All’indomani dell’eccidio del 7 ottobre 2023, gli israeliani erano ampiamente concordi sul fatto che Hamas non dovesse più governare Gaza: anzi, doveva essere distrutto. Circa 16 mesi dopo, tuttavia, Hamas rimane un’istituzione potente. Di conseguenza, la questione della futura governance di Gaza è fluida e confusa.
Questa situazione solleva diversi interrogativi: Perché il potente esercito israeliano, quello che ha sconfitto tre eserciti di Stati arabi in sei giorni, non è riuscito a sconfiggere una milizia disorganizzata? Quali sono le possibili strade da percorrere per Gaza? Qual è il risultato più probabile? E quale sarebbe il migliore?
Ira
Un consenso israeliano è emerso subito dopo il 7 ottobre sulla necessità di distruggere Hamas, al potere a Gaza dal 2007. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha promesso in vari modi che Hamas sarebbe stato “sconfitto”, “demolito”, “distrutto” ed “eliminato”. Altre figure governative di spicco gli hanno fatto eco, con l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant che ha dichiarato: “Non ci sarà alcuna situazione in cui i bambini israeliani saranno assassinati nei campi e in cui Hamas continuerà a esistere”. E così l’ambasciatore delle Nazioni Unite Gilad Erdan ha asserito: “È il momento di cancellare l’infrastruttura terroristica di Hamas, di cancellarla completamente”. Le personalità pubbliche hanno dato sfogo a un’ira univoca. Gallant ha definito i membri di Hamas “animali umani” e l’ex premier Naftali Bennett li ha denominati “nazisti”.
E poi sono arrivate le minacce. Il vice-presidente della Knesset ha invitato Israele a “bruciare Gaza”. Un anonimo funzionario della difesa ha dichiarato che “Gaza si trasformerà in una tendopoli. Non ci saranno edifici”. Il ministro del Patrimonio ha esortato ad attaccare con armi nucleari il territorio di 365 chilometri quadrati di Gaza, un’area un po’ più grande di Albany, nell’Australia occidentale. Una canzone hip-hop che prometteva di scatenare l’inferno sui nemici di Israele è balzata in testa alle classifiche sulle piattaforme social. Un cantante pop ha esortato Israele a “cancellare Gaza. Non lasciarci una sola persona”. Un conduttore televisivo è esploso in una sfuriata mentre era in onda, dicendo:
“Vi distruggeremo. Continuiamo a dirvelo ogni giorno: Stiamo arrivando. (…) Avete idea di quanti di voi uccideremo per ognuno dei 1.300 israeliani che avete massacrato? Il bilancio delle vittime raggiungerà numeri mai visti nella storia dei Paesi arabi”.
In breve, a parte qualche timido dissenso espresso da sparuti esponenti della Sinistra, Israele è stato pervaso da un clima ferocemente contrario a Hamas e a Gaza.
Impasse
Due importanti sviluppi hanno impedito a Israele di agire per raggiungere questi obiettivi: i suoi ostaggi e gli alleati di Hamas.
Il rapimento di circa 250 residenti in Israele ha creato una coorte numerosa, rumorosa e politicamente influente che ha convinto circa due terzi del corpo politico israeliano del fatto che il rilascio degli ostaggi avesse la precedenza sulla sconfitta, la demolizione, la distruzione e l’eliminazione di Hamas. Mentre la furia iniziale si trasformava in una sobria preoccupazione per le vittime detenute in circostanze terribili, l’ansia di raggiungere un accordo con Hamas significava accettare la sua sopravvivenza.
Al contempo, il 7 ottobre ha spinto sia la Repubblica Islamica dell’Iran che i suoi proxy, Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen, ad attaccare Israele in quella che è diventata nota come strategia “dell’anello di fuoco” di Teheran, ossia il lancio di missili e droni dall’Iran contro Israele; di missili e razzi di Hezbollah contro il nord dello Stato ebraico, che ha portato all’evacuazione di circa 80 mila israeliani; e di attacchi con missili e veicoli aerei senza pilota dallo Yemen. L’insieme di questi attacchi ha spinto Gerusalemme a rispondere, soprattutto contro Hezbollah ma anche contro l’Iran e gli Houthi, accantonando così prematuramente la guerra contro Hamas e lasciando incompleto lo sforzo bellico a Gaza.
