Editoriali

7 ottobre

Un anno fa oggi, Hamas entrava in Israele perpetrando il maggiore eccidio di ebrei post Shoah. Coglieva Iseaele di sorpresa, provocando un trauma che ancora oggi è vivo e mettendo in luce, nel giro di pochissimo tempo, una realtà nota da tempo, ma mai così evidente; che agli ebrei, a cui si è perdonato attraverso una lunga e travagliata storia di essere ebrei, non è mai stato perdonato il Paese che hanno creato.

Il 7 ottobre ha messo a nudo, rapidamente, la cattiva coscienza dell’Occidente, la sua stucchevole ipocrisia, ha fatto cadere con un tonfo tutta la insopportabile retorica delle giornate della Memoria, riassunte nella formula stantia “Mai più!”. E’ stato il colpo di grazia dato all’idea che il genocidio perpetrato dai nazisti ottanta anni fa fosse da archiviare come un orrore irripetibile, irriproducibile, quando tremila jihadisti di Hamas, nel giro di poche ore hanno massacrato milleduecento ebrei (e tra loro anche pochi non ebrei), che sarebbero diventati idealmente tutti gli ebrei israeliani se non fossero stati fermati.

“Genocidio”, parola ben precisa, coniata da Raphael Lemkin giurista polacco ebreo per descrivere lo sterminio programmatico del suo popolo da parte dei nazisti, e ritorto oggi contro gli stessi ebrei vittime designate da altri potenziali perpetratori di genocidi, per trasformarli nei colpevoli, una volta che hanno reagito iniziando a bombardare Gaza. E qui, qui, si manifesta uno dei più consolidati tropi antisemiti, quello per il quale se gli ebrei vengono uccisi è colpa loro e se reagiscono contro chi ha cercato di ucciderli, sono colpevoli due volte.

La colpevolezza ebraica, ontologica per Hitler, è soprattutto oggi, dopo il 7 ottobre, la colpevolezza di Israele, ontologica anch’essa, che per essere dissociata dall’antisemitismo diventa antisionismo, ovvero l’antisemitsmo à la page, quello sdoganabile, così come “sionista”, da parola designante tutti quegli ebrei che volevano autodeterminare il loro futuro sottraendolo all’arbitrio degli altri, è diventato, nelle menti deragliate degli odiatori una sorta di marchio di Caino, emblema di sopraffazione e usurpazione.

Tuttavia il 7 ottobre è anche qualcos’altro, è l’incudine su cui battere il martello del proprio riconoscersi a fianco di Israele, delle sue ragioni, della sua volontà di resistere e combattere l’oscurantismo feroce del radicalismo islamico. È stato ed è la prova del nove che permette di riconoscere coloro i quali lo giustificano, lo appoggiano, o lo obliano, chinandosi affranti sulle vittime civili di Gaza come se non ce ne fossero mai state altre, e molto più copiose, e molto molto meno piante, accusando Israele di stragismo e di barbarie, di uccidere preferibilmente donne e bambini.

Siamo qui, dopo un anno, con Israele costretto a combattere una guerra su più fronti, che non ha cercato, non ha voluto, come tutte le altre guerre precedenti di cui è stato vittima, mentre a Gaza, in condizioni disumane sono detenuti, non si sa quanti di loro ancora vivi, più di cento ostaggi, ad assistere al più virulento rigurgito di antisemitismo dalla fine della Seconda guerra mondiale, ad ascoltare chi, Francia in testa, la Francia che già tradì Israele nel 1967, bloccando la fornitura di armi che gli aveva destinato, chiedere che non gli vengano più mandate armi.

“La solitudine di Israele”, così si intitola l’ultimo libro di Bernard-Henri Lévy, ovvero il suo isolamento, il recinto, o ghetto di appestato, di paria, che gli è stato in buona parte costruito intorno, la solitudine che ottanta anni fa costò la vita a sei milioni di ebrei, ma che oggi, nonostante il prezzo alto da pagare, non farà piegare a Israele la testa, non permetterà a chi ne vuole la scomparsa, che questa avvenga.

Il 7 ottobre è stato ed è per Israele, che oggi lo commemora, giorno atroce e di orrore puro, giorno di disfatta, ma, come sempre nella storia ebraica anche pungolo a rialzarsi, ad afferrare di nuovo il proprio destino, a non delegarlo ad altri, a combattere per affermarlo, per matenerlo saldo.

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