Israele e la Corte Penale Internazionale

Il jihad giudiziale della CPI

La Corte penale internazionale (CPI), una delle tante istituzioni multinazionali che compongono «l’ordine internazionale basato sulle regole», ha emesso mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, nonché per un leader di Hamas eliminato a luglio.

Questo atto di «solidarietà» verso la Palestina ci dimostra, ancora una volta, che l’idealismo inetto delle istituzioni «sovranazionali» dell’Occidente ha raggiunto la piena bancarotta morale e intellettuale.

La CPI esiste in virtù di un trattato multinazionale e ha giurisdizione solo sui rappresentanti degli Stati che vi partecipano. Pertanto, come fanno i membri di Hamas, un’organizzazione terroristica a cui Israele ha consegnato la Striscia di Gaza nel 2005, a rientrare nella giurisdizione della CPI o su uno Stato che non ha ratificato lo Statuto di Roma come Israele?

Inoltre, la CPI ha avviato il suo procedimento per conto di uno Stato inventato dalla Corte stessa, il cosiddetto «Stato di Palestina». Come spiega il Wall Street Journal, questo fatto implica che essa «ritiene che i confini dello Stato includano Gaza», che dal 2007 non è sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’unico organismo di autogoverno palestinese ufficialmente riconosciuto.

Poi, i crimini denunciati dalla Corte sono inesistenti. Israele non sta infliggendo un genocidio agli arabi-palestinesi, si tratta di una spudorata bugia, come non è credibile l’accusa secondo cui l’IDF starebbe «intenzionalmente dirigendo attacchi contro una popolazione civile». Nessun esercito nella storia, che combatta una guerriglia in una zona così densamente popolata, ha mai mostrato tanta preoccupazione per le vite dei civili come quello israeliano. Anzi, gli scrupoli umanitari dello Stato ebraico hanno rallentato le operazioni belliche.

Come ha sottolineato sempre il WSJ, a marzo, «Israele non ha bisogno di essere sollecitato a fornire aiuti umanitari o ad agire con cautela. Secondo il colonnello britannico in pensione Richard Kemp, il rapporto medio di morti tra combattenti e civili a Gaza è di circa 1 a 1,5. Ciò è sorprendente poiché, secondo le Nazioni Unite, il rapporto medio di morti tra combattenti e civili nella guerra urbana è stato di 1 a 9».

La CPI, come l’ONU e le sue numerose agenzie, è uno degli strumenti del jihad giuridico contro Israele, che abusa della sua giurisdizione per delegittimare e demonizzare lo Stato ebraico, tentando di porlo in una condizione di «apartheid» internazionale.

Un’altra sfacciata menzogna della Corte riguarda l’accusa secondo cui Israele stia deliberatamente usando la fame come arma. Un’accusa assurda. Israele ha facilitato il passaggio di oltre 57.000 camion per oltre 1,1 milioni di tonnellate di aiuti alimentari. Il tutto, nonostante i massicci furti operati da Hamas. I blocchi e i rallentamenti sono stati necessari per evitare che i terroristi si rifornissero mediante tali furti. Il diritto internazionale non prevede che un belligerante fornisca sostentamento all’altro.

Il mandato di cattura emesso contro Netanyahu e Gallant rappresenta però l’ultimo rantolo di un’istituzione moribonda. Con l’insediamento di Donald Trump, la CPI dovrà affrontare sanzioni ancora più punitive di quelle del 2020, annullate quasi immediatamente da Biden. L’idea è quella di tagliare fuori dal sistema bancario statunitense i funzionari della Corte. Il senatore repubblicano Lindsey Graham ha parlato di «sanzioni infernali».

Lo spregevole jihad giudiziale della CPI contro Israele dimostra, ancora una volta, il fallimento del magico «ordine internazionale basato sulle regole», che privilegia trattati, accordi, leggi, patti, diplomazia e trattati multinazionali, e i sogni febbrili dei globalisti che pretendono d’incarnarlo.

La politica estera ossessionata da «norme» e «regole» non solo non è stata in grado, come nel caso del conflitto russo-ucraino, di arrestare l’uso della forza da parte di coloro che non si fanno scrupoli a impiegarla, ma è diventata uno strumento in mano a organizzazioni terroristiche e Stati canaglia per ostacolare le democrazie in lotta per la loro sopravvivenza.

I tutori del «diritto internazionale» non trovano mai il tempo per indagare sui crimini e le violazioni compiute dalla Russia o dalla Turchia, dall’Iran o dalla Cina, preferendo concentrarsi ossessivamente su Israele e, talvolta, sugli Stati Uniti.

La convinzione che ci sia una «armonia di interessi» globale, una sorta di partecipazione collettiva a principi universali, che possano costituire la base per un solido diritto internazionale è, nella migliore delle ipotesi, ingenua, nella peggiore, demenziale. La politica interna ed estera è guidata da obiettivi politici, interessi nazionali e di sicurezza di ogni singolo Paese.

La giustizia, quindi, raramente se non mai, è un fattore determinante, nell’elaborazione delle politiche o delle sentenze, che funzionano come camuffamento per perseguire interessi particolari. La CPI non fa eccezione. Come ha scritto Robert Bork, ex Avvocato generale degli Stati Uniti, «il diritto internazionale non è diritto ma politica».

Istituzioni come la CPI illustrano il punto sottolineato da Bork. Il loro scopo non è garantire una qualche forma di giustizia, ma servire il «nuovo ordine mondiale» globalista che disprezza le nazioni gelose della loro sovranità come gli Stati Uniti, Israele o la Polonia, oltreché promuovere il revanscismo dei popoli arabo-musulmani contro l’Occidente.

È arrivato il momento di ripensare l’attuale ordinamento internazionale, con le sue Corti e le sue agenzie manipolate da fiancheggiatori del terrorismo. Imporre loro «sanzioni infernali» sarebbe già un buon punto di partenza.

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