorni dopo, che l’Argentina aveva deciso di rinunciare alla restituzione di Eichmann[14]. Il Consiglio di Sicurezza aveva approvato la risoluzione argentina secondo cui il rapimento di Eichmann era stata una violazione della sovranità nazionale che richiedeva adeguate riparazioni. Il Consiglio di Sicurezza aveva adottato la tesi esposta dal delegato polacco, Bohdan Lewandowski: il contenzioso non poteva essere favorevole né ad Eichmann né a nessun altro criminale di guerra latitante.
Il rappresentante di Buenos Aires, Mario Amadeo, aveva dichiarato di non insistere per la restituzione del criminale nazista, aggiungendo tuttavia che Israele doveva adeguate riparazioni, tra cui era ancora compresa la restituzione di Eichmann, la punizione dei “volontari” che avevano catturato l’ex colonnello delle SS e le scuse da parte del Governo israeliano. Secondo il giornalista, il nuovo atteggiamento del delegato argentino avvalorava le voci secondo le quali Argentina e Israele si erano accordati in modo che Eichmann fosse consegnato all’ambasciata dello Stato sud americano a Tel Aviv, per essere poi riconsegnato alle autorità israeliane per subire un processo in quanto criminale di guerra.
Barolini osservava come il voto del Consiglio di Sicurezza esprimesse un ragionevole compromesso: da un lato, Israele era stata censurata per la violazione della sovranità territoriale di uno Stato sovrano, dall’altro, l’Argentina si era ritenuta soddisfatta delle scuse ufficiali dello Stato ebraico e non aveva chiesto la restituzione di Eichmann. Il Governo di Buenos Aires aveva dato prova di temperanza e comprensione verso un caso molto particolare, che aveva turbato le coscienze di quanti “desideravano il trionfo del diritto internazionale, capace di interpretare, rispettare e tutelare, alcuni fondamentali e incontrovertibili principi di umana giustizia e solidarietà, spaventosamente violati dal nazismo e dai suoi sicari”. Barolini ricordava anche l’intervento del delegato italiano Ortona che aveva portato l’opinione e il contributo dell’Italia “alla composizione di una vertenza che investe due popoli amici del nostro Paese e, soprattutto, come egli ha affermato, “fatti che riflettono un disaccordo di natura politica complicato da alte istanze morali”. Nonostante la delicatezza del caso, le sedute si erano svolte in un clima disteso e vicendevolmente amichevole, anche tra le due controparti.
Nei giorni seguenti, il giornale diede notizia, attraverso un breve articolo, dell’avvenuta composizione del contenzioso tra i due Stati[15].
Nei mesi successivi, il giornale si interessò ancora del caso Eichmann, soffermandosi sulle modalità attraverso le quali il criminale nazista era stato scoperto. I due articoli, uno siglato E.B quindi attribuibile ad Enzo Biagi, pubblicati nelle pagine interne del quotidiano[16], si concentravano sulla figura di Simon Wiesenthal, ingegnere, sopravvissuto ai campi di sterminio in cui aveva perso tutta la sua famiglia. Gli articoli descrivevano l’attività di ricerca del criminale nazista da parte di Wiesenthal, che aveva raccolto un imponente dossier riuscendo a fare passi significativi per arrivare alla cattura di Eichmann, dato che aveva consegnato delle prove fotografiche sul caso due mesi prima che egli fosse effettivamente arrestato. Il ruolo di Simon Wiesenthal nella cattura di Eichmann è stato oggetto di contrastanti opinioni; per esempio, Tom Segev gli attribuisce il merito dell’arresto del criminale nazista nella biografia che gli ha dedicato[17], mentre Deborah Lipstadt ritiene che egli non abbia avuto alcun ruolo[18]. In effetti, lo stesso Wiesenthal dichiarò, in una intervista all’ “Irish Times” del 26 maggio del 1960, di non aver avuto niente a che fare con l’arresto di Eichmann.
La figura di Adolf Eichmann fu al centro di molti contributi da parte dei più importanti collaboratori del quotidiano.
Carlo Casalegno[19]osservava come nella figura di Eichmann “uomo” vi fosse il segreto dei suoi crimini[20]. Un “mediocre, fallito negli studi e nel lavoro; un funzionario pignolo, timoroso con i superiori e brutale con gli inferiori”, che aveva trovato nella persecuzione spietata degli ebrei la vendetta del suo complesso di inferiorità. Casalegno riportava alcuni stralci dell’interrogatorio dell’Haupsturmfuehrer delle SS Wieldceny, durante il processo di Norimberga, che confermavano questa descrizione del criminale nazista. Casalegno ripercorreva brevemente la vita e la carriera di “piccolo borghese, senza solida istruzione, senza abilità e successo negli affari”. Il segreto dei suoi crimini stava forse nella frase pronunciata da Wieldceny, secondo il quale “la sua figura non ha nulla di notevole, è un tipo comune d’uomo che si incontra dovunque in Austria”.
Casalegno osservava come nella persecuzione antisemita questo individuo meschino, inetto negli studi e nel lavoro, avesse cercato “una rivincita atroce del suo complesso d’inferiorità: sui rancori dei piccoli borghesi i fascisti hanno costruito la loro fortuna; nelle schiere amareggiate dei falliti hanno trovato le loro truppe d’assalto. Proprio la miseria morale ha fatto di Eichmann uno fra i più atroci criminali del nazismo”.
