Giulio Meotti è giornalista de Il Foglio dal 2003. Ha scritto quattro libri su Israele, tradotti in più lingue, e si occupa spesso anche nei suoi articoli di Medio Oriente, antisemitismo e situazione degli ebrei in Europa e nel mondo. E’ quindi uno dei massimi esperti di Israele e Islam nel mondo dell’informazione italiana, oltre ad essere uno dei pochi giornalisti a difendere le ragioni di Israele e il suo diritto ad esistere. Quasi una mosca bianca tra giornalisti e intellettuali del Belpaese.
A lui abbiamo chiesto un bilancio su Israele e sull’antisemitismo in Europa, in questa intervista che ha accettato di rilasciare in esclusiva per L’Informale.
Giulio Meotti, crediamo che non sia un’esagerazione considerarla il giornalista italiano che si spende maggiormente a favore di Israele. Quali sono le ragioni di questo impegno così appassionato?
Israele è il baluardo delle nostre libertà. Se cade Israele, l’Islam radicale inonderà l’Europa più di quanto già non faccia oggi. Israele è come Venezia durante l’espansione ottomana. Questo per me da un punto di vista culturale. Professionalmente, Israele è maltrattato ogni giorno dai miei colleghi giornalisti, che si bevono ogni menzogna e ogni sorso di fiele antisemita. Per me è inaccettable. E penso ne vada molto anche della nostra capacità critica come democrazia.
Quanto è difficile difendere le ragioni di Israele in una società in cui il mondo intellettuale ed accademico è orientato in senso opposto?
Molto difficile. Oggi Israele è l’appestato delle nazioni, è un pariah, un agente infettivo e patogeno. Non si può dire il suo nome nell’alta società senza suscitare un sussulto di indignazione. C’è un nuovo antisemitismo potentissimo e che seduce giornalisti, politici, accademici, burocrati, gente di strada. In questo clima, difendere Israele non porta molto bene. Ma non si può sempre pensare a cosa convenga, altrimenti anziché il giornalista si dovrebbe fare l’esperto di cucina.
In diversi Suoi articoli non ha risparmiato critiche nei confronti della Chiesa, relativamente a Israele. Come vede la situazione oggi con l’attuale pontefice rispetto a Benedetto XVI? Nota un cambiamento?
La Chiesa deve fare di più per accogliere Israele e gli ebrei, le loro ragioni, i loro diritti. Dopo il 1945, la Chiesa ha separato il dialogo con l’ebraismo dalla sua politica verso Israele, filopalestinese, filoaraba, filoislamica. Vorrei una Chiesa alleata con il mondo ebraico e Israele e contro l’oscurantismo arabo-islamico.
L’immagine che traspare da ciò che scrive è quella di un conservatore, un tradizionalista con una conseguente spiccata avversione nei confronti della visione progressista ritenuta appannaggio della sinistra. Lei come si collocherebbe?
Mi definirei un liberale conservatore. Trovo ridicola e un tantino orrenda la visione progressista della vita umana, della politica, della cultura, della storia. Sono per il vivi e lascia vivere, ma sempre all’interno di un patrimonio condiviso di valori, valori non negoziabili.
Qual è la Sua opinione su Benjamin Netanyahu? Lo ritiene il leader giusto per Israele?
E’ un leader che attrae tutte le volontà di resa dell’occidente. Questo me lo rende molto simpatico.
Nel suo libro più importante, il grande pensatore riformista sudanese Mahmoud Mohamed Taha ha ripartito l’Islam in due messaggi distinti, quello della Mecca improntato a un messaggio morale universale e quello di Medina dentro il quale è formata la sharia ed è presente il concetto di jihad. Per Taha solo il primo messaggio meccanese poteva rappresentare il futuro. Lei è d’accordo?
Sì, ma l’islam radicale, letteralista, sta vincendo, mettendo a tacere le poche voci libere del mondo arabo. Chi uccide ha sempre vita facile.
Foto: Ariel Nacamulli