Massimiliano Di Pasquale, Direttore dell’Osservatorio Ucraina dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici di Roma, ucrainista, esperto di Paesi post-sovietici, già ospite altre volte de L’Informale ha voluto tracciare per noi lo scenario più aggiornato degli eventi che ruotano dentro e intorno al conflitto.
A più di un anno di distanza dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina, che bilancio possiamo fare della situazione in campo?
Non è facile fare un bilancio della situazione sul campo. Dal momento che non sono un analista militare, ma uno studioso di Ucraina e di disinformazione, mi limiterò ad alcune considerazioni di massima, nella consapevolezza che in questi 15 mesi di guerra diversi esperti hanno sbagliato le loro previsioni. Sarebbe interessante domandarsi perché le abbiano sbagliate, talvolta anche clamorosamente. Forse volevano accreditare la tesi che l’Ucraina sarebbe stata conquistata in qualche settimana da Putin e non aveva dunque alcun senso sostenerla economicamente e militarmente? Ancora oggi c’è qualche “analista”, le virgolette in questo caso sono d’obbligo, che sostiene che l’Ucraina sia stata sconfitta nel marzo 2022 e che dopo tale data sia iniziata una guerra della NATO contro la Russia! Quella della guerra per procura dell’Occidente contro la Russia è una delle narrazioni strategiche del Cremlino più diffuse. Solo che mentre nel resto d’Europa è per lo più limitata a blog “alternativi” o a siti filo-Cremlino, nel nostro Paese è veicolata anche da media mainstream e arriva addirittura in alcune trasmissioni della RAI.
In realtà alla fine di marzo 2022 Mosca aveva fallito il suo obiettivo di conquistare Kyiv e di sottomettere l’Ucraina e i russi avevano perso sul campo di battaglia quasi 10.000 uomini.
L’Operazione Militare Speciale di Putin lanciata il 24 febbraio 2022, che prevedeva la presa di Kyiv in 3 giorni e l’installazione di un governo fantoccio con a capo Viktor Medvedchuk, come ai tempi della sovranità limitata di Brezhnev, è fallita miseramente. Lo scenario Budapest 1956, Praga 1968, non si è verificato. Nonostante la sproporzione delle forze in campo Mosca, dopo le conquiste territoriali delle prime settimane, si è impantanata in una guerra che non riesce a vincere. Dall’altro lato la controffensiva degli ucraini, che hanno dimostrato una forza e un coraggio encomiabili, procede, per ammissione dello stesso Zelensky, più lentamente del previsto. Di sicuro la catastrofe ecologica provocata dai russi con l’esplosione della diga di Nova Kakhovka il 6 giugno di quest’anno ha rallentato la controffensiva nella oblast di Kherson e ha probabilmente costretto le forze armate ucraine a rivedere i propri piani.
Per vincere la guerra gli ucraini hanno bisogno di una copertura aerea adeguata. La fornitura di F-16 all’aviazione ucraina potrebbe cambiare le sorti del conflitto a favore di Kyiv. Finora l’Ucraina ha avuto a disposizione solo vecchi caccia di provenienza sovietica, come i Mig-29 e i Su-27.
Non sono un analista militare ma credo che per assicurarsi il successo sia necessario liberare la Crimea. La Crimea è un hub fondamentale per riprendere il controllo sul Mar Nero e sul Mare d’Azov e quindi procedere alla liberazione delle oblast orientali agendo congiuntamente su due fronti.
Perché questo piano abbia una buona probabilità di riuscita Kyiv deve poter disporre di forze armate adeguatamente addestrate e soprattutto degli F-16.
Alla luce del modo in cui si è evoluto il conflitto in Ucraina, come sono cambiate le relazioni israelo-ucraine? È noto il buon rapporto personale e politico tra Putin e Netanyahu, come potrebbe influire sulle vicende russo-ucraine?
L’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte del Cremlino ha scosso le coscienze della comunità ebraica ucraina ma anche di quella russa se è vero che in questi mesi molti ebrei sono fuggiti dalla Russia per sottrarsi all’oppressione di Putin. Diverso è il discorso delle relazioni diplomatiche tra Kyiv e Gerusalemme dove da parte di Israele prevale molta più cautela. Non credo che ciò sia dovuto al rapporto personale tra Putin e Netanyahu, ma una politica estera che è sempre stata piuttosto morbida, mi si passi questo termine, nei confronti di Mosca a causa del ruolo giocato dalla Russia nello scacchiere medio-orientale in particolare in Siria.
