Editoriali

La riscossa

“Il vantaggio quasi unico dell’offensiva consiste nella sorpresa”

Karl von Clausewitz

L’Ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran, è stato trasferito in luogo “sicuro”. Dopo l’uccisione inaspettata del suo sodale e plenipotenziario in Libano, Hassan Nasrallah, l’anziano chierico ha scoperto improvvisamente la propria fragilità. Non è solo la sua, ma quella del regime sanguinario che da quarantacinque anni governa l’Iran.

A seguito dell’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, Israele è apparso a tutti un paese vulnerabile e traumatizzato, l’Iran incassava un risultato importante, seguito dall’apertura di due fronti a sud e nord, la tenaglia che avrebbe dovuto stritolare lo Stato ebraico e a cui, successivamente, si sarebbbero aggiunti altri attori armati e quelli senza armi ma altrettanto perniciosi, gli attivissimi promotori del lawfare combattuto all’ONU, all’Aia, mediaticamente.

A ormai quasi un anno di distanza la situazione ha subito una trasformazione profonda.  La riscossa di Israele si è concetrata in modo impressionante nel giro di poche settimane e ha avuto come epicentro il Libano. Come ha sottolineato il colonnello Richard Kemp, l’ex comandante delle forze britanniche in Afghanistan, “Il rapido attrito di Israele contro Hezbollah avvenuto nelle ultime due settimane non ha precedenti in nessun’altra campagna militare di cui io sia a conoscenza”.

Il culmine di questo attrito è stata l’uccisione, venerdì, del lord of terror Hassan Nasrallah avvenuta a Beirut a seguito del massiccio bombardamento da parte di Israele del quartiere generale di Hezbollah.

Non si può  evidenziare abbastanza come l’uscita di scena di quello che è stato per trent’anni il capo indiscusso dell’organizzazione jihadista sciita in Libano rappresenti una scossa sismica profonda all’interno dell’arcipelago del terrore promosso e finanziato da Teheran.  Uccisione che segue la progressiva decapitazione del vertice dell’organizzazione, delle due spettacolari operazioni di intelligence che l’hanno preceduta e dei bombardamenti chirurgici dei suoi siti militari e di stoccaggio. Tutto ciò avviene mentre a Gaza la struttura operativa di Hamas è stata disarticolata e si prosegue in operazioni limitate atte a stroncare le sacche di guerriglia rimaste. Yahya Sinwar continua a restare nascosto e protetto dagli scudi umani degli ostaggi, ma ora è sostanzialmente solo, privo di risorse, con i vertici del suo gruppo criminale spazzati via. Quanto tempo potrà resistere?

Nel momento in cui Israele ha ripristinato davanti al mondo la sua postura, quella piegata orribilmente dall’eccidio del 7 ottobre, l’unica strada da percorrere, ora che il nemico annaspa, è quella della forza, ogni tregua, ogni cedimento, gli consentirebbe solo un vantaggio. La vittoria contro l’asse del terrore non può però essere completa senza colpire il suo vertice che non si trova né a Gaza né a Beirut, ma a Teheran. Per quanti colpi decisivi Israele potrà assestare a Hamas (ormai sull’orlo del collasso) e a Hezbollah, finchè a Teheran resterà in vita il regime che li ha sostenuti e li sostiene, si tratterà solo di un vantaggio temporaneo.

Ora, tuttavia, è opportuno concentrarsi sui risultati conseguiti, sulla loro straordinaria portata, nella speranza che il cinque novembre riconsegni alla Casa Bianca il presidente americano che più di ogni altro si è speso per Israele dal dopoguerra a oggi. Per Khamenei, ovunque si trovi, sarebbero sonni ancora meno tranquilli di quelli attuali.

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