Israele e Iran

L’esempio di Begin e il carpe diem di Netanyahu

Quando, nel 1981, Menachem Begin diede via all’Operazione Opera, il cui obiettivo fu la distruzione del reattore nucleare che Saddam Hussen stava ultimando a Osirak in Iraq, le reazioni degli Stati Uniti e non solo furono oltraggiate, si parlò di abuso, di terrorismo di Stato, di violazione della legge internazionale, esattamente quello che è accaduto recentemente dopo le azioni preventive contro Hezbollah. Con l’Operazione Opera si inaugurò la cosiddetta “dottrina Begin”, riassumibile semplicemente con, “Noi vi colpiamo prima che ci colpiate voi”.

Sono passati 43 anni, e Israele si trova ancora nella necessità di colpire prima che il nemico possa avere la forza di colpirlo. Dopo il traumatico fallimento dell’intelligence che ha causato il 7 ottobre, si è deciso di intervenire al sud del Libano per evitare un altro 7 ottobre, colpendo pesantemente Hezbollah, decapitandone i vertici, e ora, a seguito del secondo attacco missilistico dell’Iran su Israele, Israele è pronto a rispondere contro il principale agente di destabilizzazione regionale, il  suo nemico principale.

Per più di un decennio, Benjamin Netanyahu ha messo in guardia il mondo sul pericolo iraniano, massimamente potenziato dalla sua capacità di dotarsi di armamenti nucleari, possibilità che, con il passare del tempo, è diventata una realtà sempre più concreta e una minaccia per la stessa sopravvivenza dello Stato ebraico.

Nel 2015 Netanyahu volò a Washington, dove, al Congresso, tenne un memorabile discorso intervallato da numerose standing ovation, durante il quale mise in guarda dal rischio che comportava l’accordo che l’Amministrazone Obama si apprestava a siglare con Teheran allo scopo di frenare il programma nucleare iraniano. Netanyahu sapeva che quell’accordo era fallato, che l’Iran avrebbe trovato il modo di aggirarne le clausole, che di fatto gli si lasciava la possibilità di raggiungere il suo scopo, non subito, ma a gradi. Obama stava solo “buying time”, acquistando tempo, ma Israele non aveva bisogno di un accordo che spostasse più avanti la minaccia, se accordo doveva esserci, ce ne voleva uno molto più rigoroso e coartante.

Dopo quasi dieci anni, l’Iran non ha mai smesso di lavorare al nucleare da impiegare a scopo militare, è stato solo frenato da operazioni di sabotaggio israeliane, uccisioni mirate di addetti al suo programma, attacchi cyber, ma si tratta di azioni non risolutive, non come fu l’Operazione Opera.

Colpire e distruggere i siti nucleari iraniani, incavati nella roccia in profondità rappresenta una sfida molto più complessa di quella che dovette affrontare Begin nel 1981, diustruggendo un solo reattore ben visibile nel deserto, ma non ci sono strade alternative per debellare la minaccia. Adesso, dopo il 7 ottobre, dopo due attacchi missilistici dell’Iran, è arrivata l’ora, l’onda è alta, ed è necessario cavalcarla prima che si abbassi e forse non si ripresenti più.

Ci si chiede se Israele possa agire senza il supporto logistico statunitense, i pareri sono contrastanti, ma una cosa è certa, l’Amministrazione Biden, dove sono incardinati nei posti chiave gli uomini di Obama, e retta da un presidente che è ormai nelle condizioni di essere solo un passacarte, non vuole che i siti nucleari vengano colpiti, non vuole che l’Iran, con cui ha continuato imperterrita la politica di pacificazione voluta da Obama, venga messo in grave difficoltà.

Fin dall’inizio della guerra scoppiata a Gaza, a seguito dell’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, l’Amministrazione Biden ha cercato costantemente di commissariarla, di indirizzare Israele lungo i binari della propria agenda politica che non solo non è quella dello Stato ebraico, ma è in evidente contrasto con la sua.

Netanyahu è stato abilissimo nel gestire la situazione, concedendo e ritirando, aprendo e chiudendo, facendo in modo che gli americani ottenessero in buona parte quello che chiedevano, ma, allo stesso tempo, continuando sulla linea che si era dato, smantellare Hamas a Gaza, linea che sta proseguendo infaticabilmente.

Il problema urgente, tuttavia, non è Hamas, ormai ridotto alla residualità dopo un anno di combattimenti, ma è l’Iran, il suo puparo. Netanyahu è giunto ora, alla viglia dell’eccidio del 7 ottobre, al punto cruciale della sua carriera, a uno snodo che potrebbe farlo passare alla storia come colui che ha messo Israele in sicurezza dopo il  grande fallimento precedente, di cui non si può negare anche la sua responsabilità.

Quarantatre anni fa Menachem Begin fece prevalere la sicurezza di Israele sopra ogni altra considerazione, annichilendo le velleità atomiche dell’Iraq, oggi è il testimone è passato a Netanyahu. Saprà seguirne l’esempio fino in fondo?

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