Editoriali

Finire il lavoro

A marzo, Joe Biden dichiarava che un ingresso delle truppe israeliane a Rafah, avrebbe costituito una “linea rossa”, seguito a ruota dalla vicepresidente Kamala Harris, ora candidata alla presidenza degli Stati Uniti, la quale affermava che avendo “studiato le mappe”, una operazione militare a Rafah non era ptraticabile.

Gli Stati Uniti facevano da mosca cocchiera per il coro unanime internazionale che profetava un disastro di proporzioni apocalittiche se Israele avesse fatto il suo ingresso nella cittadina a sud di Gaza. Nonostante gli avvisi, o meglio, le intimazioni, a maggio Israele iniziava a Rafah l’operazione militare avente l’obiettivo di smantellare uno dei battaglioni ancora intatti di Hamas che vi si trovava asserragliato.  Secondo le informazioni in suo possesso, a Rafah si nascondeva anche il leader di Hamas, Yahya Sinwar, ed è infatti lì che ieri è stato ucciso dalle forze dell’IDF mettendo finalmente fine alla sua epopea criminale.

Se Netanyahu avesse dato retta alle intimazioni americane, oggi, con ogni probabilità, Sinwar sarebbe ancora in vita. Nulla di quanto previsto dal coro degli avversatori dell’operazione ha preso corpo, ma adesso il coro ha cambiato musica e si elogia Israele per avere ucciso l’architetto del 7 ottobre.

A posteriori, la strategia perseguita da Netanyahu e dai vertici militari al suo comando, si è rivelata vincente, lo rafforza politicamente e indebolisce il ruolo e il peso dell’Amministrazione Biden, che in questo anno trascorso dall’inizio della guerra ha tentato in tutti i modi di commissariarla e di avviarla lungo la propria traiettoria, che non era, non è quella di Israele.

Netanyahu ha condotto il gioco con grande abilità, concedendo al suo principale alleato quello che poteva, anche al prezzo di rallentare la guerra e di avvantaggiare Hamas, permettendo l’ingresso nella Striscia delle derrate alimentari che, in buona parte, Hamas ha saccheggiato, e quindi aprendo ai negoziati per la liberazione degli ostaggi, che gli americani hanno voluto a tutti i costi, ma che il premier israeliano sapeva non avrebbero condotto da nessuna parte a causa dell’irricevibilità delle richieste dell’organizzazione jihadista.

Nel discorso fatto ieri, dopo l’uccisione di Sinwar, Netanyahu si è rivolto quindi retoricamente a Hamas chiedendogli di deporre le armi e di liberare gli ostaggi, ben sapendo che ciò non avverrà e dando, anche in questo caso, un contentino al presidente americano uscente.

Finora la ragione è dalla sua parte, la decapitazione progressiva dei vertici di Hamas e lo smantellamento della sua struttura operativa all’interno della Striscia, stanno proseguendo a ritmo serrato e non ci sono motivi perché proprio adesso, avendo conseguito un grande successo, si debano fermare, soprattutto a solo venti giorni dalle elezioni americane che potrebbero consegnare nuovamente la Casa Bianca a Donald Trump.

Pochi mesi fa, a proposito dell’operazione militare a Gaza, Trump ha esortato Israele a “finish the job”, a completare il lavoro. È quello che Netanyahu si sta accingendo a fare.

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