La guerra di Israele contro i suoi nemici arabi non è mai stata vinta completamente. Le guerre vinte sul campo sono indubbiamente prove inequivocabili della sua superiorità militare e tecnologica, così come ne è prova la straordinaria efficienza con cui la sicurezza dello stato ha, dalla terribile Seconda Intifada in poi, sempre più circoscritto il numero degli attentati. Ma, se tutto ciò è vero, è altrettanto vero che sul piano della propaganda, della narrativa consolidata ed egemone, Israele la guerra non l’ha affatto vinta.
La narrativa propalestinista, secondo la quale Israele sarebbe uno stato usurpante terre arabe e i palestinesi un popolo autoctono costretto all’esilio (vedi alla voce rifugiati) o vittima di massacri, angherie e soprusi, ha fatto grande breccia in buona parte dell’opinione pubblica mondiale.
Questa narrativa fraudolenta finora non è stata efficacemente combattuta. Alla strategia di comunicazione razionale israeliana, basata puntualmente su fatti, statistiche, dati oggettivi, la strategia araba ha opposto una fiction basata interamente sulla emotività, un epos straziante costruito sul binomio oppositivo archetipico carnefici/vittime. Si tratta di un canovaccio vincente perché fondato sulla primarietà delle emozioni, sull’istinto, sulla visceralità. Di fronte a questo magma pulsionale, l’ordine luminoso che promana dal logos viene travolto. Hamas questo lo ha capito molto bene, come, prima di esso, lo aveva capito l’OLP.
Ogni guerra che Israele è costretto a fare per difendersi dalle aggressioni dei suoi nemici diventa occasione ghiotta per mostrare al mondo i morti, soprattutto le donne e i bambini, e così lucrare sull’indignazione attizzando l’odio nei suoi confronti e, inevitabilmente, nei confronti degli ebrei, sui quali a cascata tornano a essere rovesciate tutte le accuse infamanti del passato.
Dunque?
Dunque si tratta di essere lucidamente consapevoli di questa amara realtà e al contempo di vedere che, malgrado tutto questo, Israele ha un grosso e irrefutabile vantaggio sui suoi avversari. Israele funziona, è prospero, felice. Nonostante sia sempre minacciato, ha una economia fiorente, una tecnologia tra le prime al mondo, una qualità di vita alta, offre un modello di pluralismo democratico unico in tutto il Medioriente. E questo è dovuto al fatto che ha saputo scommettere incessantemente sulla vita e sul futuro. Basta passeggiare per Tel Aviv, cuore pulsante della sua economia, per rendersene conto. I cantieri sono perennemente aperti, i grattacieli continuano a sorgere, la gioventù israeliana, tra le più belle e sane al mondo, è nei caffè, nei pub, nei ristoranti, all’aperto, fino a tardi. Dall’altra parte invece c’è un mondo rinchiuso nel perimetro angusto di tribalismi e autocrazie, dove il futuro è solo inteso come una perenne lotta per il potere e il controllo su una popolazione cresciuta nel risentimento e nella menzogna, un mondo che ha già perso il treno per l’avvenire da più di un secolo perché non ha mai voluto cogliere davvero la grande opportunità di potere crescere autonomo insieme a uno stato moderno e creativo al massimo.
Dunque?
Dunque loro sono là, perdenti nei fatti e nella storia, alla quale possono solo sostituire un racconto intessuto di falsità che, pur ottenendo il plauso di tanti, affatturati dal suo alone ipnoticamente menzognero, li lascerà però costantemente dove sono, mentre Israele continuerà incessantemente ad andare avanti.