Quello che trapela da Kyiv è una certa frustrazione per il mancato supporto militare all’Ucraina da parte di Gerusalemme. Un mese dopo l’inizio dell’invasione russa, nel febbraio 2022, Volodymyr Zelensky chiese ai parlamentari israeliani di sostenere militarmente il suo Paese o di applicare almeno le sanzioni internazionali contro Mosca e i suoi oligarchi. L’esecutivo di Naftali Bennett si rifiutò di abbandonare la posizione di neutralità limitandosi a fornire qualche aiuto umanitario. Nemmeno le feroci campagne antisemite della Russia contro il presidente Zelensky, che vanno avanti senza soluzione di continuità da 17 mesi, hanno cambiato la posizione neutrale di Israele.
Nei mesi scorsi l’amministrazione statunitense ha fatto pressioni sul governo di Netanyahu affinché aumentasse il suo sostegno all’Ucraina fornendo anche aiuti militari. Nonostante l’invito di Washington Israele sembra destinato a mantenere un approccio per così dire “non allineato” al conflitto in Ucraina, nel tentativo di preservare i suoi interessi regionali. L’invio di armi letali sicuramente non avverrà, potrebbero invece arrivare a Kyiv proiettili d’artiglieria appartenenti agli Stati Uniti, che al momento stazionano in Israele. Israele continuerà invece a fornire aiuti umanitari all’Ucraina, compresa l’accoglienza dei rifugiati.
Difficile fare delle previsioni su un eventuale ruolo di Israele quale mediatore del conflitto tra Russia e Ucraina. Personalmente se dovessi scommettere punterei più sulla Turchia.
I filorussi accusano l’Occidente di aver organizzato o fomentato delle rivolte antirusse in alcuni Paesi dell’ex URSS, tra cui l’Ucraina, definite “rivoluzioni colorate”. Quali sono le origini e il significato di tali rivolte?
Le accuse rivolte all’Occidente, come ho sottolineato sopra, rientrano nella visione paranoica del Cremlino, secondo cui nessuna protesta di massa o rivolta civile può avere luogo senza la manipolazione di cinici attori dietro le quinte, siano essi Soros, la CIA, gli Stati Uniti, la NATO, il Fondo Monetario Internazionale, le lobby ebraiche etc.
Le rivolte sociali o le proteste politiche sarebbero dunque orchestrate da forze straniere potenti, ovvero l’Occidente, e non sarebbero mai l’espressione spontanea dell’attivismo o del risentimento della popolazione.
Il Cremlino ricorre al pensiero complottista perché sostanzialmente è incapace di comprendere il concetto di libero arbitrio. Per Mosca è inconcepibile che nazioni, in teoria libere e sovrane come Georgia, Ucraina e Moldova, vogliano determinare il proprio futuro in autonomia e guardino come modello all’Europa dei diritti e delle libertà. Potremmo dire che per il Cremlino è impensabile che una persona sana di mente possa prendere le distanze dal mondo russo e quindi l’unica spiegazione plausibile è che si trova sotto l’influsso della manipolazione dell’Occidente Collettivo.
Di recente abbiamo visto alcune proteste, definiamole, per semplicità, “filo-occidentali”, in Georgia. Qual è lo stato dei rapporti tra Georgia e Russia?
Le tensioni tra Tbilisi e Mosca risalgono al 2003, ai tempi della Rivoluzione delle Rose. Il 2 novembre 2003 si tengono in Georgia le elezioni parlamentari. Osservatori locali e internazionali sostengono che il voto sia stato viziato da pesanti brogli elettorali. A Tbilisi l’amministrazione di Shevardnadze fa credere che il numero dei votanti presso l’ambasciata georgiana a Mosca (tutti a favore degli uomini di Shevardnadze), ammonti a ben 90.000 unità, mentre lì in realtà hanno votato non più di 500 georgiani!
