Israele e Medio Oriente

Israele sta perdendo la guerra?

Sarebbe bello affermare che dopo sei mesi di guerra a Gaza, Israele è finalmente vicino alla vittoria, purtroppo non solo non è così ma i segni che arrivano ci dicono il contrario.

Già a fine novembre, a guerra appena cominciata, in una intervista a L’Informale, Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum, e tra i più autorevoli analisti di geopolitica mediorientale ci disse che il risultato della guerra, per Israele si sarebbe rivelato un “mezzo fallimento”https://www.linformale.eu/un-probabile-mezzo-fallimento-intervista-con-daniel-pipes/.

Forse Pipes peccò di ottimismo, perché a guardare i fatti oggi, un fallimento completo sembra l’esito più prossimo.  

Tuttavia gli ottimisti diranno che Hamas è stato depotenziato come mai prima d’ora, che la maggioranza dei suoi battaglioni è stata distrutta (ne resterebbero solo sei completamente integri, due al centro di Gaza e quattro a Rafah, all’estremo sud della Striscia), che esso non ha più il controllo del territorio, che non è riuscito, come sperava, a calamitare intorno a sé il mondo islamico, che la supremazia militare e tecnologica di Israele è talmente soverchiante rispetto a quella rudimentale della formazione jihadista, che è inevitabile che essa debba soccombere, che è solo questione di tempo.

Gli ottimisti, quelli che vedono la vittoria di Israele dietro l’angolo, hanno dei buoni argomenti, ma purtroppo non sono decisivi. Il punto debole della loro visione positiva è proprio il fattore tempo, quello che ha maggiormente beneficiato Hamas e ha danneggiato maggiormente Israele. Perché è inutile girarci intorno, più Hamas riesce a resistere anche se fortemente dimidiato, più i suoi leader sono in grado di sopravvivere (e recentemente Yahya Sinwar, l’architetto dell’eccidio del 7 ottobre si è mostrato allo scoperto, ostentando spavalderia), più la ripetutamente annunciata operazione militare a Rafah continua a rimanere un flatus vocis, più la vittoria di Israele perde consistenza riducendosi a un miraggio, a un semplice spauracchio. All’opposto si rafforza Hamas e il suo obbiettivo quasi raggiunto, mostrare al mondo, ma soprattutto a quello islamico, ma soprattutto a quello arabo-palestinese, che nonostante sia stato ridotto ai minimi termini, nonostante la distruzione e i morti civili (la cui esponenzialità è per Hamas solo un lucro), nonostante la superiorità militare di Israele sia ben maggiore alla propria, sta resistendo, è riuscito a resistere,  resistendo ha vinto. Questa e non altra è la vittoria per Hamas, ed è una vittoria che gli sta venendo servita su un vassoio d’argento.

A servirgliela sono, prima di tutto, gli Stati Uniti, che quasi subito, dopo l’abbraccio di cordoglio intorno al corpo martoriato di Israele, hanno iniziato ad avanzare tutta una serie di richieste, a imporre degli aut aut, a ingabbiare la guerra dentro le maglie del loro commissariamento, decidendo tempi e strategie, e imponendo allo Stato ebraico, criteri di soccorso e di tutela umanitaria nei confronti della popolazione di Gaza, che mai essi hanno applicato in nessuna delle loro più recenti operazioni militari riguardo ai civili e che nessun altro paese democratico che si è trovato in guerra ha mai applicato prima, da quella nei Balcani, a quella in Libia, a quella in Siria. Criteri che già di suo Israele ha sempre applicato, ma che gli Stati Uniti hanno esasperato determinando dunque delle condizioni di rallentamento operativo militare inevitabili.

Il secondo attore a servire Hamas è Israele stesso, tramite la conduzione delle operazioni militari in modo tale da non scontentare mai la Casa Bianca, continuando a cedere su ogni richiesta fatta e dunque mostrando solo a parole una risolutezza che fino ad oggi non ha prodotto esiti dirompenti.

L’obbiettivo della guerra era e dovrebbe essere la sconfitta di Hamas, ma su di esso si è poi gradualmente sovrapposto quello della liberazione degli ostaggi, la carta che Hamas, come tutti i sequestratori, ha giocato e gioca a proprio vantaggio.

Se è diventato questo l’obbiettivo prioritario, il quale avrebbe come controparte una lunga tregua (quella che desidera la Casa Bianca, la base per un cessate il fuoco permanente), Israele perderà la guerra.

Nel 2014, l’anno dell’Operazione Margine di Protezione, alla fine del conflitto, Khaled Mashal, il leader di Hamas rifugiato in Qatar, riassunse bene quello che fu il senso della vittoria simbolica del gruppo jihadista. “Abbiamo vinto la battaglia ‘morale’. Ci siamo focalizzati a colpire le truppe che ci hanno attaccato mentre loro hanno ammazzato donne e bambini. Questa è la vera immagine della battaglia”.

Sono le parole che non vorremmo mai venissero pronunciate da Yahya Sinwar.

 

 

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