Su questa pagine sono già stati recensiti due libri di Sion Segre Amar, storico esponente e restauratore dell’ebraismo italiano post-Shoah, lo scrivente si accinge ora a considerare il libro più intensamente «ebraico» dell’autore, intitolato, non a caso, Il mio ghetto. Segre Amar, infatti, coi suoi racconti intensi e brillanti, intende raccontare quel «mondo piccolo» in cui «l’ebreo entra naturaliter all’uscita dal grembo materno, e dal quale è destinato a non più uscire per volontà né propria né altrui».
Sebbene nato presso una comunità ebraica emancipata, «la più vicina, non solo geograficamente, alla Francia dei sacri principi dell’89», l’autore si accorge, fin dalla più tenera età, di vivere dentro un ghetto «circondato da mura non visibili»; barriere che compaiono in numerosi episodi, talvolta minimi ma sempre premonitori, di antisemitismo: dal bambino che chiede «perché voi ebrei avete ammazzato Gesù?» alla giovane donna che, delusa dagli omaggi dello spasimante, dichiara sprezzante «già, voi ebrei…».
Lo sfondo dei racconti è quello della spensierata e precaria vita quotidiana nella Torino degli anni Venti e Trenta, dove nessun episodio di antiebraismo, soprattutto se piccolo e meschino, avrebbe impedito alla madre di Segre Amar di affermare con decisione che «adesso gli uomini sono buoni e noi ebrei siamo diventati come gli altri». Gli ebrei torinesi nutrono la massima fiducia nei confronti della monarchia sabauda; nel Tempio sempre si invoca la benedizione del Signore per Vittorio Emanuele Terzo, «nostro amatissimo sovrano», e lo si fa ad alta voce affinché «l’ignaro goi di passaggio, col berretto in mano in segno di chiesastico rispetto, accanto al sibilante portone, che avrà ben sentito nonostante la distanza, e capito, quali fedeli sudditi siamo».
Eppure, i fedeli sudditi di questo «mondo di ieri» ebraico, fatto di antiche tradizioni e vivacità intellettuali, sarà travolto dalla barbarie antisemita, costringendo molti, autore compreso, all’esilio in Erez Israel, ma «la nuova patria di primo acchito non sembra accogliente». La vita di un ebreo italiano nella Palestina mandataria non è facile, eppure Sion Segre riesce a ritagliarsi un ruolo presso la Radio Britannica del Mediterraneo, che trasmetteva da Gerusalemme per le forze alleate dell’Europa meridionale. Nonostante il suo sionismo, maturato rapidamente a causa di circostanze straordinarie, l’autore sente una profonda nostalgia per Torino e le sue antiche galanterie. «Rivedrò mai Torino?», si chiede sconsolato e immalinconito.
Anche in questo testo, Segre Amar torna col pensiero all’amico Leone Ginzburg, ricordandolo non solo nella veste di compagno di cella a Regina Coeli, ma anche come uomo di mondo, capace di stappare la bottiglia di champagne «senza fare lo scoppio» e riempire le coppe «senza che ne debordi la schiuma». Con pennellate ironiche e vivide, tratteggia i circoli dell’antifascismo del capoluogo piemontese: il salotto di Barbara Allason (ovvero zia barbara), frequentato talvolta anche da Don Benedetto (ossia Benedetto Croce), dove si potevano sempre incontrare Franco Antonicelli, Carlo Levi, Leo Valiani e, ovviamente, l’amato Leone.
Tutti i racconti di Sion Segre Amar, anche il più sarcastico, sono ricoperti da una ragnatela di tristezza, da un velo d’inquietudine, dato il rapporto, oscuro e profetico, che intrattengono con la Shoah. La sensazione di stranezza che suscitano è data proprio dalla presenza di questo rapporto, che attraversa tutto il libro come un Acheronte.
Tutto, alla fine, si addensa negli occhi di una ragazza ebrea deportata ad Auschwitz, fissati per sempre su una lastra fotografica; in quello sguardo «tutto si compendia: la fiducia ingannata di ieri, il baratro di oggi, il domani che non è domani e non ha domani, la realtà dell’assurdo, l’assurdità del reale».