Il 18 marzo, la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein, prossima ambasciatrice di Israele in Italia, ha scritto per Il Giornale un articolo per spiegare come mai Israele e gli israeliani siano felici nonostante l’intifada, il terrorismo, i pericoli quotidiani. Lo spunto è arrivato dalla classifica del World Happiness Report, che vede ai primi tre posti delle isole felici come Danimarca, Svizzera e Islanda (Norvegia al quarto) e Israele all’undicesimo posto, ben davanti all’Italia che è cinquantesima. Come mai? Fiamma Nirenstein lo spiega, e ciò che ha scritto è destinato a far riflettere italiani ed europei.
La felicità, alla fine che cos’è? Un articolo sul Giornale lo spiegava ieri: il Pil, l’aspettativa di una buona vita, il sostegno sociale.
Eppure quando si arriva al numero 11 (e bisogna pensare che l’Italia è la cinquantesima in lista) troviamo Israele, e allora chi non lo conosce deve sforzarsi e compiere una bella capriola filosofica e, fuori delle foreste ossigenate e pettinate, pensare.
Perché quel Paese da sempre in guerra, Israele, è felice, molto felice, addirittura sempre più felice: è salita dal 14° posto della lista precedente all’11esimo odierno nonostante le terribili perdite, il terrorismo, l’impervio compito di far fiorire il deserto, il clima talora molto caldo, nonostante lo scontro interno fra componenti ideologiche diversissime, con i super laici di Tel Aviv, i haredim, Pace Adesso, i coloni, la destra, la sinistra. Nonostante le critiche furibonde e ossessive dell’universo mondo, nonostante le disparità sociali che la mettono sempre a confronto col tema della povertà di parte della popolazione. Perché? Se io, che ci ho vissuto e ci vivo, penso alla felicità descritta nelle statistiche, mi viene prima di tutto in mente una marea di bambini: li vedo a Gerusalemme e a Tel Aviv, nei parchi e al mare. Sciamano per la strada, nei luoghi pubblici in carrozzina, nei supermarket sui trolley, sui mezzi di trasporto, ai bar, ai ristoranti. Chiedono, cantano, insistono. In Italia, in Europa, i livelli di crescita sono sottozero. Invece il popolo ebraico ha trovato in Israele la terra della sua rinascita, ed è questo che lo rende felice. Ha uno scopo, un significato: ha sofferto, ma è sopravvissuto, ha fatto di Israele il nido della sua vittoria morale. Lo ha fatto al meglio, diventando indispensabile al mondo intero con le sue scoperte mediche e tecnologiche. Ha costruito università, strade, ferrovie, satelliti, ha inventato i più nuovi computer. Ascolta musica e legge libri, i giovani organizzano feste e le famiglie passeggiano senza tregua, ogni week end, esplorando adesso la fioritura dei peschi e fra un po’ dei papaveri. Quindi Israele è contento, semplicemente di essere vivo e di proseguire con successo la sua vittoriosa lotta quotidiana per farcela. E producendo nel compito molti eroi, ci è abituato e non fa tante storie.
La seconda evidente ragione della sua felicità è che ha una comunità che resta unita anche quando si scontra in un confronto super critico. La gente di Israele è contenta perché è «insieme», la famiglia è unita, i giovani della stessa generazione hanno mille occasioni, prima fra tutte l’esercito, per sentirsi una cosa sola. Le feste religiose sono una maniera di vivere una incredibile esperienza culturale insieme, religiosi e laici. Nel giorno di Kippur, Gerusalemme e Tel Aviv sono isole di silenzio, negli spazi senza traffico sfrecciano le biciclette dei ragazzini, tutta la gente tace e digiuna; i supermarket vendono solo pane azzimo nella settimana di Pesach e tutti sanno perché: religiosi e laici, tutti furono schiavi in Egitto. E ora sono liberi, in Israele. Quindi sono felici.