Editoriali

I piani americani e la sponda anti-Netanyahu

Il recente scontro tra Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant in merito all’incontro programmato da quest’ultimo con i vertici dei Servizi sul tema dello stato dei negoziati in corso con Hamas, senza la presenza di Netanyahu stesso, è solo l’ultimo episodio di una tensione crescente tra apparati dello Stato.

Martedì scorso il New York Times, pubblica un articolo secondo il quale, per alcuni generali non specificati, un cessate il fuoco a Gaza sarebbe la migliore soluzione per la liberazione dei 120 ostaggi ancora trattenuti nella Striscia prima che si dia il via a una eventuale guerra con Hezbollah, anche se questo dovesse significare che Hamas resterebbe al potere a Gaza.

A stretto giro risponde direttamente Netanyahu, ribadendo che la guerra avrà fine solo quando Israele avrà raggiunto tutti i suoi obiettivi, in altre parole, la liberazione degli ostaggi e la fine del controllo della Striscia da parte della formazione jihadista.

Innumerevoli volte Netanyahu ha dovuto ribadirlo, soprattutto da quando sono iniziati gli ultimi negoziati con Hamas sotto fortissima pressione americana, ed è questo, sempre, il dato fondamentale da tenere bene a mente, quello che vuole l’Amministrazione Biden.

A maggio, quando Joe Biden rilanciò l’ennesima versione del piano per il cessate il fuoco, disse chiaramente che Israele poteva accontentarsi di avere fortemente depotenziato Hamas e che esso non era più nelle condizioni di sferrare un attacco come quello del 7 ottobre 2023,  a sottintendere che a Washington, nonostante i proclami, sta bene che Hamas continui a restare nella Striscia.

Questa posizione, ormai palese, è condivisa in Israele da una parte dei Servizi e da una parte dell’esercito, la quale ritiene che una vittoria di Israele su Hamas sia irrealistica e che sia quindi necessario giungere a un accordo che porti alla liberazione degli ostaggi a qualunque costo, di fatto consegnando la vittoria a Hamas. È la posizione ufficiale di Benny Gantz e quella di Gadi Eisenkhot, entrambi ex capi di Stato maggiore, membri del dissolto gabinetto di guerra, e solerti megafoni dei desiderata americani.

È solo di poche settimane fa la dichiarazione del portavoce dell’IDF, Daniel Hagari, secondo il quale, Hamas essendo “un’idea” non può essere sconfitto, https://www.linformale.eu/pazza-idea/ salvo poi rettificare che non intendeva dire che non vada combattuto fino alla vittoria. In realtà Hagari non ha fatto che ripetere uno slogan che ha cominciato a circolare dall’inizio della guerra e fa molto comodo a chi vuole che Israele non prosegua fino in fondo con l’operazione militare a Gaza.

Al nuovo round di accordi a Doha annunciati come migliori dei precedenti, Netanyahu ha inviato come supervisore il suo assistente per la politica estera Ophir Falk, un segno palese di sfiducia nei confronti del team negoziale, dal quale, altre voci anonime recentemente si sono lamentate che Netanyahu starebbe boicottando gli accordi unicamente per restare al potere. È questo il mantra dell’opposizione, la stessa che manovra le manifestazioni di piazza contro il governo in carica e per la liberazione degli ostaggi, la stessa che ha sobillato nei mesi precedenti il 7 ottobre le piazze contro la riforma della giustizia, all’unico scopo di fare cadere il governo Netanyahu, inviso all’Amministrazione Biden dal giorno stesso del suo insediamento.

Se non si guarda a Washington non è possibile decifrare in modo chiaro cosa sta accadendo, perché è lì che si vuole decidere l’esito della guerra che Israele sta combattendo, è sempre lì che si vuole apparecchiare lo scenario postbellico, è lì che si vuole che Israele accetti un accordo con Hamas che ne comprometta la vittoria ma che consenta a Biden di intestarselo come successo. La sponda anti-Netanyahu che la Casa Bianca ha all’interno di Israele, sta lavorando alacremente affinché  ciò accada.

 

 

 

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