Il giovane candidato riformista e filo-occidentale Mikheil Saakashvili, che sostiene, anche in base ai dati di exit poll indipendenti, di essere lui il vincitore, esorta i georgiani a scendere in piazza per manifestare contro il governo. Il 22 novembre 2003, giorno in cui Shevardnadze avrebbe dovuto parlare davanti al Parlamento annunciando l’inizio di una nuova sessione parlamentare e quindi convalidando i massici brogli elettorali, i leader dell’opposizione Saakashvili, Burdzhanadze e Zhvania si dirigono verso il Parlamento assieme ai loro militanti. L’armata pacifica composta di giovani sbracati, contadini disarmati e ragazze munite di rose entra nella sala del Parlamento e chiede a Shevardnadze di andarsene. Shevardnadze viene portato via dalle guardie del corpo e il giorno dopo accetta di dimettersi a patto che sia garantita la sua sicurezza personale.
In attesa della ripetizione del voto, fissata per il 4 gennaio 2004, la guida del Paese viene affidata a Nino Burdzhanadze. Alle elezioni di gennaio Mikheil Saakashvili viene eletto presidente della Georgia con il 96% dei voti. È il più giovane presidente di uno stato europeo. Governerà per due mandati, il primo dal gennaio 2004 al novembre 2007, il secondo dal gennaio 2008 al novembre 2013 caratterizzato dall’invasione russa nell’agosto 2008.
L’8 agosto 2008 la Russia entra in guerra contro la Georgia, teoricamente per difendere l’enclave georgiana dell’Ossezia del Sud. Il 12 agosto l’avanzata russa in territorio georgiano viene fermata grazie a un cessate il fuoco negoziato dal presidente francese Nicolas Sarkozy.
Quando il 17 novembre 2013 sulla poltrona presidenziale sale Giorgi Margvelashvili, l’uomo di fiducia dell’oligarca Bidzina Ivanishvili, vicino al Cremlino, in Georgia inizia un processo di normalizzazione volto a sconfessare il corso liberale ed europeista impresso dal giovane e carismatico Saakashvili.
Le manifestazioni di protesta dei mesi scorsi a Tbilisi, che hanno costretto il partito al governo, Sogno Georgiano, a ritirare il disegno di legge sugli agenti stranieri, simile a quella in vigore in Russia per mettere al bando le ONG, fotografano un Paese in cui la stragrande maggioranza della popolazione è filo-occidentale e filo-ucraina (a differenza della vicina Armenia, che ha inviato il battaglione ARBAT a combattere in Donbas contro gli ucraini), e un governo pericolosamente vicino a Mosca.
Facendo dei parallelismi storici l’attuale situazione in Georgia ricorda quella ucraina ai tempi di Yanukovych con un regime cleptocratico legato a Mosca, una popolazione che guardava all’Europa e il principale leader dell’opposizione, Tymoshenko, in carcere.
Dall’ottobre 2021 Saakashvili, rientrato in Georgia dopo una parentesi politica in Ucraina, è detenuto nella struttura penitenziaria n. 12 di Rustavi, accusato di abuso d’ufficio e malversazione relativi ad episodi avvenuti nel 2007. La sua salute si è notevolmente deteriorata negli ultimi tempi. Alla fine di febbraio, l’Unione Europea ha protestato ufficialmente contro il governo georgiano chiedendo la liberazione di Saakashvili e il suo trasferimento in una clinica di cure in Polonia. Secondo le autorità georgiane la salute di Saakashvili è peggiorata a causa dei danni provocati dagli scioperi della fame da lui intrapresi e la clinica in cui è ricoverato fornisce cure mediche adeguate. Sulla vicenda sono intervenuti anche Amnesty International e Human Rights Watch, sollecitando le autorità georgiane a prendere provvedimenti per proteggere la salute dell’ex presidente, tra cui la scarcerazione per motivi di salute.
Quasi tutti hanno sentito parlare di Euromaidan, ma assai meno si conosce la “Rivoluzione arancione”. Cosa accadde in Ucraina in quel lontano 2004?
