C’è un solo modo per Israele di vincere la guerra contro Hamas, iniziata, è bene ricordarlo, a seguito dell’eccidio di 1200 cittadini israeliani e del rapimento di 240, avvenuto il 7 ottobre 2023. Questo modo è l’operazione militare a Rafah, ultimo avamposto di Hamas, dove si trovano ancora intatti quattro battaglioni residuali dei ventiquattro certificati (altri due sarebbero ancora presenti nel centro della Striscia), e con loro, presumibilmente, i capi del movimento più gli ostaggi ancora vivi, che non si sa a quanti ammontino.
Vincere la guerra che Hamas ha provocato, significa terminare il controllo politico-militare dell’organizzazione salafita nella Striscia, e per potere raggiungere questo obiettivo è necessario andare fino in fondo, distruggere gli ultimi battaglioni rimasti e idealmente, eliminarne i capi. Una volta raggiunto questo obiettivo, l’esercito israeliano dovrà restare a Gaza per il periodo necessario a bonificare il territorio dalle sacche di gruppuscoli jihadisti sparpagliati, attuando operazioni specifiche e mirate di controinsorgenza, ma prima di spegnere i fuochi sparsi, va spento il fuoco principale.
È ormai chiaro che gli Stati Uniti non vogliono l’ingresso di Israele a Rafah, nonostante affermino che Hamas deve essere annientato. Si tratta, tuttavia, di due obiettivi inconciliabili. L’ipotesi di strategie alternative all’operazione di terra a Rafah, meno invasive e altrettanto efficaci, sono irrealistiche e hanno l’unico scopo da parte americana di fare credere che Hamas possa essere sconfitto diversamente, costringendo Israele a prolungare ancora di molti mesi una guerra già troppo lunga.
Israele non ha che due alternative, o entra a Rafah come ha fatto nelle altre parti della Striscia dove, nell’arco di sei mesi ha smembrato diciotto dei battaglioni esistenti di Hamas, distruggendo i quattro residuali, e così facendo entrando platealmente in contrasto con gli Stati Uniti, oppure evitare di farlo, compiacere l’Amministrazione Biden e rassegnarsi a proseguire al rallentatore la guerra allontanando nel tempo una meta che non si sa se potrà essere raggiunta.
È inevitabile che la situazione di stallo attuale debba modificarsi a breve, a fronte anche di tensioni che si stanno accumulando nel paese, dalle manifestazioni in crescita contro il governo allo scopo di farlo cadere, agli attriti tra coloro che vorrebbero vedere partire l’operazione a Rafah, in testa Bezalel Smotrich, Itmar Ben Gvir ma anche un moderato come Gideon Sa’ar, e Netanyahu, il quale continua ad annunciare l’operazione militare senza che, di fatto, ci siano segnali tangibili della sua imminenza.
Sullo sfondo resta, ovviamente, la questione degli ostaggi ancora detenuti nella Striscia e negoziati che non portano a nessuno sbocco a causa dell’intransigenza di Hamas, per il quale, la precondizione essenziale è un cessate il fuoco permanente e dunque la certificazione della sconfitta di Israele.
Il cessate il fuoco, il più lungo possibile, e idealmente tale da non permettere alla guerra di riprendere lena è quello di cui ha bisogno Joe Biden per puntellare la sua rielezione alla Casa Bianca a novembre, ma per Israele, sarebbe l’esito peggiore.
La conduzione ondivaga di Netanyahu in quello che si trova a essere il maggiore momento di crisi che sta vivendo Israele dalla fine della Seconda intifada, fatto di accondiscendenza alle imposizioni americane e di momenti di risposte apparentemente risolute, non può sciogliere il nodo che si è creato. Solo la determinazione reale di entrare a Rafah e non reiterati annunci possono scioglierlo. Il momento di decidere se vincere o perdere la guerra non può essere differito ancora a lungo.