Francesco Rosso, corrispondente da Gerusalemme, scriveva un interessante articolo[21] su come era vissuto il processo in Israele. Secondo Rosso il processo contro Eichmann, un grigio contabile che si nascondeva dietro gli ordini ricevuti, sarebbe servito anche all’unità del popolo israeliano, poiché avrebbe fatto comprendere ai giovani, nati e vissuti liberi, che cosa era stato il periodo delle persecuzioni e delle stragi. Un interlocutore del giornalista ammetteva che “questo processo ci ha tolto il sonno. Da nove mesi ci dibattiamo nel dubbio se vale la pena di farlo, l’opinione pubblica del nostro Paese esprime con veemenza pareri contrastanti, giovani e anziani si rimproverano a vicenda per opposti sentimenti, anziché unirci, il processo Eichmann sembra debba dividerci”. Rosso aveva sentito ripetere questi pensieri molte volte, anche se nelle conversazioni la figura di Eichmann non assumeva mai rilievo, come se le persone provassero timore a pronunciare quel nome. Gli israeliani apparivano al corrispondente come persone particolari, che avevano subito persecuzioni e stragi ed adesso dovevano giudicare il loro carnefice, ma la cui condanna a morte li turbava profondamente. Tuttavia, erano pronti a portare a termine il procedimento giudiziario per “provocare emozioni tali che cementino l’unità del Paese”. Molti amici del giornalista affermavano che il processo sarebbe dovuto servire all’umanità intera, così facile all’oblio, ma soprattutto ad Israele, che si presentava come la sola Patria di tutti gli ebrei sparsi nel mondo.
La rievocazione nell’aula del tribunale dei sei milioni di ebrei che Eichmann aveva avviato ai campi di sterminio ed alle camere a gas sarebbe servita per ricordare agli immemori che l’antisemitismo non era finito, ma era ancora vivo, dal Marocco alla Russia, e soprattutto avrebbe fornito ai giovani israeliani una visione più esatta della propria storia. Il giornalista scriveva che i responsabili della politica israeliana avevano istruito il processo proprio per le giovani generazioni, che, cresciute in un clima di totale libertà e indipendenza, non comprendevano perché i loro padri, nonni e zii fossero andati al massacro senza prima uccidere alcune migliaia di nazisti, non conoscevano cosa fosse l’esistenza nei ghetti di Cracovia e di Varsavia. Quando questi giovani sentivano parlare di sei milioni di ebrei sterminati guardavano l’interlocutore con aria quasi ironica, ma, notava il giornalista, “sotto certi aspetti il loro atteggiamento appare comprensibile. La cifra, nella sua immensa mostruosità, finisce per diventare una astrazione anche per chi ha vissuto quel periodo, ancora così prossimo; per chi ne ha sentito solo parlare, quei sei milioni di vittime dietro il filo spinato, nei forni crematori, nelle camere a gas, diventano quasi una favola. Eppure ci sono tutti, uno dietro l’altro, in tragico corteo di ombre che chiedono giustizia”. Le testimonianze dei sopravvissuti al processo avrebbero fatto in modo che la nuova generazione comprendesse che i nonni, i padri e gli zii niente potevano contro il “glabro, occhialuto carnefice, personificazione demoniaca dell’antisemitismo, ed accetteranno come propria anche questa pagina della loro storia”.
La finalità ultima del processo era proprio questa, la stessa figura di Eichmann era funzionale per dare concretezza visiva alle atrocità che lui ed i suoi collaboratori avevano consumato contro l’umanità. Per ironia del destino, a lui “feroce sterminatore di ebrei, toccherà, rievocando la sua orrenda attività antisemita, dare saldezza unitaria alla società israeliana, una conclusione che certo non immaginava”.
Il Governo israeliano non aveva esitato di fronte alle difficoltà che un processo così eclatante per l’opinione pubblica mondiale comportava, tenendo sempre presenti tutte le norme procedurali. Tutte le garanzie per l’imputato erano state rispettate; aveva chiesto ed ottenuto un avvocato tedesco, Robert Servatius, pagato dallo Stato d’Israele. Anche per lo svolgimento del processo le autorità israeliane avevano costruito una organizzazione perfetta; il dibattimento si sarebbe tenuto nella “Casa del Popolo” a Gerusalemme, un edificio che al momento della pubblicazione dell’articolo era ancora in costruzione, in cui squadre di muratori, vetrai, carpentieri ed elettricisti lavoravano alacremente per terminarlo nel più breve tempo possibile.
Nella conclusione dell’articolo, Francesco Rosso si soffermava ancora sulla pena di morte. Gli israeliani apparivano turbati da una simile decisione, l’idea di uccidere un uomo, anche un carnefice come Eichmann, “li mette in uno stato di agitazione continua, si pongono problemi d’ordine morale, li turba il pensiero di trasformarsi da perseguitati in giustizieri”.
Il giornalista ritornava anche alla funzione prettamente “pedagogica” del processo, in cui la figura di Eichmann era “indispensabile per documentare ai giovani israeliani l’orrendo sterminio con la voce del protagonista, fargli accettare la sanguinosa realtà dinanzi alla quale vorrebbero chiudere gli occhi”.
L’atteggiamento della generazione più giovane di israeliani fu al centro di un altro articolo di Francesco Rosso[22]. Il giornalista ammetteva che una sala da ballo non fosse il luogo più appropriato per discutere di un criminale nazista e di sei milioni di vittime, ma non vi era luogo migliore in cui incontrare tanti giovani. Il giornalista si trovava in un locale in cui Moshe, un giovane conducente di taxi, gli aveva promesso di fargli conoscere dei suoi amici, tutti nati in Israele, appartenenti, quindi, a quella giovane generazione di cui i più anziani parlavano con malcelata preoccupazione.
Lo spunto della conversazione era stato offerto da un libro, scritto da due giornalisti israeliani e da un americano, in cui era documentata la sanguinosa attività di Eichmann. Nessuno degli interlocutori del corrispondente aveva ammesso di aver letto il libro. Il giornalista chiedeva anche se alcuni tra loro avessero visitato il piccolo museo di Lohamey Haghetaot, in cui erano custodite alcune delle memorie delle persecuzioni naziste, tra cui delle saponette avvolte in una carta azzurrina o gialla, ricavate dai cadaveri di ebrei uccisi; risposero che vi erano andati anni prima, durante una gita scolastica. “Lei ci giudica egoisti indifferenti- aveva detto uno di loro- ma è fuori strada. Chi ci ha insegnato ad amare i tedeschi? Proprio coloro che oggi vorrebbero farci fremere d’orrore solo a sentirli nominare. Vada a Haifa a vedere le navi tedesche cariche di materiale che arrivano da Amburgo, o quelle israeliane, cariche di materiale per la Germania, dirette ad Amburgo. Vuole incontrare tecnici tedeschi che lavorano a casa nostra come ospiti di riguardo? Vogliono fare il processo ad Eichmann, glielo facciano, ma non ci rintronino con la necessità di ricordare”. Dato il riferimento nell’articolo all’accordo tra Repubblica Federale Tedesca e Israele è opportuno soffermarsi su queste trattative e sulla profonda e aspra discussione che nacque a riguardo nello Stato ebraico.
