Chi immaginava che il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca avrebbe iniettato a Israele un tonico di rinvigorimento muscolre allargando per Benjamin Netanyahu l’orizzonte della vittoria sui nemici dello Stato ebraico, ha dovuto in questi giorni riconvertirsi rapidamente alla realtà.
Il primo atto di Trump non ancora insediato, a pochi giorni prima del giuramento, è stato quello di obbligare Netanyahu a un accordo con Hamas, e dunque a quel cessate il fuoco che per mesi, invano, l’Amministrazione Biden aveva tentato di fargli siglare.
A maggio dell’anno scorso, Joe Biden dichiarò che Israele poteva accettare l’accordo con Hamas in quanto la capacità offensiva di quest’ultimo era stata drasticamente limitata e non sussistevano più le condizioni per un altro 7 ottobre. Sottinteso al ragioamento di Biden era che Hamas seppure fortemente indebolito continuasse a permanere a Gaza.
Se, come tutto lascia supporre, Hamas ottempererà ai termini dell’accordo, che prevedono la progressiva consegna degli ultimi ostaggi in cattività e quindi la cessazione completa della guerra, Trump sarà l’esecutore materiale della volontà del suo predecessore.
I ruoli, d’altronde, si invertono. Nel 2020 fu Trump a siglare con i talebani l’accordo per l’uscita di scena degli Stati Uniti dall’Afghanistan dopo vent’anni di permanenza e fu quindi Biden, che gli succedette, a eseguire l’esito, seppure in modo disastroso.
Trump è, prima di ogni altra cosa un immobiliarista, non si scopre adesso, la sua stella polare sono i negoziati, ed è con i negoziati che ritiene di risolvere i problemi, il politico è solo un fattore secondario che il negoziato può addomesticare. Non è un caso se per forzare Netanyahu a un accordo con Hamas, Trump abbia scelto un altro immobiliarista, Steven Witcoff, al quale ha anche delegato il dossier sull’Iran.
Tra pochi giorni Netanyahu sarà faccia a faccia con Trump nella sua veste piena di presidente in carica. Cosa si diranno non lo sa nessuno, ma i segnali finora pervenuti lasciano supporre che l’impostazione che Trump prevede per il Medio Oriente sia quella di spegnere le braci non di attizzarle. Ciò significa che la guerra a Gaza non potrà riprendere e che Netanyahu dovrà accettare che Hamas vi permanga con il correttivo di ottenere in cambio ulteriori incentivi per la deterrenza, ma nulla più di questo. È probabile che gli venga prospettato che il semaforo verde per colpire i siti nucleari iraniani dovrà attendere, in quanto verrà usato come minaccia per consentire prima a Trump, tramite Witcoff, di aprire un negoziato con Teheran.
In sintesi, Israele dovrà accettare che la vittoria intesa come si è sempre intesa, ovvero sconfitta del nemico sul campo di battaglia, sua resa, con conseguente occupazione, anche se limitata nel tempo, del territorio da lui governato, va posta sugli scaffali della storia. Sicuramente non lo è nella prospettiva di questa amministrazione, come non lo era in quelle precedenti post Bush jr.
Il problema di questa prospettiva morbida è che la forza negoziale non può soppiantare quella militare, e che nessuna guerra è stata mai vinta con gli accordi ma solo quando uno o più dei contendenti in lizza è stato costretto ad accettare la sconfitta.
Per attori come Hamas e l’Iran totalmente motivati dall’ideologia e quindi dal politico, nulla è più vantaggioso che guadagnare tempo, facendo credere di esseresi addomesticati e quindi preparare un’altra guerra.