Ci sono due date che Alberto Mieli non potrà mai, suo malgrado, dimenticare.
La prima è quella del 16 ottobre 1943, quando iniziarono i rastrellamenti dei nazisti nel ghetto di Roma. «Credevamo prendessero solo gli uomini per mandarli a lavorare, invece purtroppo presero bambini, donne incinta, vecchi e malati; 1200 persone. In giro per la città c’erano dei delatori, per tremila lire vendevano la vita di un uomo».
Non fu fortunato. Costretto a nascondersi con i suoi famigliari in una casa dietro al Ministero di Grazia e Giustizia, è stato l’unico catturato tra gli otto fratelli. Gli altri riuscirono a trovare ospitalità presso famiglie della Garbatella, quartiere popolare in cui i Mieli vivevano.
A incastrare Alberto Mieli sono stati due francobolli della Resistenza che qualche giorno prima gli erano stati dati da due partigiani, in cambio di dieci lire. Per quei francobolli è stato picchiato e torturato, portato nel campo di Fossoli e poi ad Auschwitz.
La seconda data è quella forse più drammatica: 10 aprile 1944. Quel giorno Alberto Mieli è giunto ad Auschwitz. In occasione di una conferenza organizzata nel 2010 per onorare il Giorno della Memoria, ha ricordato:
Ho subito le peggiori sofferenze. Fui liberato il 5 maggio 1945 dalle truppe americane e fui rimpatriato alla fine di luglio del 1945. L’Olocausto fu uno dei peggiori genocidi che memoria d’uomo ricordi, ma soprattutto un’offesa all’umanità: in quell’orrore furono uccisi 11 milioni tra ebrei, cattolici, protestanti, evangelici, gitani e omosessuali
Atrocità che ancora oggi fa fatica a raccontare:
Nessuna mente umana può immaginare che cosa facessero ad Auschwitz. Uccidevano per la malvagità di uccidere. Era una cosa indescrivibile. Non avevano nessun rispetto per la vita umana. I bambini di due-tre mesi, presi per i piedini, lividi di freddo, li facevano dondolare e poi con violenza li lanciavano in aria e gli sparavano come se fossero stati dei volatili. Una malvagità incredibile. Prendevano ragazze, appena adolescenti, le portavano nelle baracche adibite a bordelli
Una crudeltà disumana, che ha cancellato l’umanità di chi l’ha perpetrata e la dignità di chi è stato costretto a subirla. Sul braccio di Alberto Mieli è stato tatuato un numero, come a tutti i deportati. Il suo era il 180060.
Eri un numero, non un essere umano. Mi salvai perché mi mandarono a lavorare nelle fabbriche di guerra a Sosnowiec, c’era un poco più di mangiare ed ho avuto la fortuna di lavorare con civili.
E ancora, la lunga, estenuante, marcia di 620 km per arrivare al confine con la Cecoslovacchia:
Avevamo perso la cognizione del tempo. Eravamo lerci, non ci facevano lavare e la notte dormivamo in mezzo alla fanghiglia delle bestie. Ci rinchiusero poi per sei giorni nei vagoni piombati, senza acqua e senza cibo. Molti morivano e i corpi venivano messi lungo le pareti dei vagoni. Di notte li usavamo come cuscini; a volte ti voltavi e ti trovavi col viso del morto davanti.
A distanza di anni, le ferite non si rimarginano e i ricordi restano indelebili.
Ad Alberto Mieli non sono stati tolti solo libertà, dignità, diritti, ma anche la possibilità di continuare gli studi. Già cacciato da scuola per motivi razziali all’età di 12 anni, ne aveva solamente 17 in quel maledetto 16 ottobre 1943. Non ha più potuto andare a scuola né laurearsi.
Almeno a questo, settant’anni dopo, è stato posto rimedio. L’Università degli studi di Foggia ha deciso di “compiere un atto di risarcimento”, come l’ha definito il rettore Maurizio Ricci, assegnandogli la laurea honoris causa in “Filologia, Letterature e Storia” .
Martedì scorso la cerimonia (nella foto di Antonietta Pistone, Alberto Mieli è il primo a sinistra) nell’aula magna del Dipartimento degli studi umanistici.
Con Alberto Mieli si sono complimentati su twitter vari esponenti politici tra cui Mara Carfagna, Giovanni Toti, Daniele Capezzone, Ivan Scalfarotto, Anna Maria Bernini.
Il ragazzo che non poteva più entrare a scuola perché “non era degno in quanto ebreo”, come gli disse il preside, è diventato nel 2015 un novantenne laureato. Sopravvissuto alla Shoah.