Nel 1951, 47 Nazioni dichiararono formalmente concluso il loro stato di guerra con la Germania e proprio in tale occasione Israele cominciò a rompere il silenzio. Il Primo Ministro israeliano David Ben Gurion affermò che la Germania doveva ancora rinunciare alle attività intraprese durante il conflitto e non vi era stato nessun “cambiamento nel cuore” pubblico dalla fine della guerra.
Nello stesso anno, piccoli movimenti tedeschi, come “Pace con Israele” di Erich Lüth, avevano iniziato a chiedere la fine del silenzio da parte della Germania. A causa della loro crescente influenza, il Cancelliere Federale Konrad Adenauer, parlando a nome della Germania, riconobbe la necessità di “giungere ad una soluzione del problema dell’indennità materiale, tentando di sanare in questo modo, in parte, la sofferenza causata dallo Stato tedesco”. Con questa dichiarazione, Germania e Israele iniziarono il processo per la guarigione delle ferite e la creazione di un rapporto formale.
Nel marzo del 1951, Israele si era appellato alle quattro grandi Potenze per procedere al recupero dei beni e delle proprietà non soltanto di coloro che erano stati detenuti nei campi di concentramento o erano morti nell’Olocausto, bensì anche dei sopravvissuti emigrati nello Stato ebraico come rifugiati.
Nella lettera si affermava che sebbene non vi potesse essere “nessuna indennità capace di risanare delle vite distrutte […] o pagare per le torture e le sofferenze degli uomini, delle donne e dei bambini, la Germania non poteva essere esonerata dal pagamento delle riparazioni materiali. La Germania potrebbe tentare di iniziare il suo rapporto con lo Stato ebraico attraverso il pagamento dei danni agli eredi delle vittime e una reintegrazione dei sopravvissuti nelle condizioni di un’esistenza normale”[23].
Israele sostenne che i tedeschi erano responsabili di questa situazione, dato che ancora traevano profitto dalle proprietà degli ebrei vivi e morti, di conseguenza avevano l’obbligo di aiutare i sopravvissuti.
Per Ben Gurion si trattava di raggiungere tre obiettivi: normalizzare progressivamente i rapporti con la Germania, superando lacerazioni che permanevano dalla fine del conflitto; identificare Israele, nell’arena internazionale, come lo “Stato degli ebrei”, in quanto tale capace di farne valere le ragioni ma anche i concreti interessi, ovunque essi si trovassero; ottenere l’equivalente in beni dell’importo che sarebbe stato pattuito, fondamentale per le dissestate finanze dello Stato ebraico. A queste considerazioni, solo in parte manifeste, vi fu chi contrappose fermamente il principio che nessuna cifra sarebbe riuscita a compensare una tragedia come la Shoah. Particolarmente tenace fu l’opposizione della destra, guidata da Menachem Begin, che condusse il confronto dal Parlamento alle piazze.
L’economia israeliana era sottoposta ad una pesante inflazione e l’intero Paese era stato soggetto al razionamento del cibo. Da solo Israele non avrebbe potuto mantenere la sua popolazione, per questo il pagamento delle riparazioni da parte della Germania ridusse notevolmente i problemi economici e finanziari del giovane Stato.
Sia l’estrema destra che l’estrema sinistra del panorama politico israeliano si opposero ai negoziati e agli accordi, giudicando il denaro proveniente dalla Germania denaro insanguinato; inoltre considerando “la Germania uno Stato paria nel contesto internazionale, si riteneva che colloqui diretti avrebbero cancellato lo stigma della sua intoccabilità morale”[24].
Menachem Begin, il leader di origine polacca del partito Herut e futuro Primo Ministro, guidò l’opposizione ai negoziati, sostenendo che i colloqui diretti con la Germania erano in effetti peggiori della morte e chiedeva retoricamente agli israeliani di prendere in considerazione quale prezzo erano disposti a ricevere per “il nonno e la nonna”[25].
Mentre il Primo Ministro Ben Gurion si appellava alla Knesset per l’approvazione dei negoziati, 1000 manifestanti armati di pietre attaccarono il Parlamento, scontrandosi con la polizia per oltre due ore.
La posizione vincente fu quella del Premier Ben Gurion, il quale sosteneva, fondatamente, che non vi fosse alcuna relazione tra risarcimento civile e responsabilità politica per quanto era accaduto, bensì si trattava di recuperare una parte di quanto era stato rubato agli ebrei dai nazisti, non di barattare la memoria delle vittime per del denaro.
Per quanto concerneva la Germania, è interessante osservare come essa fosse consapevole che le riparazioni le avrebbero permesso di acquisire una maggiore legittimità internazionale. A questo proposito, è degno di interesse il discorso pronunciato dal Presidente della Germania Occidentale Heinrich Lübke durante una visita al campo di concentramento di Bergen-Belsen, in cui affermava che sebbene “l’onore delle riparazioni non è di per sé sufficiente a sollevare la Nazione dai suoi obblighi”[26], la reputazione della Germania Ovest avrebbe conosciuto un miglioramento significativo con delle riparazioni volontarie. Non meno decisiva per questo approccio tedesco al tema delle riparazioni fu l’attenzione che la Comunità internazionale prestava allo stato di salute del carattere democratico della Germania Occidentale, soprattutto da parte degli Stati Uniti, come si evince dalle dichiarazioni di John McCloy, Alto Commissario americano per la Germania, pronunciate a Heidelberg il 30 luglio del 1949: “il modo in cui i tedeschi si comporteranno verso gli ebrei sarà […] la prova del fuoco della democrazia tedesca”. Tale affermazione dimostrava quanto contasse per l’occupante americano dimostrare la centralità in negativo della Shoah nella storia della Germania.
