L’incontro di domani tra Benjamin Netanyahu e Donald Trump è irto di incognite. Chi si aspettava una incondizionata adesione alle ragioni di Israele, un assenso non problematico all’incremento degli insediamento e il trasferimento veloce dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, ha dovuto ricredersi. Il passo non è quello di Tomb Raider o di qualche altro videogame, ma quello più incerto di chi si è forse reso conto che in Medioriente si cammina sui gusci d’uovo. Donald Trump è il proverbiale elefante nella cristalleria. Lo abbiamo visto in campagna elettorale dove ha infranto uno dopo l’altro tutti i protocolli delle convenzioni politicamente consolidate per il gaudio della folla, ma lo Studio Ovale non è esattamente la Corrida, anche se è vero che le prime due settimane sono state iperattive e terremotanti, in modo particolare con l’ordine esecutivo sull’immigrazione, che al momento è stato neutralizzato. Gli anticorpi controrivoluzionari sono robusti e Steven Bannon dovrà forse riconsiderare la strategia, o forse no e sussurrerà ancora nell’orecchio del presidente qualcosa di dirompente.
Ma Israele è un altro paio di maniche. Gli esagitati dovranno darsi una pettinata e ricomporsi in generale. Dopotutto abbiamo già incassato l’annuncio che “gli insediamenti non sono un ostacolo al processo di pace”, sconfessione piena di uno dei capisaldi dell’Amministrazione Obama, incastonato in quel vero e proprio obbrobrio che è la Risoluzione 2334. E non mi sembra poco. Ma poi la Casa Bianca ha aggiunto che l’incremento degli insediamenti potrebbe ostacolare il processo di pace. Concetto che Donald Trump ha ribadito in un forma non condizionale nella sua intervista a Israel Hayom, il giornale più pro Netanyahu pubblicato in Israele.
“Gli insediamenti non aiutano il processo di pace. Lo posso affermare. C’è molta terra rimasta. E tutte le volte che viene presa della terra per gli insediamenti ne rimane di meno. Stiamo dando una occhiata alla cosa e stiamo considerando altre opzioni, vedremo. Ma no, non sono uno di quelli che ritiene che proseguire con questi insediamenti sia una cosa buona per la pace”.
Ora, magari domani dirà il contrario, ma non c’è da augurarselo, perché se dovesse dire il contrario domani, dopodomani potrebbe cambiare ancora idea, e Israele no, non ha bisogno davvero di una amministrazione americana che un giorno è sul pero e il giorno dopo è sul melo. Allora, paradossalmente, meglio una ostilità preconcetta come quella di Obama. Lì si andava sul sicuro. Niente da portare a casa.
Quindi per il momento bocce ferme, fermissime. L’augurio è che Trump si concentri bene, che lo abbiano fatto concentrare bene e che dall’incontro con quella vecchia volpe di Netanyahu, esca una linea chiara e sostenibile. I cori da stadio, gli incitamenti, gli spintoni non sono quello che serve a Israele.