Alcuni mesi fa, a febbraio per la precisione, mi sono recato in visita al complesso concentrazionario di Auschwitz-Birkenau, dove furono sterminate oltre un milione e centomila persone, perlopiù ebrei. Se nel campo principale, noto come Auschwitz I, quello a cui si accede varcando il cancello con la scritta «Arbeit macht frei», l’orrore è temperato dalla dimensione museale e memorialistica, fatta principalmente di pannelli esplicativi se si eccettuano la massa di capelli e gli effetti personali delle vittime conservati in alcuni edifici, nel campo di Birkenau l’abominio si presenta senza lo schermo della storiografia.
Non è un caso, forse, se molti figli e figlie di Israele si fermano a pregare sui binari di questo secondo campo, adibito in modo pressoché esclusivo alla selezione e all’omicidio di massa. A Birkenau la necessità della preghiera e dell’esorcismo si fa più intensa. La terra del campo è rossastra, la sua consistenza è grassa e pastosa, si appiccica alle scarpe come fango. È una terra innaffiata di cenere. Ricorda quella di Treblinka descritta da Vasilij Grossman.
A Birkenau c’è silenzio, ma non ci sono né riposo né pace. Ci si sente circondati da spettri, anche se il sole è alto e il cielo azzurro. Adiacenti il campo si trovano delle villette e viene spontaneo chiedersi come si possa vivere accanto a un simile carnaio, dal quale si alza come nebbia una perturbante inquietudine. Ci sono luoghi che non dimenticano nulla, che rimangono impregnati di tenebra.
La sera, rientrato nell’appartamento in cui alloggiavo, prima di andare a dormire, ho messo le scarpe sporche della terra di Birkenau fuori dalla porta. Mi turbava averle accanto al letto.
Nel complesso di Auschwitz-Birkenau si ha la certezza che la Shoah è stata l’espressione di un male radicale, sovrumano, metafisico. Numerosi studiosi, oggi, sono convinti che la distruzione del popolo ebraico sia stata messa in atto da uomini comuni, «banali», rimasti intrappolati all’interno di meccanismi socio-politici, circostanze storiche, attitudini mentali: discontinuità tra sfera pubblica e sfera privata, crescente specializzazione, mancanza di senso di responsabilità generata dalle catene di comando, attitudine all’obbedienza cieca, disumanizzazione delle vittime, fanatismo ideologico, godimento del potere da parte dei guardiani.
La combinazione degli elementi elencati non è sufficiente a causare un fenomeno quale la Shoah; essi infatti non rendono conto dell’eccesso di iniquità, sadismo e sofferenza manifestatisi nei ghetti e nei campi. Non spiegano i bambini bruciati vivi davanti alle madri, l’accanimento nei confronti degli anziani e degli infermi, l’immensità stessa del genocidio. La ragione non ce la fa.
Sono numerosi gli storici che hanno riconosciuto l’esistenza di un mistero inspiegabile nella storia del Novecento. François Furet in «Il passato di un’illusione», scrive: «C’è un mistero nella dinamica delle idee politiche del XX secolo». Sulla scia di questo mistero Alain Besançon ha affermato: «la storia non è sufficiente per spiegare fenomeni nuovi e sconosciuti».
Tutti i fattori prima elencati hanno coadiuvato la nascita di Auschwitz ma non l’hanno determinata. Ne sono il presupposto, non la causa. Affinché la Shoah diventasse possibile era necessario un reagente di natura metafisica, che non possiamo nominare se non in termini teologici: il Male, il Mysterium iniquitatis, o più precisamente: il Diavolo.
Se si studia l’Olocausto con attenzione, ci si rende conto che la teoria del male «radicale» non contraddice quella del male «banale». Il già citato Besançon sottolinea che «la persona angelica decaduta sopporta il massimo dell’impersonalità». Se nel volto umano, nella persona, si manifesta la presenza di Dio, coloro che sono divorati dal Male tenderebbero «asintoticamente verso l’impersonalità». In Auschwitz «non ha luogo il Santo Volto» scrive, non a caso, il pur laico Primo Levi.
Hannah Arendt ha ragione quando scrive che Eichmann, come tutti i carnefici, «è un uomo grigio, piccolo, un coglione»; ma sbaglia quando ritiene che questa mediocrità sia la prova che «il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca». La banalità e lo scialbore sono manifestazioni del demoniaco.
Primo Levi, che per tutta la vita ha cercato di spiegare razionalmente lo sterminio, senza peraltro esservi riuscito, ed è forse a causa di questo fallimento che si è tolto la vita, ci ha offerto la più eloquente testimonianza della sostanziale incomprensibilità di Auschwitz: sofferente per la sete, notò un ghiacciolo attraverso la finestra della sua cella e cercò di afferrarlo. Un guardiano glielo strappò via. «Warum?» («Perché?»), chiese Levi; «Hier ist kein warum» («Qui non c’è un perché»), rispose l’aguzzino.
La Shoah è stata un male assoluto – assoluto perché non più riconducibile a cause umanamente comprensibili. Tutti gli studi su Auschwitz non sono sufficienti a spiegare la radicalità del Male. I campi di concentramento erano l’inferno sulla terra e, secondo George Steiner, si nutrivano dell’immaginario infernale.
Heinz Thilo, medico delle SS, per descrivere Auschwitz usò l’espressione “Anus Mundi”. Gli uomini venivano divorati dal campo ed espulsi come scarti, come “merda”, e proprio così, i nazisti chiamavano i cadaveri. Nelle rappresentazioni medievali, compresa quella di Giotto, il diavolo è rappresentato nell’atto di mangiare e defecare i dannati. I campi di sterminio hanno rappresentato la fine di ogni ragione. “Qui non c’è un perchè”. Il diavolo abolisce ogni legame di causalità.
Se Dio, ossia il Lógos supremo, si situa al principio di tutte le cose, se è la forza generatrice di ogni ordine, di ogni senso, di ogni significato, di un mondo che si dona alla comprensione; il suo opposto non può che essere l’informe, l’inintelligibile, l’a-logico, in definitiva ciò che è privo di senso e di parola, come il piccolo Hurbinek, il bambino senza linguaggio nato nelle baracche del campo.
Ad Auschwitz si percepisce il male, ma non lo si capisce. Nulla si può veramente comprendere (e dire) di ciò che, opponendosi al Lógos, sfugge alla ragione e alla parola.