L’Accordo tra i due Stati venne quindi stipulato nel settembre del 1952 ed entrò in vigore l’anno successivo. Gli ottocento milioni di dollari che così pervennero nelle casse israeliane, tra il 1953 e il 1963, sotto forma di beni mobili, materie prime e prodotti industriali concorsero allo sviluppo dell’economia nazionale.
Attraverso questo Trattato, Israele e la Germania Occidentale fecero il primo passo, dal punto di vista delle relazioni internazionali, per andare oltre l’Olocausto.
Rispetto ai giovani con cui stava parlando, il giornalista era consapevole che il denaro tedesco era stato fondamentale per dare una salda ossatura economica al Paese, ma questo non aveva privato “Israele del diritto di considerarsi giudice dei criminali nazisti”. David Ben Gurion era stato al centro di un’ondata senza precedenti di impopolarità nel momento in cui aveva accettato le riparazioni tedesche e si era incontrato con il Primo Ministro tedesco Konrad Adenauer. Il merito dell’esistenza dello Stato d’Israele era certamente suo, “con gli uomini che lo avevano aiutato a costruire Israele dal nulla, egli sente la critica ostilità delle giovani generazioni portate, anche dal benessere materiale in cui vivono, a dimenticare il passato, ad estraniarsi dal problema vitale del Paese che è di mantenere i rapporti con le comunità israelitiche di tutto il mondo”.
L’idea del Governo era, secondo Rosso, frantumare quel muro di ostentata indifferenza per i crimini commessi dai nazisti “con un violento pugno psicologico: quale sarà, appunto, il processo contro Eichmann”. Forse non leggevano libri sullo sterminio, ma questi giovani israeliani erano assidui lettori dei giornali, quindi, conoscevano benissimo l’affare Eichmann, nonostante le dichiarazioni contrarie.
Il giornalista pensava che quando questi giovani potevano essere sinceri, soprattutto con se stessi, dovevano provare “uno sgomento infinito, o una furia tremenda, solo se pensano alla faccia biancastra, molliccia di Adolf Eichmann, mostro disumano”.
Il giorno che avessero letto e ascoltato i resoconti del processo, comprendendo la freddezza spietata di quel criminale “si sgeleranno. La loro attuale indifferenza, troppo ostentata per essere genuina, si dissolverà al racconto vivo di tanti orrori”.
Francesco Rosso era convinto che il processo avrebbe avuto anche la funzione di riconciliare questa giovane generazione con quella più anziana, in caso contrario, se anche loro avessero dimenticato tante atrocità, “bisognerebbe veramente disperare dell’umanità”.
Il giurista Carlo Arturo Jemolo scrisse un articolo di fondo in prima pagina sul processo, pochi giorni prima del suo inizio[27]. Jemolo osservava come il lato umano del processo Eichmann lasciasse in penombra l’aspetto giuridico e l’utilità della punizione per i crimini commessi. Il caso non era nuovo, necessariamente il regime nazista aveva avuto altri soggetti simili ad Eichmann, così come tutti i regimi tirannici, recenti e antichi. Vi erano “tipi umani che trovano il terreno propizio soltanto in certi ambienti politici: il violento soffocherebbe nei beni ordinati regimi borghesi e legalitari, ma può sfogare i suoi istinti così come conduttore di sommosse che nelle squadre punitive, nel terrore rosso o nel terrore bianco”.
La storia umana presentava una innumerevole gradazione di crudeltà, crudeltà fisiche, la gioia del percuotere, di uccidere, del sangue, e “la gioia dell’intelletto, di ordire il sottile processo dove l’imputato non potrà salvarsi, l’artificio che porterà a confessare di aver congiurato, di aver almeno desiderato la sovversione dell’ordine stabilito”.
Eichmann non apparteneva, a parere dello storico, a nessuno di questi tipi umani, personificando il senza Dio, una tipologia più povera e scialba, a cui era favorevole ogni ambiente. Il senza Dio era un ateo che “non si limita a non credere in un Dio creatore ed ordinatore, in un Dio rivelato; ma l’uomo che non ha principii che lo illuminino, che sta indifferente dove la contingenza lo pone: non avendo altro desiderio che conservare il suo posto, migliorarlo, vivere tranquillo, altra spinta che adempiere bene il lavoro affidatogli, contentare chi è un gradino sopra di lui. Non lontano dal cavallo, che spinge indifferentemente la berlina del sovrano e la carretta dei condannati a morte”. Tutti avevano certamente incontrato persone di questo tipo: individui che guardavano stupiti se qualcuno provava indignazione per fatti di corruzione o abusi, per il tradimento di un’idea, per la delusione verso un uomo a cui era stato credito e fiducia. “Che te ne importa? Che danno te ne viene?” Domandavano questi individui che non riuscivano a comprendere. Jemolo riteneva, tuttavia, che un “barlume di divino fosse rimasto: c’è un limite; ad un certo momento il senso della solidarietà umana si ridesta, di fronte a certe crudeltà, il brivido dell’orrore scuote. Nelle ore tragiche uno degli spettacoli che può ridare qualche fiducia nell’uomo, è vedere quegli che fino ad allora era stato lo scherano, arrestarsi, cercare di operare salvataggi, di sottrarre vittime ingannando il padrone che fino a ieri aveva servito senza esitare”.
