Emanuel Segre Amar, presidente del Gruppo Sionistico Piemontese, è da molti anni un appassionato sostenitore di Israele, alla cui causa ha sempre portato la forza e la solidità degli argomenti contro le menzogne della propaganda. Ex vicepresidente della Comunità ebraica di Torino è anche un conoscitore dall’interno delle dinamiche istituzionali e non dell’ebraismo italiano.
Partirei dal convegno su Israele che avrebbe dovuto tenersi il 7 maggio alla Statale di Milano e che invece è stato annullato, apparentemente per ragioni di ordine pubblico. Cosa puoi dirci in proposito?
Il convegno che avrebbe dovuto tenersi alla Statale e annullato per la pavidità del Rettore è purtroppo emblematico dell’atmosfera che si vive nella stragrande maggioranza delle università dell’Occidente. Apparentemente tutto era stato già preparato dalla organizzatrice Cristina Franco che aveva voluto rispondere, con questo convegno a un convegno precedente che si era svolto alla Statale con la presenza di una ventina di relatori, tra i quali Francesca Albanese, “rapporteur presso le Nazioni Unite per il popolo palestinese” e Moni Ovadia. A differenza del primo convegno che ne era privo, Cristina Franco aveva voluto dare un’impronta accademica al suo, ma questo non è stato sufficiente per arrivare alla sua realizzazione. Dopo alcuni giorni, infatti, le è stato comunicato che l’aula inizialmente prevista non sarebbe più stata disponibile, e le veniva offerta un’aula con una capienza ridotta alla metà (50 anziché 100 posti), aula ancora sostituita nei giorni successivi allorquando le veniva pure chiesto di modificare il titolo del convegno e di cancellare dallo stesso la proiezione prevista di un interessante video. Cristina Franco aveva accettato le condizioni poste, ma il peggio è arrivato successivamente quando il Rettore le ha telefonato per esprimere la preoccupazione della DIGOS relativa all’incolumità delle persone e proponendo che, anziché di persona, il convegno si tenesse on line.
Cristina Franco non poteva mettere a rischio l’incolumità fisiche del pubblico né poteva accettare di rispondere on line a una precedente manifestazione che invece aveva ricevuto, da parte del Rettore, tutto lo spazio necessario. Purtroppo, però, e questo va detto con chiarezza, quella preoccupazione della DIGOS, come io stesso potei verificare rapidamente, non era stata mai espressa, così come parimenti un successivo comunicato dell’ANSA negava. Con ogni probabilità il cambiamento di attitudine da parte del Rettore e della prorettrice Brambilla è legato a possibili intese assunte in occasione di un incontro tra le organizzazioni propal e il rettorato che si è svolto il 24 aprile in un’aula della Statale. Questa situazione non è nuova negli atenei italiani. Già nel 2018 l’Ambasciata Israeliana in Italia si era vista offrire dall’Università di Torino un’aula del tutto inadeguata per presentare tre giovani israeliani desiderosi di raccontare le loro vicende personali agli studenti italiani; tramite l’Associazione da me diretta avevo pertanto organizzato questo convegno al Circolo della Stampa, una sede prestigiosa. La colpa di questi studenti stava nella loro cittadinanza, quella israeliana, ma nessuno di loro era di religione ebraica; erano infatti un beduino, un druso ed un maronita. Ma nessuno, nemmeno nei luoghi del sapere, vuole mai approfondire i fatti, basta essere israeliani e si è immediatamente etichettati e boicottati.
A fronte di episodi dilaganti di antisemitismo a seguito del 7 ottobre e della mobilitazione anti-israeliana oramai quasi militarizzata all’interno di numerose università italiane, l’ebraismo italiano nei suoi organi istituzionali, penso soprattutto all’UCEI, ha reagito in modo assai poco incisivo. Quali sono le ragioni di questa timidezza secondo te?
L’UCEI è attualmente molto attenta alla memoria degli ebrei morti, ma in un momento come quello che stiamo vivendo non è purtroppo più sufficiente. L’antisemitismo è di nuovo esploso in tutto l’Occidente fin dall’8 ottobre, non ha avuto nemmeno bisogno di aspettare quelle tre settimane prima che Israele reagisse contrattaccando Hamas. Non è probabilmente casuale se la Giunta dell’UCEI, composta unicamente dai gruppi che più si identificano con la sinistra, ha scelto questo atteggiamento così lontano, ad esempio, da quanto fa il CRIF in Francia che ogni settimana manifesta nelle strade per ricordare gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas. Perché la stessa cosa non avviene in Italia? Posso solo ricordare la risposta, per me terribile ma inaccettabile, che ho ricevuto da un importante membro dell’UCEI: “tanto ci odiano sempre di più”; e se delle associazioni come la mia, ma non solo la mia, fanno sentire la loro voce presso importanti istituzioni, o presso la cittadinanza, tentano di boicottarle. Questo atteggiamento ha fatto sì che oggi, in Italia, tranne pochissime eccezioni, nessuno parla mai né dei morti del 7 ottobre, né degli ostaggi, né dei razzi che per anni e anni sono piombati sulle città israeliane uccidendo e ferendo i civili, né delle centinaia di israeliani che hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni, i loro studi e i loro impieghi per la propria incolumità. Si parla soltanto delle 37000 “vittime civili” uccise dall’ l’IDF secondo dati comunicati dal Ministero della Sanità di Hamas, cifra recentemente nemmeno confermata dalla stessa Hamas. Il problema di fondo sta nel fatto, per me non corretto, di volere sempre dare un giudizo su un governo regolarmente eletto in Israele e pienamente legittimo nel suo operare. Si è perfino dovuto registrare il rifiuto di un Ambasciatore, Benny Kashriel, scelto quasi un anno fa dal Governo e dal Parlamento israeliano. In un articolo pubblicato sul Corriere si è affermato che dietro tale rifiuto delle autorità italiane (per la grave colpa di essere da 30 anni il sindaco di una città, Ma’ale Adummim, sita oltre la linea verde) ci fosse la mano della Presidente Noemi Di Segni, ma la stessa non ha mai risposto a tale articolo. Chi tace acconsente anche in questo caso? E dire che tale città nacque per un beniamino della sinistra, Rabin, ed è abitata anche da alcuni importanti rappresentanti della sinistra israeliana, e che persino Arafat aveva accettato che restasse israeliana.
