Nel nuovo e poderoso libro di Ugo Volli, Musica sono per me le tue leggi. Storie di Davide, re di Israele (La Nave di Teseo) la prima cosa che cattura il lettore è il tono con cui è narrata la storia del suo protagonista, Davide, il leggendario re biblico di Israele. È il tono di chi ha afferrato questo personaggio umano troppo umano e al contempo bigger than life, da una dimensione in cui ha saputo farsi ragazzo, per non dire fanciullo, quella in cui non si sa rinunciare all’irretimento della fabula, alla necessità di preservarne intatto l’alone oscuro e luminoso.
Non c’è una parola del libro che non rampolli da questo spazio “magico” dentro cui l’autore si è trovato ad abitare durante la scrittura. La limpidezza della prosa, così essenziale e fluida ne è una diretta conseguenza.
Ugo Volli è chiaramente ben consapevole che colui di cui racconta le gesta non ha la fisionomia pura del personaggio storico oggettivo ma è calato ab origine nella leggenda e nel mito, vive e respira dentro l’arco di una narrazione sacra in cui praticamente ogni accadimento ha ripercussioni che vanno al di là della sfera umana.
Nel raccontare Davide, ha dunque scelto, o è stato portato naturalmente a scegliere, di calarsi lui stesso all’interno di un registro narrativo in cui si è fatto contemporaneo di ciò che narra aderendo a un tempo che è dentro e fuori dalla storia, impastato di realtà e mito, di fatti e simboli.
Quando la scrittura diventa ancella di ciò di cui tratta, sa trasformarsi in servizio appagato e appagante, perché non c’è dubbio che Volli nello scrivere questo libro terso che scorre come un romanzo avvincente è stato felice. È la felicità stessa che sa donare al lettore nel leggerlo, nel trovarsi insieme a Davide e Gionata, Samuele e Saul, Betsabea e Uria e Assalonne, nel assaporare l’Israele tribale, feroce e numinoso che fa da cornice alle gesta di Davide.
Occorre dirlo, questo è un libro devoto, non in senso strettamente religioso, ma nell’unico modo in cui può esserlo un libro che si scrive perché si deve scriverlo, ovvero, perché si sente proprio e inderogabile l’oggetto a cui dedicare il proprio impegno.