Ma per Eichmann, così come altri, non era vi era stato alcun risveglio. Vi erano due differenti gruppi: coloro rimasti fedeli “al Moloch che si erano posti come Dio e quelli che non hanno mai avuto alcun Dio. Tra i fanatici, per cui pur oggi l’avversario era la mala bestia da sterminare ed il solo rimpianto è di non aver abbastanza ucciso, di non averlo distrutto; e coloro per cui non c’era d’intorno che un enorme grigiore, non il bene, non il male, non i buoni, non i cattivi, ma il comando superiore immediato, obbedito solo perché stava a quel tavolo a comandare”.
Quest’ultimo era il tipo umano che più destava paura, poiché ricordava ciò che l’uomo poteva essere se non illuminato da una fede, se non avesse avuto dei valori fondamentali. Non tutti gli indifferenti sarebbero potuti diventare degli Eichmann, ma “chi non sente leggi più alte di quelle di ogni Stato, chi non ha in sé imperativi e divieti assoluti, che prevarrebbero sugli ordini di ogni potere umano, è sulla strada che può condurlo a divenire un Eichmann”.
Il caso del senza Dio apriva inquietanti prospettive sul futuro di quei ragazzi cresciuti nel disprezzo di tutte le leggi e di tutti i valori.
Dal punto di vista prettamente giuridico, Jemolo si domandava, come era già avvenuto al processo di Norimberga, se era possibile applicare sanzioni diverse da quelle vigenti al tempo e nel luogo del crimine, “in nome di quel diritto naturale, cui l’umanità vuole credere, che rappresenta una fede cui si attaccano gli uomini, proprio in relazione alla paura che incute l’illimitato potere delle leggi statali”.
Accanto al problema giurisdizionale, vi era quello umano: la condanna di Eichmann poteva servire da monito per il ripetersi di simili crimini? A parere di Jemolo la morte di Eichmann, come quella di altri prima di lui, non avrebbe impedito il ripetersi delle atrocità. La giusta pena per il criminale nazista era “un lavoro penoso, ma non massacrante, per il resto dei suoi giorni, stargli vicini con animo di fratelli; tentare di compiere il miracolo di ridestare l’animo nella macchina fatta per attuare gli ordini che è stato sin qui. Per i credenti in ogni uomo vi è una scintilla divina: rintracciarla, farla ancora splendere, far divampare il rimorso e il desiderio di espiazione: l’accettazione della pena, la sofferenza voluta per purificarsi: questa mi parrebbe la più degna impresa”.
L’articolo di Jemolo riscosse elogi e critiche da parte dei lettori del giornale, come si deduce dalle lettere inviate al direttore Giulio De Benedetti e pubblicate nella rubrica Specchio dei tempi[28].
Quasi tutte le corrispondenze ponevano al centro la figura di Eichmann, che acquisiva sempre più le caratteristiche di mostro disumanizzato e “ragioniere dello sterminio[29].
Una parte considerevole delle corrispondenze ebbe come fulcro la storia della Shoah, raccontata attraverso le testimonianze dei superstiti; è interessante notare come fu proprio il processo Eichmann a dare una funzione sociale alla figura del testimone.
Il giornale torinese riuscì effettivamente, nel breve spazio di pochi mesi, a far conoscere maggiormente ai lettori italiani l’Olocausto e la sua estensione, tuttavia la dimensione della Shoah rimase prettamente europea, mancando ogni riferimento al ruolo svolto anche dagli italiani nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei. Da questo punto di vista, anche la testimonianza di una cittadina italiana[30], Hulda Cassuto Campagnano[31], difforme dall’originale in ebraico[32], prova quanto fosse consolidata la tendenza italiana all’autoassoluzione.
“La Stampa” evidenziò, durante il processo contro Eichmann, l’opera di salvataggio[33] degli ebrei da parte dei militari italiani impegnati nei vari fronti di guerra[34]. La realtà storica dell’operato dei militari italiani nelle zone occupate era molto più complessa e meno generalizzabile. Indubbiamente vi erano stati molti comportamenti onorevoli da parte dei militari italiani e degli apparati diplomatici, tuttavia, l’elogio da parte degli organi di informazione, non solo de “La Stampa”, di questi atti benemeriti lasciava in ombra episodi in cui i militari italiani erano rimasti indifferenti di fronte agli eccidi degli ebrei[35]. Per esempio, in alcune occasioni le autorità italiane non avevano protetto gli ebrei, consegnandoli direttamente ai tedeschi e agli ustascia croati[36], o respingendoli alla frontiera[37]. Inoltre questa enfasi sull’opera di salvataggio degli ebrei ridimensionava l’operato del regime fascista e della sua burocrazia tra il 1938 e il 1943 e la successiva collaborazione tra la Repubblica Sociale di Salò e l’occupante tedesco.
Alla base degli atti di soccorso verso gli ebrei degli apparati militari e diplomatici, non esenti ai vertici dall’antisemitismo, vi erano diverse motivazioni[38]; infatti, l’Italia fascista non intendeva accondiscendere alle richieste croate e tedesche anche per motivazioni di prestigio internazionale, prestigio che sarebbe stato minato da una risposta positiva, inoltre queste richieste erano interpretate come un’indebita ingerenza, sia nei Balcani sia in Francia, nella sfera d’azione italiana. Come ha osservato Rodogno, “i conflitti d’interesse con la Germania ridussero gli ebrei a pedine di quella sorta di guerra interna all’Asse che si combatté nei territori occupati”[39]. Alcuni autori hanno anche ipotizzato che, dopo il cambiamento delle sorti militari dell’Asse, l’aiuto agli ebrei facesse parte della strategia di una certa classe dirigente italiana per acquisire fiducia presso gli Alleati in considerazione di una prossima uscita dal conflitto[40].
