Riprendiamo l’ottimo articolo con intervista a Nidaa Badwan, pubblicato su L’Avvenire a firma Emanuela Zuccaà.
Nidaa Badwan è un’artista palestinese nata ad Abu Dhabi, arrestata dai miliziani di Hamas nel 2013. Ancora oggi dice: “Paradossalmente il nostro problema più grave non è Israele, ma le restrizioni imposte da Hamas”.
La luce, obliqua e avara, filtra da una finestra troppo piccola, riuscendo a sfiorare appena gli oggetti sparsi per una stanza di tre metri per tre: una chitarra, ceste di frutta, una macchina da scrivere e una per cucire, disegni infantili appesi alla parete. E lei, la protagonista della scena dal volto semioscurato, posa con gesti morbidi nello spazio artificiale della prigione che s’è auto-inflitta per dimenticare quella vera, inespugnabile: la Striscia di Gaza.
L’artista palestinese Nidaa Badwan è nata ventinove anni fa ad Abu Dhabi ma da sempre abita qui, nella terra sigillata da Israele e dall’Egitto e soffocata dall’integralismo del partito islamico di Hamas. Un feroce oscurantismo che ha bandito la cultura, l’arte, la musica, i luoghi di ritrovo, spegnendo ogni speranza negli occhi dei giovani. «Ecco perché ho deciso di segregarmi per mesi nella mia camera» racconta Nidaa. «Non può esserci un prezzo per la libertà: noi veniamo al mondo già liberi. E se mi è negata, la costruirò nel mio spazio, per quanto angusto sia».
È il novembre del 2013 quando, per le strade del campo profughi di Deir al-Balah, dove Nidaa vive con la famiglia, i miliziani di Hamas l’arrestano. Non indossa il velo ma un berretto colorato; è con un gruppo di ragazzi. Ragioni valide per strattonarla, tenerla in cella tre giorni e farle firmare a forza l’impegno di mettersi il velo. Così lei inscena la sua personale rivolta e si auto-incarcera, affidando alla macchina fotografica i ritratti di un isolamento che è uno scalciare creativo e, insieme, un silenzio purificante dalla morte e dalla distruzione di cui Gaza odora.
Probabilmente Nidaa Badwan sognerebbe ancora tra quelle pareti color acquamarina, se la sua serie di ventiquattro autoritratti dal titolo Cento giorni di solitudine non fosse capitata tra le mani di un giornalista del New York Times: da allora si parla in tutto il mondo dei chiaroscuri quasi caravaggeschi della ragazza palestinese, come di istantanee emotivamente inedite della frustrazione che affligge i due milioni di abitanti della Striscia, in gran parte giovani e disoccupati. Cento giorni di solitudine è stata in mostra a Montecatini Terme, a Berlino, fino a settembre compare in una collettiva al museo danese Trapholt, e presto viaggerà verso Ginevra, New York, Hong Kong. Ma Nidaa, ormai, ha scelto l’Italia: «Voi spesso non siete consapevoli del fatto che respirate continuamente arte, mangiate arte, esprimete arte» sorride. Lo scorso autunno ha iniziato la sua vita libera tra la Romagna e San Marino, dove tiene seminari di fotografia artistica all’università del Design.
«Ho ottenuto da Israele e da Hamas il permesso di uscire da Gaza solo grazie a padre Ibrahim Faltas, il francescano parroco di Gerusalemme» tiene a precisare. «Senza il suo aiuto sarei ancora laggiù. Mi manca la mia famiglia, ho due fratelli e tre sorelle, però non voglio tornare. Paradossalmente il nostro problema più grave non è Israele, ma l’insieme di restrizioni imposte da Hamas: non esiste più un cinema a Gaza, un posto dove ritrovarsi in serenità e confrontare idee. I giovani si suicidano: in questi giorni tanti si danno addirittura fuoco per disperazione».
Ricorda la sua prima mostra, nel 2015 a Gerusalemme: «Non mi diedero il permesso di lasciare Gaza e non la vidi». In una delle sue foto più inquiete, Nidaa stringe in mano l’iPhone nell’attesa del messaggio che le annuncerà il visto per l’Italia, questa volta davvero libera di varcare il muro dietro il quale è cresciuta. Ricorda anche l’operazione militare israeliana “Protective edge”, dell’estate 2014: un conflitto terminato con oltre duemila vittime, più di undicimila feriti e tonnellate di macerie tuttora da rimuovere. «Anche allora rimasi nella mia stanza – dice – cercando rifugio nell’arte».
Nelle sue immagini ricorre un gallo, l’unico essere animato con cui l’artista interagisca davanti all’obiettivo: «Nella simbologia araba il gallo rappresenta l’uomo – spiega – un’energia maschile che vuole zittirmi. In mano ho un oud, strumento musicale mediorientale, e sono io a intimare al gallo di tacere, per lasciarmi libera». In un’altra foto Nidaa dipinge, ispirata da quadri rossi appesi al muro. Li ha disegnati suo fratello Abood, che ha vent’anni e soffre d’autismo: «Durante il mio isolamento, ogni volta che mi sentiva piangere Abood mi portava un nuovo dipinto: sa che questo mi fa vibrare. Sono diventata come lui, autistica: ho imparato ad attraversare il suo mondo, sapevo come parlare con lui, come fare errori ordinando frasi e parole, come borbottare».
Al fratello è dedicato il nuovo progetto, tra fotografia e pittura, che Nidaa Badwan presenterà l’anno prossimo alla fiera Miart di Milano. Mentre in ottobre allestirà a San Marino una mostra di inediti patrocinata dall’Unesco. Ma il suo sogno ricorrente resta quello di «aprire una galleria» confida, «per dare spazio agli artisti che, come me, sono costretti a lottare». E se mai riuscirà a realizzarlo dentro la prigione-Gaza, quel sogno avrà il sapore di un’autentica conquista.