Stiamo assistendo a una criminalizzazione di Israele senza precedenti. La Russia, che fino a poco prima dello scoppio della guerra a Gaza veniva percepita da una vasta parte dell’opinione pubblica come uno Stato terrorista e intrinsecamente criminale ha ora lasciato il ruolo a Israele. Quanto ti stupisce il fatto?
Credo che ben pochi possano stupirsi per il fatto che Hamas, ben foraggiata dagli ayatollah, abbia attaccato Israele nel pieno di una guerra che la Russia sta combattendo da lungo tempo senza riuscire a vincerla. E la Russia, per sopperire alle proprie deficienze tecnologiche, ha dovuto stringere un patto di ferro proprio con l’Iran. Ecco che, come d’incanto, dal 7 ottobre la guerra che si combatte in Europa è passata in secondo piano per gli stessi europei; le principali attenzioni, e soprattutto gli strali che prima la maggior parte dei media dedicavano a Putin ed alla sua guerra, si sono diretti contro Netanyahu che, nell’immaginario collettivo è diventato l’uomo da abbattere, almeno politicamente. Si è scomodato il Tribunale Internazionale dell’Aja, si discute continuamente alle Nazioni Unite, si boicotta Israele e tutti gli israeliani, anche con accuse affatto dimostrate, e si nascondono al mondo i fatti che Israele denuncia quotidianamente preferendo quelli dichiarati da un Ente da loro stessi dichiarato terrorista a quelli presentati, con tanto di prove, da uno Stato di diritto.
Qui in Italia c’è una frammentazione delle varie associazioni pro Israele. Non esiste un coordinamento, si agitano personalismi e protagonismi vari, mentre sarebbe opportuno riunirsi e trovare il modo di agire con una strategia comune. Sei d’accordo?
Purtroppo metti il dito su una piaga diventata, nel corso degli anni, purulenta. Da quando, oltre 20 anni addietro, iniziai a occuparmi dei problemi che riguardavano Israele, il numero di associazioni è aumentato di molto, ma l’efficienza complessiva, anziché aumentare in proporzione, direi che sia perfino diminuita, proprio per l’incapacità della maggioranza dei responsabili, e includo me stesso, di fare gruppo. Avevo anche provato, due anni fa, a chiedere ad una persona riconosciuta da tutti come autorevole di utilizzare la propria posizione per creare un gruppo coeso almeno tra alcune delle principali associazioni, con la speranza che poi altre si sarebbero unite. Mi rispose positivamente, ma poi non diede seguito alla mia richiesta. Devo anche osservare che oggi un gran numero di associazioni che possiamo considerare amiche di Israele non sono nemmeno ebraiche, né sono guidate da ebrei. Come sovente accadde nei momenti più pericolosi della loro storia gli ebrei si dividono di nuovo tra di loro, quando addirittura non si allontanano da quella che dovrebbe essere la loro casa comune.
Quale è la tua opinione sul governo Meloni relativamente al suo atteggiamento nei confronti di Israele, in particolare a proposito di questa guerra?
In Italia il governo, che tante illusioni aveva dato a tanti sionisti nel momento della sua nascita, ha preso da lungo tempo una direzione che ha allontanato molti di loro. Non sono serviti i recenti viaggi in Israele della premier Meloni e dei ministri Tajani e Crosetto; eppure non posso dubitare che determinate realtà siano state loro ben illustrate dalle persone che hanno incontrato. Indipendentemente dal difficile momento che Israele sta vivendo, parlare di due Stati oggi mi appare del tutto errato: infatti, oltre al ben evidente motivo, già più volte spiegato ai lettori de l’Informale, che sono proprio gli arabi-palestinesi a non aver mai voluto da un secolo la nascita del loro stato, parlare oggi della nascita dello Stato di Palestina significa riconoscere che, con la violenza bruta si può ottenere quanto gli Accordi di Oslo prevedevano che dovesse avvenire tramite trattative dirette tra le due parti. E non dimentichiamo che proprio USA ed Europa erano tra i garanti di quegli accordi. Questa richiesta è stata avanzata alle Nazioni Unite, questa settimana, dal Presidente Mattarella in un discorso che difendeva contemporaneamente un ente, l’UNRWA, del tutto screditato dopo le prove contro di esso presentate da Israele a chi aveva orecchie per ascoltare, e condannava la guerra, dimenticando di essere stato Ministro della Difesa durante la guerra nei Balcani.
