Il fallimento di Oslo è la pietra tombale delle fantasie basate sulla pace in cambio di terra, è il fallimento di tutti i promotori di dialogo con chi nel dialogo vede solo debolezza e una occasione di vantaggio, è il fallimento degli sfamatori di coccodrilli speranzosi di ammansirli. Nonostante ciò, la sinistra israeliana continua a perpetuare l’esiziale convinzione che continuando a concedere al nemico ciò che esso vuole, si otterranno buoni risultati. Il cedimento di Yitzhak Rabin negli anni ’90 alle sirene dei “pacificatori” Shimon Peres e Yossi Beilin è stato la causa di un errore politico di cui Israele sta ancora oggi, nel 2017, pagando le amare conseguenze.
Dobbiamo a questo terzetto, animato dalle “migliori intenzioni”, quelle che lastricano la strada per l’inferno se il lord of terror, Yasser Arafat, all’epoca in grande calo di popolarità nel mondo arabo dopo avere dato il proprio appoggio all’invasione irachena del Kuwait, tornasse riabilitato dal suo esilio a Tunisi per instaurare il proprio dominio terroristico-mafioso nella West Bank e farne lì la centrare operativa del terrore.
Perché?
Perché nella testa di Yossi Beilin, seguito con ardore da Peres e più riluttanza da Rabin, il terrorismo un volta che fosse stato messo nelle condizioni di deporre le armi e la violenza e venire responsabilizzato come potenziale nation builder, si sarebbe ammansito e avrebbe cambiato pelle. Si tratta di un meccanismo incistato nella psiche riformista, l’omicida, il terrorista è in fondo, al di là dell’estremismo, un pragmatico emendabile attraverso le giuste concessioni. Questa medesima ideologia suicida l’abbiamo vista recentemente all’opera nel negoziato sul nucleare fortemente voluto da Obama con l’Iran.
Ma la realtà diserta sempre le menti rimpinzate di antropologia guasta e fissazioni astratte. Risultato? La radicalizzazione dell’odio nei confronti di Israele e il conseguente incremento del terrorismo.
Nei due anni e mezzo dalla firma degli accordi di Oslo del 1993, alla caduta del governo laburista nel 1996, vennero uccisi a causa di attacchi terroristici 210 israeliani, tre volte di più che nei precedenti ventisei anni.
La guerra voluta da Arafat e introdotta in Israele come un cavallo di Troia dal terzetto per la pace il quale credeva di trasformare i lupi in docili agnelli, costò allo Stato ebraico, 1,028 vite israeliane a seguito di 5,760 attacchi. Di queste vittime, 450 (il 43,8 %) morirono a causa di attacchi suicidi, una tecnica praticamente ignota prima degli accordi di Oslo. Questo il computo fino alla morte di Arafat nel 2004. Nel totale, dalla firma degli accordi alla fine delle seconda intifada, l’8 febbraio del 2005, le vittime israeliane sono state 1600 e i feriti 9,000.
Ad Arafat non parve vero potere avere una simile occasione per rivitalizzare il jihad contro Israele offertogli nel cuore stesso dello stato. Quando si giunse agli accordi di Oslo, dopo che quelli di Camp David del 1978 erano stati rigettati dal leader dell’OLP, egli aveva già mostrato da tempo la sua totale inaffidabilità e doppiezza. Da una parte c’erano i discorsi rivolti al pubblico occidentale concepiti per ingraziarsi le sue simpatie, dall’altra quelli in arabo rivolti ai militanti e al popolo palestinese, tra cui spicca il “sermone” tenuto a Johannesburg il 10 maggio del 1994 nel quale Arafat fece esplicito riferimento alla necessità del jihad per liberare Gerusalemme, chiamando a raccolta il mondo islamico e rivendicando la città come primo sito sacro dell’Islam. Fu durante questa concione che paragonò l’accordo raggiunto con lo Stato ebraico a quello istituito nel VII secolo da Maometto con la potente tribù Quraish della Mecca. Nulla più che una “spregevole tregua”, disse Arafat in quella circostanza, citando le parole del Califfo Omar. Infatti, dopo solo due anni (l’accordo prevedeva una tregua quasi decennale), quando Maometto fu abbastanza forte, abrogò l’accordo e sterminò la tribù impossessandosi della Mecca.
Per Arafat l’accordo firmato a Oslo nel 1993 sulla creazione di una area palestinese autonoma era solo una manovra tattica contingente come fece presente riferendosi alla storia islamica: ‘Noi rispettiamo gli accordi nello stesso modo in cui il Profeta Maometto e Saladino rispettavano gli accordi che firmavano’.
Il tragico errore del terzetto della pace fu quello di attribuire a Arafat e all’OLP il ruolo preminente nel processo interlocutorio. Di fatto, gli accordi di Oslo sono stati il mezzo per levare Arafat dal cono d’ombra in cui si trovava e rimetterlo nuovamente sotto i riflettori e incrementare esponenzialmente l’estremismo palestinese contro Israele.
Oslo ha di fatto consentito al regime criminale di Arafat e dei suoi accoliti, perpetuatosi in quello corrotto e imbelle di Abu Mazen, di destabilizzare in modo drammatico la regione, sequestrando agli stessi palestinesi prospettive di benessere e futuro. Oggi, questa situazione incancrenita è lo scenario da affrontare. Il malato, la società palestinese nella West Bank e a Gaza, ostaggio del radicalismo e dell’indottrinamento, può solo essere curato attraverso un profondo cambiamento di dottrina da parte di Israele e del suo alleato principale, gli Stati Uniti.
Non certo con l’enorme quantitativo di denaro versato nelle casse dell’Autorità Palestinese, né con gli altrettanti copiosi fondi versati a Gaza, e nemmeno continuando la fallimentare politica di considerare alla pari per illusori negoziati, un partner assai più debole ma insidioso e subdolo.
Se i negoziati di Oslo hanno concesso troppo e condotto Israele alla situazione attuale è necessario che futuri negoziati siano impostati con la determinazione di portare al tavolo un partner a cui sia stata definitivamente tolta la velleitaria e illusoria prospettiva di distruggere Israele. Fino a quando Israele permetterà al radicalismo islamico incrementatosi negli ultimi ventiquattro anni in virtù del catastrofico errore commesso da Beilin, Peres e Rabin, di venire alimentato, non si potrà fare alcun concreto passo avanti.