Uno dei commenti[41] più significativi, tra quelli scritti da Alessandro Galante Garrone[42], fu l’articolo di fondo pubblicato il giorno dopo che la Corte aveva condannato a morte Adolf Eichmann[43]. L’articolo iniziava con la formula che il procuratore generale Gideon Hausner aveva utilizzato per chiedere l’applicazione della pena capitale per il criminale di guerra: “Giudici, e miei maestri, davanti a voi è il distruttore del popolo, il nemico dell’umanità, colui che ha versato il sangue innocente. Io vi chiedo di dichiararlo figlio della morte”. L’espressione “figlio della morte” si rifaceva ad una antica formula ebraica che significava meritevole della pena di morte. Galante Garrone scriveva che queste frasi potevano far sembrare Eichmann avvolto “di una terribilità augusta, sigillarne una pur sinistra e tenebrosa grandezza. In realtà, si tratta di una figura di miserando squallore, meschina e abietta, senza il più fioco, impercettibile barlume, non diciamo di grandezza, ma di semplice umanità”. Il giurista riprendeva la definizione di uomo senza Dio che Carlo Arturo Jemolo aveva utilizzato per definirlo prima dell’inizio del processo, in cui era insita la speranza di un ravvedimento del criminale nazista. Ma il miracolo tanto atteso di una assunzione di responsabilità, di orrore, di disperata contrizione non era avvenuto, nemmeno di fronte al susseguirsi di tutte le atrocità commesse. Anche le ultime dichiarazioni di Eichmann lo facevano apparire come il “servo senz’anima”, ligio alla parola d’ordine, che si trincerava dietro gli schemi di una difesa da altri preparata. Agli occhi di Galante Garrone “questo disgustoso contegno faceva ancor di più risaltare l’enormità del delitto; un delitto consumato a freddo, a tavolino, allineando cifre di morti a decine di migliaia, con l’impeccabile precisione di un impiegato modello, anzi di una macchina calcolatrice; ma non dimentichiamolo, una macchina alimentata e sorretta da un odio gelido e implacabile, dal disprezzo assoluto per milioni di uomini”.
Qualcuno si era stupito della natura prettamente individuale della sentenza, tuttavia, questo era un processo contro un uomo, non contro un regime, un popolo, un’età o una condizione umana, il processo era la dimostrazione di una responsabilità individuale.
Ma dal processo, continuava il giurista, era emerso con violenza uno dei fatti più mostruosi della storia umana: “il premeditato eccidio di sei milioni di ebrei”. Un fatto dimostrato agli occhi di tutti, “nessuna vociferazione in mala fede potrà più metterlo in dubbio, o ridurne l’immensità”. Questa verità storica così duramente conquistata era un bene per tutti, non soltanto per gli israeliani.
Dal processo era sorto un nuovo diritto, che avrebbe avuto piena attuazione soltanto se fosse stato avvertito il suo carattere di ammonimento per il futuro, in quanto ancora pesavano sul mondo “sopraffazioni e torture e minacce di ecatombi”.
Nella conclusione, Galante Garrone riferiva di aver visto in un film un’impressionate sequenza in cui dei partigiani ebrei del ghetto di Varsavia, condotti alla fucilazione, gettavano un ultimo sguardo sulla macchina da presa, “è uno sguardo tranquillo, al di là dei patimenti e dell’orrore; ma è anche uno sguardo severo. Dovremmo continuare a sentire quello sguardo fisso su di noi, che ci fruga dentro, e ci impone di vigilare, di combattere il male ovunque riappaia.”
Il 31 maggio 1962, fu eseguita la condanna a morte per impiccagione di Adolf Eichmann. Il giorno prima dell’esecuzione fu pubblicato in prima pagina un altro articolo di Alessandro Galante Garrone, che curò anche l’introduzione all’edizione italiana della relazione introduttiva del procuratore Gideon Hausner[44].
Il processo Eichmann era giunto alla fine, una fine attesa e scontata che “non suscita controversie, non pone dilemmi angosciosi, non lacera le coscienze”. Alcuni avevano persino notato una certa indifferenza dell’opinione pubblica, israeliana e di altri Paesi, verso il procedimento giudiziario. Per Galante Garrone era un bene che le accese passioni lasciassero adesso il posto all’emergere del significato storico e giuridico del processo. Il fatto più importante del procedimento giudiziario appena concluso era che i crimini imputati ad Eichmann avessero trovato delle leggi, un tribunale e una sentenza di condanna. Galante Garrone citava le parole di Piero Calamandrei all’indomani del processo di Norimberga: “Le Leggi, non scritte nei codici dei re, alle quali obbediva Antigone; le Leggi dell’umanità che furono fino a ieri una frase di stile relegata nei preamboli delle convenzioni internazionali, quelle Leggi hanno cominciato ad affermarsi, nella funebre aula di Norimberga, come vere Leggi sanzionate: l’umanità, da vaga espressione retorica, ha dato segno di voler diventare un ordinamento giuridico”. Da allora erano passati sedici anni, ciò che sembrava in quel tempo una Legge non scritta a chiare lettere o un diritto in fase embrionale, aveva acquisito la valenza di una norma giuridica positiva. La sentenza del processo Eichmann sarebbe stata ricordata, in ambito nazionale e internazionale, per aver sancito il principio della responsabilità individuale per i crimini contro l’umanità.
Nella seconda parte dell’articolo, Galante Garrone si soffermava sugli aspetti più tecnici del processo. Il procedimento giudiziario contro Eichmann era stato “un grandioso e sacrosanto processo rivoluzionario, giustificabile sul piano superiore della giustizia morale e storica”, ma non sul piano della legalità”, nel senso che non vi era stato uno stravolgimento dei canoni giuridici. Infatti, continuava il giurista, non vi era stata nel procedimento nessuna deviazione o rovesciamento dei principi del diritto. La norma fondamentale della irretroattività era stata rispettata, poiché l’assassinio di “sei milioni di uomini era pur sempre la somma di infiniti delitti già tutti previsti e puniti con le massime pene dalla Legislazione di tutti i Paesi”. Il principio della irresponsabilità per i crimini commessi nella esecuzione di ordini legalmente impartiti non poteva essere considerato assoluto e incondizionato, dato che “le tragiche esperienze dell’ultima guerra hanno dimostrato che un limite esisteva, doveva esistere […] un limite, appunto, della più elementare umanità, che nessun ordine o comando, anche se rivestito di forme legali, può imporre e calpestare”.