E come ti spieghi questo atteggiamento italiano?
Giorgia Meloni, disprezzata in quasi tutto l’Occidente quando vinse le ultime elezioni perché considerata una fascista, ha forse ritenuto che fosse necessario accondiscendere alle probabili forti pressioni esercitate nei suoi confronti da Biden e da Macron, oltre che dalla von der Leyen e da Borrell, in modo da avere una certa libertà d’azione in altri campi della politica nazionale. Quanto a Mattarella ed a Tajani, la spiegazione è forse legata ai loro stretti legami col Vaticano, e le posizioni di Francesco sono ben note. A chi definisce Abu Mazen “angelo della pace” che cosa possiamo chiedere? Non dimentichiamo che quotidianamente il papa prega per i morti della Terra Santa, ma dimentica i tanti cristiani che ogni giorno vengono uccisi dalla violenza musulmana in Africa e in Oriente, o vengono rieducati nella potente Cina alla quale concede totale libertà di azione a dispetto dei diritti della Chiesa (perfino della nomina dei propri capi spirituali in Cina).
Dopo sei mesi di guerra, Israele è ancora lontana dalla vittoria, se mai arriverà. Qualche tua riflessione in merito.
Ci avviciniamo al settimo mese di guerra e molto andrebbe detto sull’andamento di un conflitto che smentisce tutte le dichiarazioni che via via sono state fatte dalle autorità israeliane. Purtroppo si erano illuse che un attacco molto duro nel nord avrebbe convinto Sinwar ad arrendersi, e questo è sicuramente stato un grave errore psicologico, smentito in Israele da chi ne aveva studiato la personalità quando era in prigione. Nel prosieguo del conflitto sembra che si possa dire che non c’è stata, almeno fino a poche settimane fa, quella necessaria fermezza nei confronti dell’unico “vero” alleato, come altri politici del passato dimostrarono di avere in situazioni non del tutto dissimili; ricordo solo la quasi costante presenza americana nel Gabinetto di Guerra. Il risultato è che il Capo di Stato Maggiore dell’IDF, istituzione storicamente rispettata dalla maggioranza degli israeliani, non è stato in grado di evitare una nuova spaccatura nella popolazione, e anche con le decisioni interne all’esercito che ha preso negli ultimi giorni, ha creato ulteriore malumore tra i riservisti. Non è ancora giunto il momento per tirare le somme, ma chissà se proprio tra i combattenti usciranno delle personalità nuove in grado di prendere in mano lo Stato quando, alla fine della guerra, si tornerà alle urne e tutti coloro che vedranno resi pubblici gli errori che hanno compiuto, saranno auspicabilmente estromessi dalla gestione politica. Israele ne ha un disperato bisogno.
Come presidente del gruppo sionista piemontese sei sempre stato attivo in merito alla difesa di Israele e alla promozione di incontri e convegni atti a contrastare la disinformazione dilagante. Hai qualche progetto in cantiere per il prossimo futuro?
Ti ringrazio per questa domanda perché l’argomento mi angustia non poco. Il Gruppo Sionistico Piemontese ha organizzato, negli ultimi anni, dei viaggi nei quali cercavo di trovare dei partecipanti che venissero per la prima volta in Israele, e dei convegni dedicati ad un pubblico che non fosse già in precedenza amico della Associazione. La filosofia era quella sempre presente di trovare nuovi “ambasciatori” che potessero successivamente avvicinare altre persone alla realtà di questa nazione piccola ma interessantissima. Purtroppo l’epidemia del Covid bloccò un gruppo di 40 persone pronte a partire 4 giorni dopo, ma la chiusura dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv non mi diede alcuna alternativa. Lo stesso avvenne con lo scoppio della guerra nell’ottobre scorso quando un nuovo gruppo di partecipanti era ormai prossimo alla partenza. In realtà si sarebbe potuto partire lo stesso, ma non mi sentii di far correre a nessuno dei rischi, tanto più che una parte importante del viaggio prevedeva di compiere delle visite nei dintorni di Gaza, senza dimenticare che molti alberghi erano stati precettati per ospitare intere famiglie israeliane che hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni. Pure i convegni hanno subito un inevitabile blocco nel momento dell’epidemia, salvo ricominciare nel passato più recente, ma la volontà di raggiungere un pubblico normalmente estraneo alle problematiche discusse non ha mai permesso di organizzare un numero elevato di eventi. Chissà se grazie all’Informale riesco comunque a trovare nuove forze giovani desiderose di portare nuova linfa vitale al Gruppo Sionistico Piemontese e nuove idee.