Nel novembre 2004 in una Kyiv autunnale già stretta nella morsa del freddo, gli ucraini scendono in piazza per protestare contro i brogli elettorali del regime del presidente uscente, Leonid Kuchma, per insediare alla presidenza, Viktor Yanukovych, candidato degli oligarchi del Donbas, gradito al Cremlino. Sfidando gelo e paura migliaia di cittadini lottavano per liberare il proprio Paese da un regime sempre più corrotto e autoritario, e avvicinarlo ai valori liberal-democratici dell’Europa. Alcuni politologi occidentali definirono, non a caso, quelle pacifiche proteste la “seconda caduta del Muro di Berlino” o ancora “la più elegante rivoluzione di tutti i tempi”.
La Rivoluzione Arancione si concluse positivamente senza alcun spargimento di sangue. Il 3 dicembre 2004 la Corte Suprema Ucraina annullò la consultazione del 21 novembre viziata da brogli elettorali e ordinò la ripetizione del ballottaggio per il 26 dicembre, poi vinto dal candidato dell’opposizione democratica Viktor Yushchenko.
La Rivoluzione del 2004 rappresenta uno snodo fondamentale della recente storia dell’Ucraina. Si assiste infatti, per la prima volta, al tentativo, da parte della società civile, di emancipare il Paese dall’eredità politico-culturale sovietica e di affrancarlo dal giogo moscovita trasformando l’indipendenza de jure conseguita nel 1991 in un’indipendenza de facto.
La Rivoluzione Arancione ed Euromaidan sono rivolte popolari pacifiche (anche Euromaidan nasce come protesta pacifica di studenti e si radicalizza solo dopo l’intervento violento della polizia antisommossa) che hanno il loro epicentro in Maidan Nezalezhnosti a Kyiv e poi si propagano a macchia d’olio in tutto il Paese. Entrambe si caratterizzano per estenuanti situazioni di stallo con il governo che si protraggono nel 2004 per alcune settimane, nel 2013 per tre mesi, con i dimostranti che, incuranti delle temperature polari, non abbandonano le tendopoli finché non si giunge a un accordo con le autorità governative.
L’obiettivo della protesta è sempre il regime corrotto di Viktor Yanukovych. Nel 2004 la gente scende in piazza per denunciare i brogli elettorali effettuati dall’amministrazione di Kuchma e dall’entourage di Yanukovych, allora primo ministro, per farlo salire sullo scranno più alto del Paese, ossia il palazzo presidenziale; nel 2013 invece il popolo ucraino occupa Maidan Nezalezhnosti per chiedere le dimissioni di Yanukovych, che eletto presidente nel febbraio 2010, nell’arco di 3 anni e mezzo ha trasformato l’Ucraina in un regime cleptocratico e semidittatoriale caratterizzato da corruzione e inefficienza, svendendo gli interessi nazionali alla Russia di Putin.
I leader delle due rivoluzioni reclamano per l’Ucraina una democrazia liberale sul modello occidentale e dei Paesi della UE; in entrambi i casi Mosca condanna questi rivolgimenti popolari dichiarandoli illegittimi e fomentati dall’Occidente.
Nel 2004 l’opposizione parlamentare, rappresentata da Nasha Ukrayina, il partito di Viktor Yushchenko, BYuT, la formazione di Yuliya Tymoshenko e dal Partito Socialista di Oleksandr Moroz, gioca un ruolo fondamentale nello spingere la gente in piazza per chiedere la ripetizione del voto. Nel caso di Euromaidan le proteste che iniziano il 21 novembre 2013, appresa la notizia che Yanukovych non firmerà l’accordo di associazione economica con la UE, sono assolutamente spontanee e colgono l’opposizione parlamentare finanche impreparata, sintomo questo di un diffuso malessere sociale, di uno scollamento tra la gente comune e la politica e dell’esistenza di una società civile ancora più matura ed emancipata rispetto a quella del 2004.
Qualche settimana fa la Fondazione Germani ha pubblicato uno studio sulla disinformazione messa in atto dal Cremlino. Può esporci, in sintesi, i contenuti del paper?
Lo studio pubblicato nel mese di giugno è il terzo rapporto analitico sul tema della dezinformatsiya e delle misure attive in Italia. L’Istituto Germani nei mesi di gennaio, febbraio e marzo 2023 ha organizzato a Roma tre convegni su questo tema con esperti nazionali e internazionali. I tre report, scaricabili gratuitamente dal sito, approfondiscono le narrative strategiche russe discusse in questi seminari ossia quelle relative alla guerra in Ucraina, quelle sulla minaccia nucleare e sulla NATO e quelle relative alla decadenza dell’Occidente.