Galante Garrone osservava come gli avvenimenti del tempo avessero fatto riemergere principi e limiti dotati di una inaspettata “virtualità espansiva”, di cui non vi era una distinta consapevolezza, “scoprire, sotto la trama delle Leggi scritte, le Leggi di Antigone, i comandamenti, i divieti impliciti nelle norme dei codici, non è dunque una frattura rivoluzionaria della legalità, ma un suo più verace approfondimento. Così vive e si trasforma il diritto, così progredisce la civiltà. Di fronte al feroce e ricorrente abissarsi dell’uomo nella barbarie, la sentenza di Gerusalemme non chiude soltanto una pagina del passato; è anche un richiamo alle nostre responsabilità di oggi e domani.
Note
[1] Sul ruolo del Primo Ministro nel processo Eichmann, Cfr. Y. Weitz, The Founding Father and the War Criminal’s Trial: Ben-Gurion and the Eichmann Trial, “Yad Vashem Studies”, vol. XXXVI (2008) n. 1.
[2] Cfr. A. Shapira, “The Eichmann Trial: Changing Perspectives.” In After Eichmann: Collective Memory and the Holocaust since 1961, a cura di David Cesarani, Routledge, New York 2005, p. 27.
[3] Cfr. A. Cavaglion, Sopravvissuti: Primo Levi, Elie Wiesel, Jean Amery e altri, in Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso (a cura di), Vol. II, UTET, Torino 2005; G. Schwarz, Ritrovare se stessi, Gli ebrei nell’Italia post fascista, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 111-116.
[4] Arrestato in Israele un criminale nazista, “La Stampa”, 24 maggio 1960.
[5] Il criminale nazista Eichmann sarebbe stato arrestato in Argentina, “La Stampa”, 27 maggio 1960.
[6] Sul contenzioso tra Israele e Argentina, Cfr. D. Cesarani, Becoming Eichmann. Rethinking the Life, Crimes, and Trial of a “Desk Murderer”, Perseus, Cambridge, Mass., 2004, pp. 238-239; M. Pearlmann, È lui: Eichmann, UTET, Torino 2006, pp. 108, 115, 125.
[7] Israele respingerà la nota argentina che chiede la consegna di Eichmann, “La Stampa”, 10 giugno 1960.
[8] M. Pearlmann, op. cit., p. 108.
[9] Giornalista, scrittore e poeta, nacque nel 1910 a Vicenza. Abbandonati gli studi in giovane età a causa della morte prematura del padre, Barolini intraprese la carriera di impiegato di banca. Negli anni successivi, cominciò a scrivere le prime raccolte di poesie, Cinque canti (Vicenza 1930), La gaia gioventù e altri versi agli amici (Vicenza 1938), e nel 1941 Il meraviglioso giardino. Militante nella Resistenza, fu condannato il 28 marzo 1944 dal Tribunale speciale neofascista a quindici anni di reclusione in contumacia per aver diretto il quotidiano “Il Giornale di Vicenza” dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943. Nel 1946 si stabilì a Milano, dove lavorò fino al 1950 nella Amministrazione aiuti internazionali, riprendendo la collaborazione al “Corriere di Milano”, diretto da Filippo Sacchi, e al “Corriere della Sera”. Nel 1950 si trasferì negli Stati Uniti con la moglie, dove ebbe anche l’incarico di console d’Italia. Risale a questo periodo la prima stesura del romanzo Una casa di campagna. Corrispondente per molti anni del quotidiano “La Stampa” e del settimanale “Epoca”, collaborò alla “Saturday Review”, al “New Yorker”, e al “Reporter”. Morì a Roma nel 1971. Tra le sue opere si segnalano: Giornate di Stefano, Padova 1943; per la saggistica, Torquato e Franco Fraccon, Vicenza 1967, e Meditazioni sul pane e sul vino, ibid. 1969; per la poesia, Statua ferma, Genova 1934; Poesie di dolore in morte di Caterina e tre preghiere in aggiunta, Vicenza 1943; Viaggio col veliero San Spiridione, Venezia 1948; Poesie alla madre, ibid. 1960; Il meraviglioso giardino, Milano 1964. Cfr. Voce, curata da Renato Bertacchini, in Dizionario Biografico degli italiani, vol. XXXIV, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1988.
[10] Antonio Barolini, L’Argentina ottiene che l’ONU esamini il caso Eichmann, “La Stampa”, 16 giugno 1960.
[11] Per il rapporto tra l’Argentina del Presidente Perón e i criminali nazisti, Cfr. U. Goñi, Operazione Odessa: la fuga dei nazisti verso l’Argentina di Perón, Garzanti, Milano 2003; R. Rein, Argentina, Israel, and Jews: Peron, The Eichmann Capture and After, University Press of Maryland, Bethesda (Maryland) 2003.
[12] Eric Rouleau, Intervista con Ben Gurion sul processo contro Eichmann, “La Stampa”, 21 giugno 1960.
[13] Cfr. Pacata lettera di Ben Gurion a Frondizi per il caso Eichmann, “La Stampa”, 9 giugno 1960. Ben Gurion e Frondizi discuteranno il caso Eichmann venerdì a Bruxelles, “La Stampa”, 22 giugno 1960.
[14] Antonio Barolini, L’Argentina “non insiste” all’ONU per la restituzione di Eichmann, “La Stampa”, 24 giugno 1960.
[15] Risolta fra Argentina ed Israele la vertenza per il caso Eichmann, “La Stampa”, 4 agosto 1960.
[16] Enzo Biagi, Un polacco cui fu distrutta la famiglia avrebbe rivelato il rifugio di Eichmann, “La Stampa”, 26 maggio 1960; Eichmann fu catturato da un architetto che gli diede la caccia per quindici anni, “La Stampa”, 22 ottobre 1960.
