Pietro Polieri, Il conflitto irrisolto. Israele e palestinesi, Il Pozzo di Giacobbe, 2024
Il conflitto irrisolto. Israele e palestinesi di Pietro Polieri, ricercatore e professore di filosofia, è un tentativo d’inquadrare il massacro del Sette ottobre nella complessa e articolata geografia mediorientale.
In particolare, il saggio si propone di vagliare alcuni aspetti correlati all’attuale conflitto tra Israele e Hamas: gli Accordi di Abramo, la nuova configurazione dell’antisionismo, gli abusi della Memoria della Shoah e del termine «genocidio». Il volume, dal chiaro impianto «accademico», fa un ampio uso di neologismi e di nuovi termini, utili a definire al meglio concetti, pregni di storia e significato, non di rado impiegati in modo improprio nel discorso pubblico: «antisemitismo», «sionismo», «antisionismo» o «israelianità».
L’autore ha il merito di determinare la natura intrinsecamente antisemita del «nuovo» antisionismo, ossia quello post-fondazione dello Stato d’Israele, che mediante la celebre Legge del ritorno si delinea come «stato del popolo ebraico», istituendo un rapporto simbiotico tra «israelianità» ed «ebraicità». Come scrive acutamente Polieri: «Con la legge del ritorno gli ebrei diventano, volenti o nolenti, tutti ‘stato-centrici/stato-centristi’, ovvero ‘sionisti’, nella misura in cui ogni genere di discorsi o di pratiche, anche evidentemente e palpabilmente anti-sionistici, messi in atto da loro in relazione alla questione della propria identità non può che attraversare, ormai, dopo la fatidica data del 14 maggio 1948, il passaggio obbligato della israelo-statualità». Pertanto, gli ebrei della diaspora sono divenuti «potenzialmente» sionisti e rappresentanti extra-territoriali dello Stato d’Israele, che finisce così per riunire gli «ebraismi disseminati nel mondo». Ne consegue, come spiega articolatamente lo studioso, che qui merita di essere citato nuovamente: «nel momento in cui […] il termine ‘sionismo’ viene a estendere il suo significato e a ‘catturare’ in qualche modo – ovvero grazie alla sua auto-posizione come principale identificativo ebraico generale, in stretta correlazione storica con la fondazione dell’Israele statuale – lo spazio semantico precedentemente attribuito alla dimensione ebraica diasporica, allora automaticamente l’antisionismo si carica dell’antisemitismo, identificandovisi».
A causa di quello che, l’autore, chiama «mutamento di rotta semantica del concetto di sionista», l’opposizione a Israele diviene costitutivamente antisemita. La ricostruzione del suddetto mutamento è ampiamente convincente, tranne per un punto: come il sospetto per la potenziale «israelianità» degli ebrei della diaspora, conduca molti ad aderire alle tesi antisemite più antiche e volgari (ebrei assassini da bambini, dissanguatori di nazioni tramite il denaro, cospiratori per il controllo del mondo…). La continuità e vitalità di questi tropi antiebraici non indica, piuttosto, la permanenza di un’ostilità profonda, quasi inconscia, nei confronti degli ebrei, che trova una sua legittimità e comunicabilità pubblica nell’avversione a Israele come statualità?
Polieri ha anche il merito di affrontare un tema spinoso, trattato anche qui su L’Informale, ovverosia la giustificazione a posteriori del nazismo: l’esecrazione di Israele come «Stato genocida», sollecita, come scrive correttamente l’autore, l’idea che «se gli ebrei sono in grado ‘oggi’ di commettere un genocidio, quasi certamente ne erano capaci anche ‘ieri’, ragion per cui, molto probabilmente, non tutti i torti devono aver avuto quelli che diffidavano di loro in passato e che continuano nell’attualità a temerne e disprezzarne la presenza». Tale contorsione mentale induce a ritenere valide, o quantomeno verosimili, le calunnie secolari elaborate a danno del popolo ebraico.
La riflessione sul «genocidio» occupa un notevole spazio nel saggio e lo fa muovendo dalla più stretta attualità. L’autore non si limita a smantellare, ricorrendo ad argomenti inoppugnabili, l’accusa di «genocidio» mossa a Israele, ma sottolinea come gli ebrei siano passati «dall’essere ‘oggetto’ del genocidio per antonomasia, ovvero quello olocaustico-nazistico, che li ha visti assumere la più ignobile e misera posizione vittimaria mai conosciuta nella storia (in)umana, a essere ‘soggetto’ del genocidio dei palestinesi».
Tale, presunto, «genocidio», risalirebbe alla nascita dello Stato d’Israele, che si qualificherebbe fin dalle origini come «nazista». Lo scopo di questa operazione è quello di destituire Israele «come oggetto (paradigmatico) della memoria olocaustica per porlo beffardamente e oltraggiosamente alla sbarra di una nuova Norimberga», col chiaro intento d’introdurre al suo posto il «Palestinese», considerato epitome di tutte le sciagure storiche. Si tratta di un vero e proprio caso di «negazionismo per sostituzione vittimaria», necessario ai fini dell’offensiva giudiziaria internazionale scatenata contro Israele e la sua legittimità.
Una qualche perplessità in più la solleva il capitolo dedicato agli Accordi di Abramo che, stando all’autore, si caratterizzerebbero, in negativo ovviamente, per la rimozione della questione palestinese della scena politico-economica. Se certamente l’aggressione di Hamas del 7 può essere considerata «frutto consequenziale» della rimozione dei palestinesi, tale rimozione non è mai stata un atto di dimenticanza, bensì il preludio di una più autentica pacificazione. Solo sgonfiando la «quesione palestinese», ossia privandola della sua centralità-ossessività, e con essa di tutte le passioni che l’hanno accompagnata, si sarebbe potuto avviare un «percorso di pace». È stata proprio l’ipermnesia della «questione palestinese» a renderla irrisolvibile.
L’oblio, infatti, è necessario alla pacificazione. La centralità della «questione palestinese» ha significato anche l’onnipresenza delle sue vittime e dei suoi «martiri», che hanno alimentato risentimento e desiderio di vendetta. Affinché vi possa essere pace, i morti devono tacere. Proprio questa «rimozione tecnicamente necessaria» del dilemma palestinese non piace all’autore, che vi ravvisa una «modalità di slittamento e di dilazione impropri», che avrebbe lasciato ad Hamas la decisione circa «tempi e modi» per affrontare la questione. Non vengono, però, presentate le azioni che Israele avrebbe dovuto compiere per sciogliere tale nodo. Il nesso di causalità tracciato tra Accordi di Abramo-Sette ottobre non convince fino in fondo. Gli jihadisti di Hamas hanno agito contro Israele, e indirettamente verso i suoi «alleati» arabi, non tanto perché si sono sentiti oggetto di una qualche «dimenticanza», ma per timore che da questa «sospensione tecnica» del problema palestinese potesse venir fuori una soluzione stabile.
Questi sono i principali temi trattati nel libro, uno studio denso e scrupoloso, quanto mai necessario in un momento di scadimento intellettuale come quello presente. Nonostante alcune, minime, perplessità qui sollevate, così come taluni frettolosi e superficiali (pre)giudizi su Netanyahu disseminati qua e là nel testo (si veda la scontata accusa di «ultradestrismo», anomala in un saggio così attento alle definizioni), il libro di Pietro Polieri rimane un ottimo strumento per chiunque senta la necessità di chiarire e chiarirsi alcuni nodi centrali dell’irrisolto conflitto arabo-israeliano.