A Pittsburgh, nello stato americano della Pennsylvania, un suprematista bianco con simpatie neonaziste ha fatto irruzione in una sinagoga e ha sparato al grido di “Tutti gli ebrei devono morire”. Ha colpito chiunque gli capitasse a tiro, uccidendo undici persone e ferendone altre sei tra fedeli in preghiera e poliziotti. Ha approfittato della festività dello shabbat per uccidere il maggior numero di ebrei possibile, come da unico suo intento.
Un attacco terroristico in piena regola con il movente dell’antisemitismo. Robert Bowers, 46 anni, probabilmente pianificava questa strage da tempo e aveva lasciato indizi sui social network, manifestando idee deliranti e complottiste e non nascondendo il suo odio nei confronti degli ebrei. Poche ore prima della strage aveva dedicato un post persino al presidente statunitense Donald Trump definendolo “marionetta degli ebrei” e accusandolo di essere un “globalista” anziché un nazionalista. Era armato fino ai denti: ha usato un fucile AR-15 ed era in possesso di diverse pistole.
Se il movente antisemita è purtroppo palese, restano tanti gli interrogativi. Uno su tutti: perché è successo?
Una possibile risposta incute ancora più timore della domanda stessa: è accaduto perché quella sinagoga di Pittsburgh non era protetta. Non c’erano poliziotti, militari o anche semplicemente guardie private a vigilare nei dintorni e a controllare gli ingressi. Questo, in effetti, è ciò che accade in Italia e in altri paesi d’Europa: le sinagoghe non sono considerate luoghi di culto ma luoghi a rischio che necessitano controlli e protezione costante. A Torino, come a Milano, come a Roma, sono protette da presidi di militari dell’operazione “Strade Sicure”, i quali hanno l’obbligo di vegliare costantemente sulle sinagoghe e non sono autorizzati ad intervenire in altri ambiti. E’ la spiacevole eredità dell’orrendo attacco terroristico del 9 ottobre 1982 a Roma, in cui ha perso la vita il bambino di soli due anni Stefano Gaj Taché.
A Pittsburgh non era così, perlomeno fino ad oggi. Nessuno avrebbe ipotizzato un grave attentato contro la comunità ebraica locale. Non è mai stata presa in considerazione la minaccia dell’antisemitismo.
La strage di ieri segna un punto di non ritorno perché costringerà le comunità ebraiche statunitensi ad “europeizzarsi”, in primis affidando le sinagoghe a guardie di sicurezza private o perlomeno allestendo servizi d’ordine.
La consapevolezza di non poter più passeggiare per le strade con una kippah in testa, in Europa come negli Usa, o doversi recare a pregare in luoghi controllati se non addirittura militarizzati sarà di per sé una sconfitta. Per tutti.
Resta da chiedersi perché abbiamo perso. Una domanda che potrebbe essere utile.
Dove abbiamo sbagliato e per quale motivo non siamo stati capaci di prevenire e impedire tutto questo.
Forse, abbiamo perso quando abbiamo pensato di sminuire l’antisemitismo, rendendolo mero pretesto di strumentalizzazione politica e arma da brandire contro l’avversario di turno.
Abbiamo perso quando abbiamo usato l’antisemitismo come atto di accusa contro Islam e immigrati, da destra, e abbiamo perso quando lo abbiamo usato per screditare la destra accusandola di essere connivente con nazismo e fascismo, da sinistra.
Abbiamo perso quando ci siamo sforzati di capire, o di credere di comprendere, se l’antisemitismo fosse di destra o di sinistra e quale dei due schieramenti politici fosse più colpevole dell’altro.
Abbiamo perso quando ad ogni aggressione antisemita ad opera di un musulmano abbiamo commentato “Avete visto che i fascisti non c’entrano?” e ad ogni aggressione antisemita ad opera di un suprematista bianco abbiamo commentato “Avete visto che i musulmani non c’entrano?”, a seconda delle nostre idee e simpatie politiche.
Non abbiamo fatto nulla per evitarlo, perché ci piaceva questo rimpallo di accuse e probabilmente, negli anni a venire, sarà ancora il nostro sport preferito.