[17] Cfr. T. Segev, Simon Wiesenthal. The Life and the Legends, Doubleday, New York 2010.
[18] Cfr. D. Lipstadt, Il processo Eichmann, op. cit., pp. 5-9.
[19] Giornalista, nacque a Torino nel 1916. Dal 1947 fu redattore e dal 1968 vice direttore de “La Stampa”. Nei suoi articoli si occupò di questioni politiche, culturali e di costume. Di particolare interesse, per l’argomento trattato in questo saggio, sono i suoi articoli durante la Guerra dei Sei giorni e in occasione dell’approvazione da parte dell’ONU della Risoluzione n. 3379, che equiparava il sionismo al razzismo, in cui si espresse sempre a favore di Israele. Nel 1967 Carlo Casalegno, futuro vicedirettore del quotidiano, parlò a favore dello Stato ebraico durante una manifestazione all’Università di Torino, tale intervento fu pubblicato successivamente, nelle sue parti salienti, nella terza pagina del giornale. Per i contributi a favore di Israele si vedano: G.P, Israele è oggi una frontiera per tutti gli uomini civili, “La Stampa”, 30 maggio 1967; Carlo Casalegno, Un verdetto antisemita, “La Stampa”, 12 novembre 1975 (pubblicato in prima pagina). Fu ucciso dalle Brigate Rosse nel 1977. Cfr. Voce in Enciclopedia Treccani, (online).
[20] Carlo Casalegno, Nella figura dell’ “uomo” Eichmann il motivo segreto dei suoi atroci delitti, “La Stampa”, 30 ottobre 1960.
[21] Francesco Rosso, Israele prepara il processo contro Eichmann non per vendetta, ma come ricordo per gli immemori, “La Stampa”, 31 gennaio 1961; Id., I giovani nati in Israele vogliono ignorare il passato, “La Stampa”, 3 febbraio 1961.
[23]L. Feldmann Gardner, L. Feldman Gardner, The Special Relationship Between West Germany and Israel, HarperCollins Publishers Ltd, New York 1984, p. 42
[24] Cfr. N. Balabkins, West German Reparations to Israel, Rutgers University Press, New Jersey 1971, p. 120.
[25] Ibidem, p. 122.
[26] R. Vogel, German Path to Israel, Dufour Editions, Chester Springs 1970, pp. 113-114.
[27] Carlo Arturo Jemolo, L’uomo senza Dio, “La Stampa”, 9 aprile 1961.
[28] Consensi e critiche all’articolo di Jemolo, “La Stampa”, 12 aprile 1961.
[29]Cfr. Le prove dei massacri compiuti da Eichmann in Europa, “La Stampa”, 7 giugno 1960.
1961.La pena di morte per Adolf Eichmann, “La Stampa”, 16 dicembre 1961.Enrico Emanuelli, La sentenza rivela nei giudici di Eichmann un nobile tormento sui problemi della coscienza, “La Stampa”, 20 dicembre 1961.Enrico Emanuelli, Il processo Eichmann era un duro lavoro anche per i 100 giornalisti di ogni paese, “La Stampa”, 24 dicembre 1961.Vittorio Gorresio, Così lo vidi al processo, “La Stampa”, 2 giugno 1962. Nel silenzio segreto e notturno del carcere, “La Stampa”, 2 giugno 1962.
[30] Ogni ebreo in Italia deve la vita ad una famiglia italiana, “La Stampa”, 12 maggio 1961.
[31] La deposizione di Hulda Cassuto Campagnano è reperibile in S. I Minerbi, op. cit., pp. 47-51.
[32] Cfr. H. Cassuto Campagnano, Parola ad una testimone, in “Israel”, n. 34, 22 giugno 1961.
[34] Come gli italiani in Francia resistevano alle persecuzioni razziali volute dai nazisti, “La Stampa”; 29 ottobre 1960.
I soldati italiani si opposero ai massacri di ebrei in Jugoslavia, “La Stampa”, 20 maggio 1961. L’umanità dei soldati italiani verso gli ebrei della Grecia occupata, “La Stampa”, 23 maggio 1961.L’aiuto italiano agli ebrei irritò i gerarchi nazisti, “La Stampa”, 30 giugno 1961. Anche in Croazia e sulla costa dalmata le truppe italiane protessero gli ebrei, “La Stampa”, 1 luglio 1961.
[35] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, 2 vol., La Nuova Italia, Firenze 1993-96, p. 278; D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 444; H. J. Burgwyn, L’impero sull’Adriatico. Mussolini e la conquista della Jugoslavia 1941-1943, LEG, Gorizia 2006, p. 246.
[36] E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 121-125.
[37] D. Rodogno, op. cit., pp. 440-441, 444, 459-460; K. Voigt, op. cit., pp. 259-260, 278.
[38] Sull’antisemitismo esistente negli alti ranghi dell’esercito e della diplomazia, Cfr. D. Rodogno, op. cit., pp.482-484.
[39] D. Rodogno, op. cit., p. 434.
[40] G. Schwarz, Ritrovare se stessi, op. cit., pp. 130-131.
[41] L’opera di salvataggio ad opera del popolo italiano era stata messa in evidenza anche dal procuratore generale dello Stato d’Israele, Gideon Hausner, anche se l’accenno all’Italia nel suo intervento d’apertura era stato molto breve. Cfr. G. Hausner, op. cit., pp. 109-110.
[42] Alessandro Galante Garrone, Eichmann nervoso ascolta per due ore la lettura del tremendo capo d’accusa, “La Stampa”, 12 aprile 1961.Id., I forni crematori della Topf e figli, “La Stampa”, 28 settembre 1961.Id., La colpa di Eichmann, “La Stampa”, 3 novembre 1961.
[43] Alessandro Galante Garrone, Il fatto più mostruoso della storia umana, “La Stampa”, 16 dicembre 1961.
[44] Alessandro Galante Garrone, Una condanna, “La Stampa”, 30 maggio 1962.