Altri sviluppi hanno ulteriormente contribuito a distrarre l’attenzione dall’obiettivo primario, ossia i problemi legali di Netanyahu e il suo intervento chirurgico, le continue minacce dei suoi partner di coalizione di andarsene e l’accordo imposto da Trump per scambiare prigionieri palestinesi con ostaggi israeliani, in cui Israele ha di fatto acconsentito a non riprendere la guerra contro Hamas.
Nel complesso, questi fattori hanno portato all’attuale stallo, lasciando il governo israeliano confuso e incapace, con uno sforzo militare vacillante e senza un obiettivo chiaro. I report dell’intelligence statunitense indicano che dopo il 7 ottobre Hamas ha reclutato da diecimila a quindicimila membri. Secondo il Washington Post, Netanyahu “può aver decimato le capacità di combattimento di Hamas e raso al suolo gran parte di Gaza, ma non è riuscito ad allentare completamente la presa del gruppo all’interno dell’enclave”. Amos Yadlin, ex capo dell’intelligence militare israeliana, ritiene che “Israele abbia fallito nella sua missione di distruggere Hamas come governo”. Valutando quasi 16 mesi di combattimenti, Giora Eiland, ex direttore del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano, ha definito la guerra di Gaza “un fallimento”.
Possibili soluzioni
Come prevedibile, le proposte per il “giorno dopo” a Gaza coprono un ampio spettro. Andando in ordine approssimativo dalla posizione israeliana meno assertiva a quella più ferma, tali proposte prevedono:
Governo di Hamas: Lo stesso Hamas intende ovviamente mantenere il controllo di Gaza e in questo può contare sul sostegno di diversi governi importanti, tra cui quelli di Turchia e Qatar. Chaim Levinson di Ha’aretz afferma categoricamente che “l’ambizione del Qatar è quella di stabilire una colonia” a Gaza.
Governo dell’Autorità Palestinese: l’Amministrazione Biden e quasi tutte le potenze occidentali, così come le organizzazioni internazionali, chiedono che alla decrepita Autorità Palestinese (AP) di Mahmoud Abbas in Cisgiordania venga data la possibilità di governare Gaza. Per gli occidentali, questo significa rafforzare l’AP in modo che governi in modo efficace. Per i Paesi a maggioranza musulmana, ciò comporterebbe che Hamas continui a governare, come spiega il giornalista israeliano Khaled Abu Toameh: “Il governo dell’Autorità Palestinese [rimuoverà] i detriti, ricostruirà le case distrutte e pagherà gli stipendi ai palestinesi a Gaza, mentre Hamas si impegnerà a riarmarsi, riorganizzarsi e prepararsi per il prossimo attacco a Israele”.
Forze multinazionali: Vari commentatori propongono un mix di forze arabe e internazionali, magari sotto l’egida delle Nazioni Unite, per garantire la sicurezza a Gaza.
Un autogoverno gazawi appoggiato da Israele: Netanyahu è favorevole all’idea che Gerusalemme collabori principalmente con i cittadini di Gaza per ricostruire il loro territorio. “Gli affari civili e l’ordine pubblico saranno gestiti da attori (funzionari) locali con ‘esperienza amministrativa’” e non saranno collegati alla violenza contro gli israeliani. L’esercito israeliano ha mosso i primi passi con un progetto pilota informale di ciò che chiama “zone umanitarie” nelle aree di Gaza dove Hamas non governa. Questi organi di governo locali sono costituiti da leader della comunità incaricati di distribuire aiuti umanitari e rivedere i programmi scolastici.