Prima di esporre il contenuto dell’ultimo report vorrei spendere qualche parola su alcuni concetti chiave che ci aiutano a inquadrare il problema della dezinformatsiya e delle misure attive. La disinformazione, la propaganda e le narrazioni strategiche sono fenomeni che si inquadrano nel tema più ampio della guerra cognitiva, una forma di guerra in cui la mente umana rappresenta il campo di battaglia. Nel XXI secolo essa si avvale di nuove tecnologie digitali, social media, intelligenza artificiale e avanzamenti nelle neuroscienze e nelle neurotecnologie. La guerra cognitiva promossa da Stati avversari rappresenta una delle principali minacce alla stabilità e alla sicurezza delle democrazie occidentali. Le grandi potenze autocratiche del mondo non-occidentale – soprattutto Russia, Cina e Iran – ricorrono sistematicamente alla guerra cognitiva sia all’interno (per controllare le proprie popolazioni) sia all’estero, per tentare di influenzare e destabilizzare le democrazie occidentali tramite la diffusione massiccia di narrazioni strategiche false o fuorvianti.
Una narrazione strategica è un mezzo di cui si avvale un attore politico per costruire un significato condiviso del passato, del presente e del futuro delle relazioni internazionali al fine di plasmare le opinioni e condizionare i comportamenti di attori all’interno e all’estero. Tali narrazioni mirano a creare una percezione distorta della realtà, nell’opinione pubblica e nei decisori politici dei paesi-bersaglio, per favorire gli interessi geopolitici dello Stato aggressore.
La Russia di Vladimir Putin, uno degli attori geopolitici che praticano la guerra cognitiva con maggiore intensità e sistematicità a livello globale, ha elaborato una strategia di “guerra non-lineare” tesa a indebolire e sconfiggere l’avversario destabilizzandolo dall’interno tramite la disinformazione, la propaganda e altre tecniche sovversive, come il sostegno occulto a partiti politici anti-sistema etc.
La sfida della guerra cognitiva russa alle democrazie occidentali non può essere compresa correttamente se non si conosce la tradizione sovietica delle misure attive, di cui Vladimir Putin è erede e continuatore. Il termine sovietico “misure attive” (aktivnye meropriyatiya) abbracciava diverse tecniche di influenza e destabilizzazione politica e psicologica utilizzate dal KGB e dal Partito Comunista Sovietico (PCUS) che, secondo la visione sovietica, dovevano favorire l’indebolimento progressivo ed eventuale collasso dell’Occidente capitalistico, e la parallela espansione del sistema comunista in tutto il mondo.
L’ultimo lavoro si occupa delle narrazioni strategiche relative al tramonto dell’Occidente “decadente e nichilista” e al fallimento delle democrazie liberali diffuse in Italia da media russi attivi nel nostro Paese, da media autoctoni filo-Cremlino e da opinion maker influenzati dal Cremlino, e analizza la loro evoluzione anche in relazione agli eventi chiave che hanno interessato la politica internazionale nell’ultimo decennio quali la crisi migratoria, il terrorismo jihadista, la pandemia da COVID-19, la guerra in Ucraina.
Nella parte iniziale del lavoro viene spiegato il concetto sovietico di “misure attive” e vengono esaminati i principali fattori storico-politici e culturali che hanno reso la società italiana più permeabile all’influenza delle narrazioni strategiche filo-Cremlino.
La seconda parte dello studio analizza la natura del regime putiniano e la sua ideologia, approfondisce il concetto di Occidente Collettivo e passa in rassegna le quattro macro-narrazioni (le élite contro il popolo, i valori minacciati, la sovranità perduta, l’imminente collasso) storicamente utilizzate dal Cremlino per attaccare l’Occidente e la democrazia liberale.
Nella terza parte il paper analizza le principali narrazioni sul tema del tramonto dell’Occidente e del fallimento dell’ideologia liberale diffuse dalla versione italiana di Geopolitika.ru, da Sputnik Italia e da altri “media alternativi” italiani che amplificano le narrative strategiche della propaganda russa.