Editoriali

Profilassi contro la dissonanza cognitiva

Che la guerra a Gaza, la più lunga guerra mai intrapresa da Israele a seguito dell’eccidio di Hamas del 7 ottobre 2023 volgesse al termine si era reso plastico quando l’inviato scelto per il Medio Oriente da Donald Trump, Steven Witkoff, il 15 gennaio incontrando a Gerusalemme Benjamin Netanyahu, gli fece una offerta che non poteva rifiutare. Cosa si siano detti di preciso in quell’occasione è ignoto ai più, ma la deduzione è facile, “Acetta l’accordo con Hamas, Trump lo vuole e ti conviene, soprattutto perché lo vuole. Lui ha progetti grandiosi per il Medio Oriente e non vuole intralci”.

Queste immaginarie frasi di Witcoff, uomo vicinisimo al Qatar, grande sponsor di Hamas, con il quale ha fatto importanti affari, contengono realtà fattuali: il ruolo egemone del Qatar negli accordi per il rilascio degli ostaggi, la vicinanza al Qatar di Witcoff, e gli ottimi rapporti del ricchissimo e minuscolo emirato con Trump stesso, il quale, il settembre scorso, quando l’Emiro Al-Tahani ando a trovarlo in Florida, lo definì “uomo di pace”.

Più recentemente è stato lo stesso Witcoff a dichiarare che sarebbe buona cosa se la Casa Bianca aprisse con Hamas un canale di comunicazione diretta, magari un telefono verde al posto di quello rosso che esisteva all’epoca della Guerra Fredda e forniva la comunicazione diretta tra Washington e il Cremlino.

Il fischio di fine partita vero è arrivato però due giorni fa, quando è cominciato il rientro al nord di Gaza di mezzo milione di rifugiati, fatti spostare da Israele a sud della Striscia, una umana fiumana biblica. Chiunque pensi che il ritorno degli sfollati, il loro cospicuo addensamento umano in zone dove Hamas non ha mai smesso di operare, preluda a prossimi bombardamenti dovrebbe rinfrescarsi la memoria sul concetto di dissonanza cognitiva, elaborato da Leon Festinger nel 1957, in base al quale lo psicologo spiegava i meccanismi di difesa che entrano in azione a ripulsa di ciò che della realtà non ci piace e sconfessa le nostre convinzioni più profonde.

I fatti, i bruti e crudi fatti, ci dicono che dopo quindici mesi di guerra, dopo la massiccia distruzione di una parte di Gaza, dopo il depotenziamento alrettanto massiccio delle strutture operative di Hamas, dopo l’uccisione sistematica dei suoi capi, tra cui il “capo dei capi”, Yahya Sinwar, Hamas è ancora in controllo della Striscia e può contare su reclutamenti freschi che i Servizi americani stimano intorno ai diecimila, quindicimila combattenti.  Se questo scenario si può definire una vittoria da parte di Israele coorerrà presto ridefinire il senso del termine, un po’ come è accaduto per “genocidio”, utilizzato dagli odiatori dello Stato ebraico al punto da provocarne il corto circuito.

Si può dare torto a Hamas quando proclama la vittoria? Quando afferma che la “resistenza” ha avuto la meglio nei confronti dell’ “aggressore”? Tutto questo è illusione ci dicono i narratori dell’epica israeliana, per i quali israele vince sempre anche quando perde, o come, in questo caso, raggiunge una vittoria mutilata. A un certo punto arriveranno i nostri e faranno tabula rasa.

Di nuovo la realtà incalza. Donald Trump non vuole guerre, la sua visione del mondo è impostata sulla negoziazione, sul primato dell’economia sulla politica, it’s all about money, baby. Per lui il nuovo Medio Oriente ha come vettore principale gli Accordi di Abramo, l’isolamento dell’Iran e la realizzazione della via del Cotone, il grande progetto di intesa tra Europa e il Golfo, che prevede quella una tra Riad e Gerusalemme e tra India e Golfo, e che, sotto egida americana, si contrapponga alla Via della Seta cinese. In questa prospettiva fastosa, che Hamas contiui a governare a Gaza, seppure fortemente indebolito, è considerato marginale.

Il quatro febbraio Netanyahu andrà a Washington, dove, primo leader internazionale a farlo, incontrerà il neo eletto presidente. La cosa più probabile è che ottenga un maggiore impegno per la difesa di Israele, l’incondizionato appoggio alla sua necessità di deterrenza, molte pacche sulle spalle, ma certo non la disponibilità a ricominciare la guerra a Gaza. Non la vuole Trump, non la vogliono i sauditi, nonon la vuole il Qatar e, alla fine non la vuole un pezzo importante dell’esercito e degli apparati israeliani, quello che fin dal principio affermava che l’obiettivo della guerra non era sconfiggere Hamas, ma liberare gli ostaggi. Israele dovrà accontentarsi di avere inferto a Hamas il più duro colpo da quando esiste, e di avere quindi rinforzato la propria deterrenza. Si ritorna dunque alla casella di partenza, quella pre 7 ottobre.

Certamente due pezzi grossi dell’Aministrazionnnne Trump, Marco Rubio, Segretario di Stato e Mike Waltz, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, dichiarano che Hamas non governerà più Gaza, ma fino a quando non lo dirà Trump, i loro sono solo flatus vocis.

La storia insegna che le guerre vinte parzialmente fanno covare le braci sotto la cenere e preparano nuovi incendi, soprattutto in Medio Oriente. Hamas è ormai una realtà transnazionale, l’avanguardia più agguerrita della Fratellanza Musulmana, ed è protetto dal Qatar, sostenuto dalla Turchia, e certamente anche dall’Iran che non è affatto fuori gioco. Al Qaeda è stata disarticolata, e così l’Isis, ma non Hamas, e non perché sia più forte, ma perché fin dall’inizio questa guerra non è stata combattuta realmente per sconfiggerlo. Per Hamas, come per Al’Qaeda e l’Isis, la politica viene prima dell’economia. Ritengono che sia l’ideologia che muove gli eventi della storia più della prosperità economica.

Ci vorrebbe qualcuno che lo facesse presente a Trump.

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