Governo israeliano: La Destra in Israele chiede l’espulsione degli abitanti di Gaza e del territorio rioccupato e colonizzato dagli israeliani. Ciò ha trovato un sorprendente sostegno da parte degli Stati Uniti, tra cui il governatore della Florida Ron DeSantis, il senatore Tom Cotton e l’ex ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Nikki Haley. In particolare, però, il presidente Donald Trump ha ripreso l’idea affermando: “Si parla probabilmente di un milione e mezzo di persone e noi possiamo fare pulizia. Preferirei lavorare insieme ad alcuni Paesi arabi e costruire abitazioni in un luogo diverso, dove forse possono vivere in pace per un cambiamento”, specificando poi Egitto e Giordania come Paesi di destinazione.
La soluzione più probabile contro quella migliore
Alcuni di questi scenari non hanno possibilità di concretizzarsi, a partire dall’espulsione dei gazawi. In parole povere, quale Paese accoglierebbe questa popolazione di due milioni di persone? Porsi tale interrogativo significa, al contempo, darsi una risposta.
Un governo dell’Autorità Palestinese è quasi altrettanto improbabile, dato che non controlla pressoché nessuna parte della Cisgiordania e tutti i governi attuali e futuri di Gerusalemme bloccherebbero una mossa del genere perché, non meno di Hamas, l’AP mira alla distruzione di Israele.
Anche se si potessero trovare e pagare forze arabe e internazionali, precedenti iniziative multinazionali (ad esempio, la debole “European Union Border Assistance Mission (EUBAM) al valico di Rafah” o le fallimentari guardie britanniche e statunitensi incaricate di vegliare le condizioni dei reclusi nel carcere di Gerico) suggeriscono che ciò consentirebbe la piena ricomparsa di Hamas, e quindi tale opzione verrebbe respinta da Israele. Come osserva Eugene Kontorovich del Kohelet Policy Forum, “in Medio Oriente, queste missioni si sono dimostrate inutili e nei rari casi in cui sono state efficaci sono state d’aiuto all’aggressore”. Detto questo, in piccola parte, ciò è già avvenuto, con un centinaio di soldati a contratto americani che presidiano un posto di blocco a Gaza.
Dopo aver scartato tre opzioni a disposizione, resta sul tavolo la soluzione dell’autogoverno gazawi, sotto l’egida di Hamas o di Israele. Se inizialmente il governo di Hamas sembrava fuori discussione, oggi sembra essere l’esito più probabile, con tutti gli orrori che ciò comporta per gli abitanti di Gaza e gli israeliani.
La soluzione migliore è che i cittadini di Gaza governino sotto la supervisione israeliana, opzione sostenuta da Netanyahu. Già nel pomeriggio del 7 ottobre, mentre il massacro era in corso, ho scritto un articolo in cui asserivo che, l’attacco a Israele da parte di Hamas “è un orrore umanitario”, ma “anche un’opportunità strategica per Israele, gli Stati Uniti e le democrazie di tutto il mondo”. E ho aggiunto che una volta che Gaza sarebbe stata ripulita da Hamas, “Israele riscontrerà che un gran numero di suoi abitanti è disposto a ripartire da zero e a costruire in modo produttivo la propria vita invece di focalizzarsi incessantemente e irrimediabilmente sull’obiettivo di distruggere Israele”.
Purtroppo per i gazawi e per gli israeliani, la priorità israeliana di liberare gli ostaggi e la distrazione dovuta alla risposta data agli alleati di Hamas hanno fatto sì che le forze israeliane non abbiano distrutto Hamas, non abbiano liberato gli abitanti della Striscia dall’oppressione e dall’estremismo e Israele da un gruppo jihadista sanguinario. Ciò che un tempo sembrava probabile ora sembra utopistico. Ancora una volta, il sopravvalutato apparato di sicurezza israeliano è riuscito a strappare la sconfitta dalle fauci della vittoria.
https://www.danielpipes.org/22473/israel-military-failure-gaza-dismal-future
Traduzione di Angelita La Spada